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ERASMO E LUTERO: lo studioso e il fondatore I - II
Sono tipi umani radicalmente diversi: uomo di studi e di dialogo il primo, capo e fondatore religioso rivoluzionario il secondo. Erasmo (1466-1536) ha il suo modello antico in Girolamo, il “Cicerone cristiano”, il più dotto dei Padri latini, perfetto conoscitore del greco e dell’ebraico, traduttore della Bibbia; Lutero (1483-1546) ha il suo modello antico in Agostino, l’uomo di studi che accetta di mettersi alla testa della comunità cristiana in acque tempestose e di governarla in laceranti conflitti religiosi. Non si sono mai incontrati di persona ma si sono stimati l’un l’altro. Hanno nei buoni studi e nella filologia umanistica un terreno comune per combattere la corruzione del clero e promuovere il rinnovamento religioso, ma non hanno mai pensato di mettersi insieme. Si sono presi reciprocamente le misure e hanno colto presto la grave divergenza di fondo. Hanno tardato il più possibile lo scontro, esploso inevitabile nel 1525. Già nel 1516 Lutero scopre di essere in radicale dissenso con Erasmo sull’interpretazione dell’Epistola ai Romani, nel punto cruciale della giustizia per la fede, e scrive: “Senz’altro io non ho dubbi nell’essere in disaccordo con Erasmo sul fatto che nell’interpretazione delle Scritture io pongo Gerolamo dietro ad Agostino tanto quanto lui pone in ogni cosa Agostino dietro Gerolamo … La giustizia della legge ovvero delle opere non risiede in alcun modo soltanto nelle cerimonie, ma più correttamente anche in tutte le opere del decalogo. Queste poi, quando vengono compiute al di fuori della fede di Cristo, anche se fanno i Fabrizio, i Regolo e uomini assolutamente onesti di fronte agli altri uomini, non sanno tuttavia di giustizia più di quanto una sorba sappia di fico. Noi infatti non diventiamo giusti, come crede Aristotele, facendo cose giuste, se non in apparenza, bensì operiamo cose giuste essendo fatti, per così dire, giusti ed essendo tali. Prima è necessario che la persona sia trasformata, poi vengono le opere. Abele piace prima delle sue offerte”.[1] Nel 1517, il primo marzo, scrive: “Sto leggendo il nostro Erasmo e la mia simpatia nei suoi confronti diminuisce di giorno in giorno. Mi piace in verità perché denunzia tanto i monaci quanto i preti con costanza non inferiore all’erudizione e condanna la loro inveterata e ottusa ignoranza. Temo però che non sostenga abbastanza Cristo e la grazia di Dio … in lui le considerazioni umane prevalgono su quelle divine”.[2] Lutero, prima di aprire la sua battaglia contro lo scandalo delle indulgenze, ha già molto chiara la distanza che lo separa da Erasmo, di cui apprezza l’altissimo livello culturale. Erasmo non conosce molto del più giovane Lutero, ma lo stima per la dirittura morale e per la lotta contro la corruzione, che considera un valido aiuto alla promozione del rinnovamento religioso e delle buone lettere. Non ha ancora letto molto di Lutero ma non gli piace la sua pervicacia asserendi (= l’ostinazione delle sue affermazioni, delle sue certezze), che Lutero considera invece coraggio di affermare la verità e di cui denuncia la mancanza in Erasmo. Erasmo è problematico: imposta la sua diatriba sul libero arbitrio come una discussione di passi diversi, opposti, della Scrittura, un confronto di posizioni, un lavoro culturale. Sa di affrontare una questione che accende gli animi e non vuole essere polemico.[3]Raccoglie con scrupolo e commenta i testi biblici a favore e contro il libero arbitrio, per concludere con un giudizio molto misurato. Lutero è perentorio: si sente profeticamente ispirato dallo Spirito santo. E “lo Spirito santo non è uno scettico, né ha scritto nei nostri cuori dubbi o mere opinioni, ma affermazioni più certe e più salde della vita stessa e di ogni esperienza”.[4] Apre il suo scritto sostenendo la necessità delle affermazioni nel cristianesimo e, in chiusura, dice ad Erasmo: “Scrivi di non voler affermare nulla, ma di aver fatto soltanto dei confronti. Chi penetra fino in fondo una questione e la intende correttamente non scrive in questo modo. Io invece in questo libro non ho fatto dei confronti, ma ho affermato e affermo”. L’uomo di studio ama riflettere, impostare le questioni nel modo più pacato ed ampio possibile, praticare il dubbio e affrontare le questioni in termini di disputatio, di serena discussione fra uomini di cultura. Il capo religioso mosso da spirito profetico, il fondatore che è stato folgorato dalla verità di un passo dell’Epistola ai Romani ed è convinto dell’irrimediabile corruzione di un clero al cui vertice vede l’anticristo, comunica certezze ed apre battaglie. Lutero accusa Erasmo di sacrificare, per timore che le masse incolte fraintendano, la verità alla pace sociale; gli spiega che “la vera natura della parola di Dio è di suscitare continuamente una rivoluzione nel mondo”.[5] Erasmo affronta l’interpretazione delle Sacre Scritture come un problema culturale. Per Lutero le Sacre Scritture sono chiare, sempre che il peccato, la carne e Satana non creino difficoltà: si tratta di mettersi in ascolto della parola che viene dall’onnipotenza divina senza commisurarla con la sapienza umana come, invece, fa Erasmo. Questa commisurazione, praticata con equilibrio da Erasmo e respinta da Lutero, e la profonda differenza di carattere dei due contendenti rendono le divergenze teologiche abissali: le tesi di Lutero appaiono ad Erasmo certezze dogmatiche estremistiche e socialmente pericolose, quelle di Erasmo appaiono a Lutero posizioni raffinate, colte, ma prive della forza della grazia della fede. Erasmo riconosce il peso decisivo della grazia, riduce al minimo il merito umano, ma non lo annulla. Per Lutero proprio quel minimo fa la differenza e tiene Erasmo lontano dalla verità. Nella conclusione del suo scritto, Lutero riconosce ad Erasmo di aver affrontato il cuore del problema, di avergli reso un importante servizio con i suoi studi, ma di non essere arrivato alla verità, o, più propriamente, di non essere stato portato da Dio alla verità: “Dio non ha voluto e non ti ha ancora concesso di essere all’altezza di questo nostro problema. Ti prego di credere che in quello che dico non c’è alcuna arroganza. Prego inoltre il Signore di renderti di tanto superiore a me in questo campo, quanto lo sei in tutti gli altri”.[6] E’ in gioco quel che Lutero chiama il coraggio di affermare la verità e che Erasmo considera pervicacia asserendi. Tra l’ostinata certezza della fede e i prudenti dubbi della ragione nessuna mediazione è possibile. [1] Lettera a Spalatino del 19 ottobre 1516. Riportata in nota 9 a pag. 12 di Lutero, Il servo arbitrio, ed. Claudiana, Torino 1993. [2] Lettera all’amico Johann Lang. A pag. 12 del testo citato nella nota precedente. [3] “Senza dubbio è difficile trovare un uomo meno pronto di me per simili polemiche dalle quali aborrisco per istinto, abituato come sono a muovermi nei campi più liberi delle muse piuttosto che combattere corpo a corpo con la spada. E d’altra parte ho così poca inclinazione a prorompere in affermazioni dogmaticamente assertorie che più facilmente verterei su posizioni scettiche ogni volta che ciò mi fosse concesso dall’autorità della Sacra Scrittura o dalle decisioni della chiesa … Questa mia disposizione d’animo mi sembra di gran lunga preferibile a quella di certe persone che, pur vivacemente attaccate alle loro interpretazioni, non permettono che alcuno da esse dissentano, ma, anzi, forzano tutti i testi delle Scritture per adeguarli alla interpretazione da loro sposata una volta per sempre, comportandosi come quei giovani che, in preda alla loro smoderata passione per una fanciulla, sognano di vederla ovunque; anzi meglio ancora, comportandosi come quei combattenti che, scaldati dalla battaglia, trasformano in proiettile tutte le cose che cadono loro sotto le mani, siano essi piatti o bicchieri. Come può esservi sereno giudizio presso esaltati del genere? E in queste condizioni quale risultato ci si può aspettare da una discussione se non quella di coprirsi di contumelie?” Erasmo – Lutero, Libero arbitrio Servo arbitrio, Claudiana, Torino 2009, pagg 46-7. [4] Lutero, Il servo arbitrio, ed. Claudiana, Torino 1993, pag. 83 (606). [5] “E’ ciò che afferma il Cristo dicendo: «Non sono venuto a metter pace, ma spada» (Mt. 10,34) … Il mondo che ha per Dio Satana non può e non vuole sopportare la parola del vero Dio. Il vero Dio non può e non vuole tacere. E quando Dio e Satana entrano in guerra come non potrebbe esserci una grande rivoluzione nel mondo intero? Voler soffocare la rivoluzione è voler cacciare dal mondo la parola di Dio. Infatti la parola di Dio viene per trasformare e rinnovare il mondo intero … Quanto a me, se io non vedessi questi rivolgimenti, direi che la parola di Dio non è nel mondo. Ma siccome li vedo mi rallegro fin nel fondo del cuore, certo come sono che il regno del Papa e dei suoi satelliti crollerà, grazie alla parola di Dio che penetra dappertutto. Vedo bene, o Erasmo mio, che in molte tue opere tu ti lamenti di questi sconvolgimenti e ti rammarichi che la pace e la concordia stiano sparendo dal mondo”. (Il servo arbitrio, 626). [6] Il servo arbitrio, 786-7. Fonte: ANNO ACCADEMICO 2010-11 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino. Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca. Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) |