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LE RIVENDICAZIONI DELLE COLONIE NORDAMERICANE
Essendo sorte in tempi e modi molto diversi le colonie inglesi non rappresentavano un meccanismo unitario. Le diverse origini, convinzioni religiose e attività economiche creavano attriti e fratture tra loro. Per questo erano convinte che non si potesse fare a meno di un rapporto diretto con la madrepatria. Solo verso il 1700 i coloni cominciarono a capire che oltre alla libertà di vivere la propria fede religiosa occorreva predicare anche l’eguaglianza dei coloni e lo spirito di tolleranza. Gli eretici non andavano uccisi né esclusi dal diritto di voto, anche perché il primo problema da risolvere era quello di raggiungere una condizione di vita accettabile, materialmente sicura. Tutte le colonie temevano la presenza dei nativi indiani, il rapporto coi quali fu sempre molto difficile, poiché, nonostante che i bianchi si arricchissero praticando il commercio con loro, apprendendo nuovi sistemi di caccia e la coltivazione di nuove piante alimentari, miravano sempre a depredarli delle loro terre e quindi a sterminarli; tentarono anche di ridurli in schiavitù, ma senza successo. A differenza delle colonie spagnole dell’America meridionale e di quelle francesi del Canada, le colonie inglesi ebbero una rapida crescita della popolazione, per l’afflusso continuo d’immigrati dalle isole britanniche. Le maggiori città erano Filadelfia (24.000 abitanti) New York (fondata dagli Olandesi nel 1632 con il nome di Nuova Amsterdam) e Boston. In seguito allo sviluppo della popolazione e dei metodi di sfruttamento capitalistico del territorio, le colonie inglesi vennero a trovarsi in lotta anche con le vicine colonie francesi del Canada e della Luisiana. Non avendo un esercito ben organizzato né una flotta da guerra, i coloni inglesi dovevano necessariamente essere protetti dall’armata inglese. Durante le guerra di Successione spagnola in Europa (1700-14) e dei Sette anni (1756-63), i coloni inglesi riuscirono a conquistare il Canada e la Luisiana. Tuttavia, i rapporti tra le colonie e la madrepatria peggiorarono proprio dopo la pace di Parigi del 1763. Il governo inglese infatti cercò di riservarsi tutti i vantaggi della vittoria riportata sulla Francia, vietando ai coloni lo sfruttamento dei territori conquistati (anche nel timore di una costosa guerra contro i pellirosse), che vennero sottoposti al diretto controllo della Corona. Non solo, ma la Corona fece ricadere sui propri domini coloniali le spese occorrenti alla difesa e all'amministrazione dei territori conquistati, aumentando imposte e dazi doganali su caffé, zucchero, vino, melassa (importata dalle Antille) che serviva a produrre il rum, e seta: in particolare istituì una tassa del bollo (Stamp Act) nel 1765 su tutti gli articoli di carta: libri, giornali, almanacchi e soprattutto documenti legali, tra cui quelli necessari alla compravendita. In tal modo poteva rimpinguare le casse dell'erario, svuotatesi propria a causa delle guerre antifrancesi. I coloni naturalmente reagirono, anche perché, vinta la dominazione francese in Canada e Luisiana, sentivano di non aver più bisogno di protezione da parte della madrepatria. Essi avevano da tempo ottenuto il riconoscimento del diritto di votare in proprio le tasse che dovevano pagare, nel senso che riconoscevano questo compito alle assemblee locali da loro elette. Ora invece si richiamavano ad un principio riconosciuto dalla stessa Costituzione inglese: solo i rappresentanti dei cittadini potevano imporre tasse, per cui chiedevano di avere una loro rappresentanza nel parlamento inglese: prima di pagare le imposte volevano che queste fossero approvate dai loro rappresentanti eletti a Londra. Essi avevano una gran paura, se avessero riconosciuto al Parlamento il diritto di tassarli, che in futuro non avrebbero potuto mai limitare l’entità delle tasse. Essi conoscevano bene le opere del filosofo inglese John Locke, che aveva giustificato la rivoluzione inglese del 1688, affermando che il governo doveva avere l'approvazione dei governati. Il primo tentativo, abortito, di costituire un'unione politico-militare fu quello condotto dallo scienziato, oltre che politico, Benjamin Franklin, nel 1754. Ma il governo inglese non aveva alcuna intenzione di concedere tale rappresentanza. Re Giorgio III (1760-1820) era anzi intenzionato a tenere sotto completo controllo le colonie, di cui temeva soprattutto la continua espansione verso ovest (i coloni tendevano a impadronirsi del commercio inglese delle pelli con gli indiani) e il contrabbando con le Antille, il Canada e con gli spagnoli del Messico, oltre che coi mercanti olandesi. Inoltre i coloni avvertivano sempre più forte l'esigenza di costituire un unico mercato interno e di sostituirsi agli intermediari inglesi per il commercio con l'estero. Le colonie potevano commerciale solo con la madrepatria e importare da questa tutti i prodotti necessari come manufatti e macchinari e nelle colonie non potevano essere organizzate quelle attività manifatturiere già presenti in Inghilterra, come la costruzione d’imbarcazioni o la produzione di tessuti di lana e cotone (neppure una manifattura di cappelli potevano allestire). Negli anni 1764-66 il Parlamento inglese, per rimpinguare le casse dello Stato, impose anche il dazio sull'import di zucchero dalle Indie occidentali. Emanò anche il divieto di emettere carta-moneta. E pretese la presenza nei territori coloniali di truppe militari col pretesto di difendere i coloni dagli indiani. I coloni, che non agivano più in maniera separata, decisero di boicottare tali merci, evitandone l'import e il consumo e trasformando le industrie locali in modo che fossero autosufficienti. Essi presero inoltre provvedimenti a carico degli esattori fiscali, dei tribunali inglesi, dei governatori reali e degli impiegati amministrativi, creando persino un esercito volontario di 50.000 uomini. Il parlamento inglese fu indotto a revocare nel 1766 la tassa del bollo, divenuto troppo impopolare (in America i commercianti inglesi venivano cosparsi di catrame e di piume, pena riservata ai ladri e facevano ingoiare loro del tè). Ma la corona non ascoltò i consigli moderati di due illustri politici del tempo: William Pitt il vecchio e Burke e proseguì a dislocare proprie truppe nelle colonie, sciolse alcune assemblee legislative e mise nuovi dazi su tè, vetro e coloranti. Sicché i coloni dovettero ricominciare il boicottaggio. Questa volta però la borghesia americana imprenditrice, i piantatori, i latifondisti, i grandi mercanti, i soci e gli azionisti di banche e compagnie commerciali inglesi, i funzionari reali e il clero (in tutto circa 60-90.000 lealisti o tories) si trovarono a fronteggiare non solo le pretese della madrepatria, ma anche quelle della piccola borghesia cittadina, delle organizzazioni operaie e artigiane, degli stessi farmers, che volevano maggiore democrazia nelle colonie, maggiori diritti politici e libero accesso alla terra. Da notare che proprio nel periodo 1763-1771 iniziarono le prime significative rivolte dei farmers contro i grandi proprietari terrieri, che naturalmente tendevano a scaricare sui loro lavoratori il peso della situazione conflittuale con la madrepatria. I farmers infatti volevano pagare affitti meno esosi e soprattutto volevano partecipare al governo della "cosa pubblica". Quando i conflitti non si risolvevano, essi spesso abbandonavano le fattorie e si dirigevano verso ovest, in cerca di terre da conquistare agli indiani. |