STORIA DEL MEDIOEVO
Feudalesimo e Cristianesimo medievale


IL MATRIMONIO NEL MIR RUSSO DEL MEDIOEVO

Uso dell'aratro pesante dotato di ruote e versoio nell'XI sec.

di Aldo C. Marturano © 2006

Infine il tempo trascorreva e giungeva il momento di trovar una compagna/un compagno per la vita di questi figli.

Ribadiamo qui che non si pensava affatto alla formazione di una nuova famiglia e perciò ad un’eventuale riorganizzazione del mir, ma soltanto alla riproduzione della società tradizionale contro quanto invece andava predicando il pop, col proprio personale esempio di famiglia mononucleare. Infatti mentre il Vangelo (Marco, 10, 6-8) imponeva all’uomo di lasciar la casa avita per fondare una nuova famiglia, la tradizione consolidata mandava via dal mir solo la femmina!

L’età normale per sposarsi era molto bassa e le ragioni erano molteplici. Oltre a quelle che abbiamo già menzionato lungo il nostro lavoro, sposare i ragazzi in età ancora pubere o prepubere era (come giustamente dice L. N. Gumiljov) il modo per evitare gli effetti della promiscuità e l’inutile accrescimento numerico della grande famiglia. E le nozze si trasformavano perciò davvero in un’altra avventura!

Fatta questa nota, possiamo dire che, una volta che due famiglie si fossero accordate sulla scelta fatta sui rispettivi figli, si passava all’allestimento dei riti nuziali.

Probabilmente, da quanto oggi ci rimane nel folclore e facendo i confronti con quello che sappiamo dei popoli slavi vicini e dalle fonti più antiche non slave, deduciamo che dovesse esserci prima la vencianie ossia la proclamazione dell’unione esogamica davanti al parentado di lei e poi l’assimilazione alla grande famiglia dello sposo o svad’ba. Era persino prevista la prova di verginità (sebbene con varianti di aggiustamento fra famiglie in caso di una deflorazione previa) dopo la consumazione e il ripudio in caso di infecondità della donna (cosa questa, interpretata come rifiuto della donna a dare frutto e non come eventuale sterilità organica o patologica), ma anche in caso di impotenza dell’uomo (cosa, questa, più difficile da provare).

Su questi punti nelle Cronache esistono alcuni episodi riferiti alla vita dei Knjaz, talvolta davvero singolari, come l’infinita storia fra Jaroslav Ottopensieri di Galic’ e le sue due mogli nel XII sec.! In questo caso c’era la legittima di nome Olga e un’altra, l’amante, di nome Anastasia (Nastasìja), e la Chiesa si vide costretta a tollerare una situazione di bigamia a causa della presenza di un figlio, necessario alla discendenza, perdonando intrighi e delitti. Dunque questa era la realtà…

Ritornando al nostro soggetto, il cibo, è difficile documentarsi sui menu speciali per il banchetto di nozze e per le relative cerimonie che l’accompagnavano, se non facendo riferimento a quanto tramandatoci nel Domostroi, galateo russo del XVIII sec. sui matrimoni presso la corte moscovita. Se ammettiamo che i riti ivi descritti era rimasti pressappoco inalterati rispetto a quelli medievali e derivati dalla tradizione, riusciamo ad averne un quadro abbastanza accettabile per la nostra curiosità per poterli estendere anche al mir. Perché è importante conoscere queste cerimonie? Perché il matrimonio è un avvenimento centrale della vita e per di più ha per gli Slavi un grandissimo coinvolgimento personale addirittura in analogia con la morte.

La nostra convinzione inoltre è che il matrimonio slavo non è la consacrazione di un’unione, quanto piuttosto della separazione della donna dal suo mir originario e il rinnovo della sua soggezione all’uomo di un altro mir e probabilmente il bianco del vestito della donna era un colore di lutto proprio per questo motivo. Sebbene il marito o il padre-padrone appaiano sfumate come figure laterali in questi riti, sono in realtà potentissime. Fino a quel momento la donna è stata sotto il controllo del capofamiglia (diritto di tutela chiamato in russo opekùnstvo/опекунство), ma non appena appaiono i primi segni lunari della sua potenza magica (il menarca!) è necessario cercare chi possa prenderla con sè per sempre (svatovstvò/сватовство originariamente appropriazione con lo stesso componente *sva- di svad’ba).

Naturalmente data la bassissima età a cui viene data in moglie (sempre secondo il nostro modo di vedere), tutte le necessarie trasformazioni fisiche e psichiche non sono ancora completate e quindi il timore che qualche spirito maligno, sotto l’aspetto di uno stregone o travestito da amico di famiglia, si intrufoli nel gruppo dei celebranti e faccia qualche sortilegio per impadronirsi della debole femmina è ossessionante e si rispecchia in riti innumerevoli. Ribadiamo che, secondo la mitologia slava, la battaglia fra le forze maligne contro quelle benigne è continua e senza sosta e, per evitare letali conseguenze, tutti siamo costretti in ogni momento della giornata ad individuare la forza che ci ostacola o che ci favorisce in quel momento per poterla rispettivamente o rabbonirla o ripagarla. Se ciò non si fa, malattie, disgrazie, impedimenti di ogni genere ci mettono in difficoltà e frustrano ogni nostro sforzo mettendo in pericolo la nostra vita e quella dei nostri congiunti. Allora, attenti a come si comporta l’altro, il vicino o il parente o il consorte che potrebbe essere posseduto senza saperlo. A causa di ciò la società del mir non può sviluppare libertà individuali, ma solo sentimenti di coesione e di amalgama, per quanto possibile di persone alla pari. E proprio in questo sta la grandissima debolezza del mir e la sua paura di riprodursi in modo sbagliato! Chiunque si presenti dall’esterno (o dall’interno) può rappresentare un grave pericolo di inquinamento (sposo o sposa sbagliata) e come tale va scongiurato. Per questo motivo il malocchio, le benedizioni, gli scongiuri dominano ogni momento del rito nuziale…

E andiamo allo Svatovstvò che possiamo tradurre Fidanzamento. Benché ne abbiamo parlato, in questa sede vorremmo entrare un po’ più addentro nell’argomento.

Sposare una figlia o un figlio implica prima di tutto il coinvolgimento dei mediatori di matrimonio (svat/cват, il pronubo, e svaha/сваха, la pronuba) ossia gente di buon nome che deve cercare o presentare il ragazzo o la ragazza alle possibili famiglie che abbiano anch’esse figlie o figli da sposare.

Si comincia a pensare a questo quasi sempre d’inverno per la semplice ragione che tutti gli anziani di famiglia sono più liberi di discutere e di consigliarsi fra di loro prima di inoltrare gentilmente la richiesta al mediatore. Ogni passo è già stabilito dalla prassi dei tempi e bisogna rispettarli uno per uno e, soprattutto, in modo corretto altrimenti si comprometterebbe il futuro della coppia. Persino le conversazioni previste e le espressioni da usare o da evitare sono discusse prima, insieme con lo svat o la svaha! Se nel passato si fissava anche il prezzo della sposa (veno) che la famiglia dell’uomo doveva pagare alla famiglia della donna, in seguito con l’avvento del Cristianesimo il veno fu trasformato ad una specie di donazione da fare alla chiesa o allo scrivano diacono (djak/дьяк o djaciòk/дьячок) che fungeva da notaio. Finalmente i mediatori si mettevano in moto e, individuato il candidato/la candidata, cominciavano a tessere le relazioni per giungere al passo successivo: gli Smotriny/Cмотрины.

Era la regola che quando il mediatore veniva a casa della ragazza prescelta, i genitori dovessero subito rifiutare, lamentando l’età precoce della ragazza, l’impossibilità di darle una dote decente e tante altre ragioni assolutamente non verosimili. Non era detto però che si giungesse subito all’accordo! Magari neppure i due genitori erano di parere unanime o poteva anche darsi che la ragazza non accettasse il promesso previsto. In tal caso quest’ultima si trovava da sola a lottare per non far realizzare quel matrimonio ed odiava i mediatori che le imponevano la scelta. Se nei tempi anteriori al Cristianesimo questa lotta contro lo strapotere del genitore era di solito senza speranza di successo, salvo ricorrere alle fatture di una ved’ma o alla fuga, con le nuove regole cristiane che fissavano una certa protezione dell’individuo dalle angherie della famiglia, il problema diventò più difficile da risolvere. Talvolta era coinvolto il pop locale che offriva allora una nuova soluzione: L’invito a farsi monaca! Per evitare scalpore inutile comunque la donna che si vedeva destinata a sposare un uomo non voluto, cominciava a rivolgersi proprio alla Santa Vergine affinché le evitasse una scelta disgraziata. C’era una tiritera che doveva essere cantata sottovoce in certi posti considerati sacri e magici come una sorgente o un crocicchio dove era eretta una croce o un tempietto dedicato alla Madonna o presso una pietra sacra (valun/валун). Nella mitologia slavo-orientale esisteva una dea che presiedeva la svad’ba chiamata Diva Zarjà/Дива Заря o semplicemente Zarjà. Il nome è facilmente interpretabile come Vergine Alba in quanto, come abbiamo detto, maritarsi significava rinascere in una nuova famiglia e quindi l’accostamento con l’alba era abbastanza congruente. Per quanto riguarda la prima parola, noi l’abbiamo già incontrata al principio del nostro lavoro (divii) associata con l’aggettivo dikii ossia selvaggio, ma anche con vergine e dunque Diva Zarjà o la Dea Vergine Alba! Fu naturale dunque attribuire tutte le competenze di questa dea pagana alla Vergine Maria e di qui il ruolo della Madonna nello scongiuro e in altre cerimonie collegate alla svad’ba.

Superato dunque l’ostacolo del rifiuto, seguivano gli smotriny ossia le visite del candidato marito presso la casa della candidata moglie (che rimaneva comunque nascosta e invisibile sebbene guardasse il possibile marito da dietro le porte!). Ci si rendeva così conto del genere di famiglia e di ambiente nel quale la possibile sposa era vissuta e per vedere come qui si sarebbe organizzata la festa e il convito. In queste occasioni si ripuliva tutta la casa secondo un ordine delle faccende che andava rispettato meticolosamente… C’erano però anche le visite dei genitori di lei presso quelli di lui per gli stessi motivi e questa era l’operazione più delicata poiché richiedeva la visita non solo della casa, ma delle cantine, delle stalle per immaginarsi dove la ragazza sarebbe andata a vivere e dei mezzi materiali a disposizione. Da questa visita dipendeva il pridanie/придание ossia la dote da dare alla figlia (in realtà poi, era il futuro marito che provvedeva alla dote della futura moglie)!

Tuttavia non erano questi i soli tipi di smotriny in uso perché sappiamo dal contenuto dei horovòdy (danze corali russe) che alla fine della stagione le vergini si presentavano in pubblico proprio per attirare l’attenzione dei maschi da sposare e ne abbiamo descritto già qualcuno. In questi smotriny, per così dire, pubblici il maschio interessato toccava la ragazza scelta prima di tutto sulle natiche per sentirne la consistenza e dedurne la buona salute e l’attitudine a far figli.

Lo svatovstvò doveva chiudersi comunque in aprile perché poi il tempo non c’era più per preparare le cerimonie susseguenti. Rammentiamo che i matrimoni si celebravano con grandi feste collettive, specialmente dopo la Festa del Manto della Vergine (Pokrov) il 1° di Ottobre. Quando tutti erano d’accordo sulla data, sulla dote etc. ogni famiglia preparava la sua parte di festa e i suoi inviti perché si era già alla vigilia della seconda fase: la vencianie.

Se la Corte Moscovita aveva bisogno di un maestro di cerimonie per questi rituali di nozze, nel mir era la stessa madre o la donna più anziana di casa a far da “conduttrice del dramma”. Usiamo quest’ultimo linguaggio teatrale perché il realtà la nevesta in questa settimana di preparativi doveva restar rinchiusa nella sua camera in gramaglie a volte digiunando. Si pretendeva addirittura che piangesse e non mancavano casi di ricorso alle… cipolle sfregate sotto gli occhi! La donna stava infatti per passare da un mondo “dei bimbi senza sesso” ad uno “degli adulti” diventando moglie e dunque “moriva” per quel primo mondo e doveva salutarsi “per sempre” con i suoi che l’avevano accompagnata fino a quel punto. Era la cosiddetta cerimonia dell’addio (prosc’c’anie) alla quale la ragazza si presentava con una specie di cappello-corona chiamato kukol uguale a quello che si poneva sulla testa ai defunti prima di seppellirli! La bimba quindi rinasceva, ma da moglie e in altro luogo!

Naturalmente l’abbandono della famiglia implicava l’abbandono del fuoco sacro della casa e quindi il saluto dal Domovòi quando giungeva il tempo della vestizione della sposa e le “ancelle” cantavano gli imenei d’addio chiamati per questo Ognjanki/Oгнянки ossia Canti del fuoco. Si racconta che le ragazze sposate, e lontane quindi da casa, la mattina quando rimanevano sole in casa offrivano all’usignolo (solovèi/соловей) briciole di pane cotto apposta (kalacì/калачи) pregandolo di portare notizie di lei ai suoi genitori e ai suoi nonni e a i suoi fratelli e attendevano la risposta dal canto dell’uccello quando fosse ritornato…

Rito della Cerca della Giovane che sta per sposarsi (registrato nella provincia di Tula non lontano da Voronezh da K. V. Cistov, 1987, e adattato da ACM, 2005)

1° rito. Nell’izbà i quei giorni sono affaccendate tutte le donne, gli anziani e tutti i famigliari che non hanno altro da fare. Arriva un giovane e dice: “Buongiorno a tutti! Che il Signore vi aiuti nel vostro lavoro!” “Grazie! Grazie!” rispondono tutti cercando di rimanere seri. “Che siete venuto a fare?” “Beh! Son venuto perché abbiamo perso una bellissima bimba e non è forse qui da voi a conversare con voi e che voi non conoscete?” “No! Ci spiace! Non c’è qui!” La signora più vecchia chiede: “Ma come è fatta questa ragazza?” “E’ tutta bianca e splendente e con una lunga treccia di capelli biondi!” “No! Spiacente. Non si è vista da noi!”

2° rito. Arriva il fratello della nevesta di mattina nella casa del promesso e bussa alla porta e chiede: “Sono qui da voi alla ricerca di una pecora bianca. L’abbiamo cercata e ricercata, siamo andati dietro le sue orme sulla neve e siamo sicuri che è qui da voi.” “Ha forse qualche segno particolare, questa pecorella?” “Sì. Ha un foro per gli orecchini!” “No! Andate pure! Da noi questa pecorella non c’è!”

N.B. Ogni rito conferma cioè che la giovane è morta per sempre per la sua famiglia!

Alla vigilia della cerimonia rispettivamente nelle case dei due sposi si riunivano il parentado e il vicinato che avrebbero preso parte alle feste. Si davano le ultime istruzioni a ciascuno ed era uso del zhenih (promesso sposo) inviare a casa della nevesta (promessa sposa) il suo primo dono personale visibile: forbicette, aghi e filo e uva sultanina e fichi secchi greci più… un bastone (rozgà/розга)! Il significato era chiaro: A casa, tu lavora e sarai ricompensata con leccornie, altrimenti sarai bastonata da me!

Un uso curioso, ma comprensibilissimo per l’uso rituale della convivialità e delle premesse alla convivenza, era decidere presso quale delle famiglie si dovesse cuocere la kascia nuziale! Infatti la scelta della casa dove cuocere la “santa zuppa” significava anche attribuire a questa casata una maggiore onorabilità. E’ rimasta famosa ad esempio la “divergenza” fra Alessandro Nevskii e suo suocero Brjacislav di Polozk nel XIII sec. per decidere dove cucinare la kascia nuziale che alla fine portò alla salomonica decisione di cuocerla una volta a Toropez, nella regione di dominio di Brjacislav, e un’altra volta a Novgorod-la-grande dove abitava Alessandro e dove la sua futura moglie, Alessandra Brjacislavna, avrebbe poi abitato con lui.

C’era però un altro aspetto più segreto in questo uso “cuocere la kascia” e cioè la possibilità di mescolare ad essa (nei piatti dei promessi) qualche afrodisiaco affinché il coito avesse successo comunque e non fosse invece impedito da un’improvvisa “stanchezza” o “vergogna”. Era un uso abbastanza diffuso questo ed è probabile che si conoscessero già le decantate virtù afrodisiache della Mela (Malus sp. in russo jàbloko/яблоко) anche se i semi della pianta furono introdotti in Terra Russa per la prima volta dalla Chiesa, secondo i documenti. Infatti è noto in altri ambienti europei che dormire con una mela sulla vagina e poi dare questa mela da mangiare al proprio uomo risveglia in lui la voglia per la propria sposa! Con certezza invece era ben conosciuta la nera erba delle streghe chiamata belenà/белена o Stramonio (Datura stramonium) come pure il Giusquiamo o durman/дурман (Hyosciamus niger). La belenà era il più potente afrodisiaco e veniva persino coltivato nel giardino di casa a questo scopo tanto che è rimasto nei proverbi russi proprio per indicare chi è uscito di senno e pensa soltanto all’amore (Beleny ob’elsja/Белены об’елся! ossia S’è riempito di Stramonio)! Naturalmente non parliamo delle proprietà analoghe attribuite all’aglio e alla cipolla da un lato, né delle erbe contro il troppo voler amoreggiare dall’altro, mentre ricordiamo di sfuggita il Luppolo/Hmel’/Хмель (Humulus lupulus) adoperato per far le birre proprio per smorzare gli uomini troppo intraprendenti… perché – si diceva – la birra di luppolo fa dormire!

Insomma il matrimonio deve riuscire bene in ogni caso e così il passo più importante era quando la svaha arrivava di prima mattina a casa del promesso per preparare con le proprie mani la camera nuziale oltre al lenzuolo che avrebbe dovuto poi portare il segno della deflorazione della vergine da mostrare e conservare. Probabilmente nel passato questo rito della “pulizia” della camera nuziale era stato eseguito in presenza dello stesso volhv affinché si snidassero tutti gli spiriti maligni (necistye sily) eventualmente ivi nascosti negli angoli più reconditi che potevano danneggiare l’atto sessuale. Il pagliericcio (nuovo!) era prima coperto con spighe di grano frumento, simbolo di abbondanza e di classe, poi con un tappeto e infine con la coperta di piumino d’oca (le nozze erano celebrate quando ancora faceva fresco!) e i due cuscini! Oltre a ciò però la svaha metteva fra la biancheria delle erbe che emanavano un profumo “amoroso” come la Pimpinella rossa (Pimpinella anisum ossia in russo berdenez/берденец) o lo jatrysc’nik/ятришник (Orchis maculata), quest’ultimo da cercare sugli alberi del bosco nelle notti di luna piena rintracciandolo per il suo intenso profumo!

Normalmente la vencianie aveva luogo di sera ed era seguita da una cena speciale in ognuna delle due case. Vencianie/Венчание significa incoronazione poiché il rito era proprio fatto nel sacrario del dio Rod con due ghirlande benedette fatte di scorza di tiglio scambiate per tre volte sulla testa dei futuri coniugi. A casa del zhenih era stata preparata a questo scopo una pedana sulla quale c’erano i due posti dove i nuovi sposi si sarebbero seduti l’uno accanto all’altra.

Tuttavia nella zona del Volga a ricordo che i matrimoni si celebravano presso i sacrari della foresta in presenza del volhv, la vencianie si continuava a farla fuori dell’izbà presso una sorgente nel folto… Al momento convenuto arrivava la nevesta con la ghirlanda sulla testa e con il viso coperto dalla lunga fatà/фата (velo nuziale). Il druzhko/дружко (una specie di maestro delle cerimonie) le correva incontro davanti alla soglia della nuova casa con della brace ardente presa dalla pec’ka della casa del zhenih e gliela consegnava, dopo aver fatto tre giri intorno a lei, dicendole: “Come sei stata attenta al fuoco a casa dei tuoi, conservalo anche qui nella casa di tuo marito!” La nevesta appena entrata nella nuova casa doveva recarsi verso la pec’ka e prostrarvisi davanti fino a terra per tre volte mentre le donne di casa le lanciavano addosso chicchi di grano e monetine augurando felicità e fertilità. Solo da quel momento la sposa era sotto la protezione del nuovo Domovòi

In realtà la cerimonia ribadiva ancora una volta la sacralità del cibo sotto forma di pane, prima di tutto, e come kascia ossia di cibo cotto, come è ancora vivo oggi nel subconscio della donna, moglie e madre, il dovere di preparare da mangiare per la sua “gente” nel modo corrette e tradizionale. Immaginate quale delusione e vergogna potesse essere far scuocere pane o piroghì o bliny o altro! Una sposa di successo dunque era la cuoca sopraffina e, d’altro canto e a suo tempo, una candidata con tutti i presupposti a diventare una znaharka molto speciale, se aveva imparato a preparare filtri e pozioni! Pure la Chiesa condannava al fuoco dell’inferno una moglie sciatta e una cuoca disattenta…

Le cerimonie però non finivano qui ed erano normalmente più lunghe e più complicate. Non ci interessa qui descriverle nelle varianti e nei dettagli non essendo questo lo scopo del nostro lavoro e diciamo soltanto che ai due sposi fino al loro incontro nel letto non era permesso vedersi l’un l’altro in viso. Fra di loro c’era sempre una specie di tenda oppure ognuno, ma specialmente la donna, era coperto da un velo lungo fino ai piedi e quando la vencianie aveva luogo l’unico modo per vedersi era quello di cercare di usare le superfici lucide che le amiche di lei a volta appositamente le ponevano di fronte! Aggiungiamo che come c’era stata la vestizione dello sposo e della sposa così c’era poi la svestizione con l’eccezione dello sposo che si presentava nudo davanti alla sua compagna, ma con le scarpe ai piedi! Quello di slacciare i calzari era infatti un atto di deferenza dovuto da parte della donna verso il suo nuovo “tutore” (opekun/опекун).

Nei banchetti di nozze si dava fondo praticamente a tutto quanto si era accumulato durante gli anni in cibo ed altro! E i piatti tipici erano comunque una non ben definita perepecia (forse una zuppa) e il cacio tvorog. Naturalmente non mancavano i kalacì e un piatto pieno di grano (frumento!) e di monetine che si spargeva sugli sposi augurando loro buona fortuna (obsypalo) quando abbandonavano la sala. E sì! Gli sposi non partecipavano ai conviti, ma si ritiravano nella stanza preparata per loro con qualcosa da mangiare per i tre giorni in cui dovevano star rinchiusi a far l’amore! Anzi, nei tempi più antichi il rito nuziale si consumava in capanne provvisorie costruite a parte, se non proprio in tende quando il caldo lo permetteva. In special modo va menzionato l’idromele che veniva preparato per i più giovani che partecipavano allo sposalizio. Questo mjod era poco alcolico e quindi più adatto ai giovani. Tuttavia la caratteristica era che la preparatrice ne metteva a disposizione una quantità tale da bastare per quasi un mese a questi ragazzi, dopo gli sponsali, e questo periodo di bisboccia continuata era il cosiddetto mese del mjod ossia mjòdovyi mesjac/медовый месяц…

Quando la gestione della cerimonia nuziale cominciò a passare alla Chiesa tutto fu naturalmente adeguato a quanto prescritto nei canoni e così dopo la vencianie, la sposa si svelava davanti all’iconostasi mentre il prete leggeva tutte le regole occorrenti “ad un buon matrimonio”! La sposa a questo punto era obbligata a baciare la scarpa del suo consorte chinandosi fino a terra, in segno di sottomissione. Dopodiché il pop dava ai due giovani nubendi una tazza di legno colma di vino (talvolta era l’unica volta nella vita che uno smierd assaggiava questo liquore) dalla quale beveva prima lo sposo per poi passarla alla sposa che beveva anche lei e si ripeteva questo rito tre volte. Lo sposo infine dava l’ultimo sorso e gettava per terra la tazza e la schiacciava sotto i piedi (anche la sposa cercava di imitarlo, riuscendovi solo in parte) e per un’ennesima volta si pronunciava lo scongiuro contro il malocchio in questi termini: “Come questa tazza è stata schiacciata sotto i nostri piedi, allo stesso modo siano schiacciati coloro che vorrebbero spargere fra noi due liti e disaccordo!” Oppure un altro scongiuro diceva: “Che i nostri figli siano tanti quante le schegge sotto i nostri piedi!” Il cosiddetto assistente degli sposi (una persona che doveva essere fidatissima perché a volte poteva essere un lupo mannaro travestito, come abbiamo detto in altro luogo), il druzhko, prendeva il karavài di nozze e lo dava al prete che lo spezzava e incaricava lo stesso druzhko di portarne ai genitori dei due per dire che le nozze erano state sancite anche da Cristo!

A questo punto si formava una carovana che prendeva la direzione della casa dello sposo dove avveniva l’okrucivanie/окручивание ossia la sanzione del legame di svad’ba ossia l’accoglienza di lei nella famiglia di lui! Lo sposo prendeva ora la sposa per mano (non in braccio!) e entrava nel seni dove li attendeva la madre di lui, i genitori di lei e la svaha. Le donne indossavano il proprio vestito alla rovescia e cioè coll’orlo sopra e il collo sotto. Anche questo era un modo scaramantico per allontanare gli spiriti maligni mettendoli in confusione…

Gli sposi venivano ora sparsi con semi di lino e il resto della compagnia degli invitati a questo punto lasciavano il seni e si recavano nella sala del banchetto. Ora il druzhko svestiva lo sposo e la svaha la sposa. Lo sposo dava un colpo sulle spalle di lei con la verga che aveva ricevuto dal suocero e finalmente i due erano lasciati soli e la porta chiusa a chiave e assolutamente digiuni. Dopo tre giorni veniva mandato il druzhko a chiedere ai due come stavano e per aprire la porta. Era questo il momento di mostrare il lino insanguinato. Finalmente i due rivestiti potevano partecipare alla conclusione dei conviti insieme a tutti gli altri, da consorti legittimi.

Bibliografia

(i titoli delle opere straniere sono stati tradotti in italiano, se non esiste già o non è nota all’autore un’edizione italiana della stessa opera. Le lingue in cui le opere sono state consultate hanno le seguenti indicazioni: ru. per russo, ted. per tedesco, fr. per francese, ungh. per ungherese, ing. per inglese, sp. per spagnolo, rum. per rumeno)

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Aldo C. Marturano - Mondi Medievali

L'autore ha pubblicato:

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia medievale
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Aggiornamento: 01/05/2015