L'ARTE BIZANTINA E RUSSA

PER UN'ALTERNATIVA UMANISTICA


STORIA DELL'ICONOGRAFIA BIZANTINA SINO ALL'843

Ecce Homo

L’arte bizantina è stata caratterizzata da un fenomeno stranamente somigliante a quella sua stessa tecnica pittorica che l’ha resa famosa in tutto il mondo: la prospettiva inversa. Infatti quanto meno gli ideali del cristianesimo avevano la possibilità concreta di realizzarsi, tanto più l’iconografia andava perfezionando i propri strumenti di persuasione ideologica delle masse, arrivando sino alle vette sublimi dell'interiorità più spiritualizzata nelle opere di Teofane il Greco. Era un rapporto inversamente proporzionale.

Agli inizi si cercava un’alternativa convincente ai passati modelli artistici e architettonici del mondo greco-romano, che nella fase del tardo impero s’andavano evolvendo in senso spiritualistico in virtù delle influenze del plotinismo e delle religioni dualiste orientali (mitraismo, zoroastrismo, manicheismo ecc.).

Praticamente le prime modifiche delle concezioni estetiche e formali in campo artistico avvengono nel periodo di Settimio Severo (193-211): quanto meno l’impero romano era in grado di reggersi sulla forza, tanto più si affidava a giustificazioni astratte, pur non rinunciando né allo schiavismo, né ai privilegi della grande proprietà terriera, né quindi, ovviamente, alla dittatura militare.

Per il filosofo spiritualista Plotino il bello non consiste nelle proporzioni del corpo ma nella luce interiore, e per percepirlo è sufficiente l’uso di un simbolo astratto, che non necessita di alcuna prospettiva e che anzi accentui la posizione gerarchica dei personaggi più importanti in una sorta di prospettiva rovesciata.

Dagli schemi orientali (soprattutto persiani), privi di senso storico, si adottano gli elementi frontali e simmetrici, in cui le figure vengono appaiate, poste tutte su uno stesso piano. Era un modo di fare arte antinaturalistico e antirealistico, molto semplificato, decorativo, simbolico: adattissimo a un potere politico che aveva bisogno non tanto di svilupparsi quanto di sopravvivere a se stesso.

L’interiorità spirituale vera e propria ovviamente non si manifesta quando è al servizio del potere, ma quando ha la possibilità di esprimere al meglio il sentimento, e cioè nella ritrattistica, specie quella funebre. E’ qui infatti che gli sguardi, dagli occhi grandi, diventano sempre più frontali, fissi, ieratici.

Si preferiscono i mosaici e le pitture affrescate alla scultura, anche perché di più rapida esecuzione e dai colori più accesi. E il cristianesimo si inserisce in questa metamorfosi spiritualistica con una propria simbologia, che ovviamente non è quella ufficiale del potere e che resterà più teocentrica che cristocentrica per almeno tre secoli.

L’arte simbolica che s’incontra nelle catacombe, avente uno scopo meramente didattico, priva di una vera forma artistica e di una interpretazione teologica, si può in sostanza classificare in tre gruppi: a) tutto ciò che si riferisce all’acqua (Noè, Giona, Mosé, pesce, àncora); b) tutto ciò che si riferisce al pane e al vino (moltiplicazione dei pani, spighe di grano, vigna); c) tutto ciò che si riferisce ai “salvati” (giovani nella fornace, Daniele tra i leoni, l’uccello fenice, Lazzaro resuscitato, il Buon Pastore).

L’arte bizantina, nata nei monasteri orientali, operò una torsione intellettuale di non poco conto, in quanto si pose come obiettivo non solo quello di superare definitivamente l’arte greco-romana, ivi incluse le sue ultime tendenze spiritualistiche astratte e convenzionali, ma anche quello di superare la stessa arte simbolica cristiana, che risultava troppo povera per un’ideologia dal contenuto teologico molto elevato e che si prestava, soprattutto con Giustiniano, a diventare la cultura ufficiale dell’impero.

Sarà la chiarezza fatta a proposito della natura del Cristo incarnato, sanzionata nel decisivo concilio di Calcedonia (451), che influenzerà notevolmente la dottrina e la teologia dell’icona.

A partire dal VI secolo la pittura iconografica diventa parte integrante dell’edificio architettonico sacro, sostituendosi a poco a poco ai mosaici, che restano solo nelle pavimentazioni. La tavolozza poteva infatti fornire una gamma cromatica più vasta e quindi maggiori possibilità espressive.

Lo si era capito già nell’uso delle miniature dei codici, ma anche dai ritratti che gli egizi mettevano sui loro sarcofagi: con quei volti frontali, severi, dagli occhi grandi e dallo sguardo intenso.

L’icona vera e propria vuole porsi come simbolo evocativo di un messaggio sia storico, riguardante l’intero genere umano, che personale, per l’edificazione spirituale, interiore: una caratteristica riscontrabile sin dalle prime realizzazioni nei monasteri copti del Sinai. Vogliono essere pitture capaci di trasmettere valori positivi.

L’iconografia, che non è solo su legno ma anche su muro (affreschi), nasce in ambienti monastici e continuerà a dare il meglio di sé proprio in questi ambienti.

Nei monasteri non si fa la “storia” ma si lavora sull’uomo, modellandolo secondo le esigenze della religione cristiana, che nei deserti sono severe, ascetiche. Si cercano dei metodi esistenziali e quindi delle forme espressive corrispondenti che possano essere generalizzate, al fine di poter dire al singolo credente: “ecco, questo è il tuo universo; se vuoi fare qualcosa di personale, stai dentro i suoi confini”.

Per quanto incredibile possa sembrare, l’iconografia religiosa nacque ponendo subito in atto un proprio “statuto epistemologico” ben definito: o lo si rispettava o si era fuori della chiesa.

Lontani dalla realtà urbana e rurale dei conflitti sociali, i monaci non avevano bisogno di obbligare le immagini a sottostare alle proporzioni del reale. Esse dovevano far sognare, come l’odierna cinematografia, con la differenza che dovevano sempre trasmettere una certa fiducia per le sorti dell’umanità, già redenta dal sacrificio di Cristo. Dovevano persuadere il credente che quegli stessi valori ch’egli non riusciva a vivere nel “mondo”, a causa appunto degli antagonismi irriducibili tra le classi e i ceti, l’avrebbero comunque salvato.

Non a caso inizialmente i temi più ricorrenti erano quelli dell’apocalittica: il giudizio universale, l’ascensione del Cristo, la sua discesa agli inferi, il Pantocratore che governa su tutto, ecc. Si aveva bisogno di credere nella realizzazione più breve possibile delle promesse “ricapitolative” fatte nel Nuovo Testamento.

Alla fine del VI secolo, quando s’inventa l’iconostasi (la balaustra che separa l’altare dai fedeli), rendendo così più sacro e misterioso il rito eucaristico, si comincia a decorare quest’ultima con dipinti riguardanti l’annunciazione, la crocifissione, la resurrezione, la pentecoste, la dormizione, e s’iniziano anche i primi piani del Battista, degli angeli, dei santi, dei padri della chiesa… Le icone diventano sempre più “liturgiche”, devozionali, sempre più connesse ad eventi non solo evangelici ma anche ecclesiastici. L'iconografia non è più uno strumento espressivo di asceti in polemica con le istituzioni laiche ed ecclesiastiche, diventa parte del sistema.

E quanto più acquistano consensi spontanei tra le masse, tanto più il potere politico cerca di servirsene: infatti è quasi sempre Costantinopoli che invia nei centri provinciali i propri artisti, i suoi propri modelli, cooperando così all’unitarietà stilistica di quest’arte.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia Medievale - Sezione Arte
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Aggiornamento: 11/09/2017