STORIA DEL MEDIOEVO
Feudalesimo e Cristianesimo medievale


IL COMUNE CITTADINO ITALIANO NEL MEDIOEVO

Il grifo, simbolo dell'Arte della Mercanzia a Perugia

di Enrico Pantalone - www.enricopantalone.com

Connesso allo sviluppo dell’università si allinea lo sviluppo dell'istituzione cittadina per eccellenza, nell’Italia settentrionale, e cioè: il Comune.

Nel rimescolarsi dei rapporti sino ad allora vigenti in tutti i campi, nel secolo XI, il Comune come entità giuridica assume quella forma così concreta che vedremo allargarsi a partire proprio dal secolo XII.

Il Comune non ha una base territoriale vasta come le precedenti istituzioni ed è appunto per questo che può sviluppare al suo interno, al meglio, tutte quelle attività che man mano serviranno ad ingrandire le mura della stessa.

L’attività economica è affidata alle corporazioni che la dirigono in maniera di solito impeccabile.

La popolazione vive all’interno delle mura senza troppi patemi, vi si possono trovare vecchi signori feudali ridotti in povertà e vecchi servi liberati, commercianti agiati e cavalieri senza terre, il politico e l’ecclesiastico.

Le istituzioni giuridico-politiche del Comune cittadino sono un tratto caratteristico di quei secoli.

A seconda delle città, possiamo trovare ordinamenti giuridici che sono al di là degli interessi personali ed ordinamenti che, invece, non riescono a discernere l’interesse pubblico dal privato.

Le prime norme scritte, dettate dall’autorità imperiale, vanno a sostituire le vetuste consuetudini che erano tramandate oralmente e sicuramente non erano esenti da contestazioni, qualora il caso da giudicare fosse stato complesso.

Vediamo quindi che, in un certo senso, l’intervento imperiale è servito per dare una base solida allo ius pubblico, più di quanto troppo spesso non si voglia ammettere.

Proprio per questo motivo, alla oramai classica figura del notaio che interpreta a memoria le leggi, subentra e s’irrobustisce la nuova figura del giurista, come professionista che conosce il diritto giustinianeo quanto quello ecclesiastico e traccia con sicurezza le sue teorie.

Anche se, a onor del vero, non dobbiamo dimenticare anche le altre figure del nuovo diritto come i giudici, i consulenti, i procuratori, gli amministratori dei comuni, ecc. che, insieme ai primi, formano la corporazione giuridica.

Tutti questi eminenti personaggi concorrono a far sì che, in connessione con le vecchie strutture feudali, si giunga ad un compromesso per l’ordinamento cittadino.

Lo sviluppo accelerato dei Comuni nel secolo XII, specialmente nella pianura padana, è portatore di nuovi e più consistenti valori.

Anche le autorità ecclesiastiche, che sono ad esempio sede vescovile ma non detengono possedimenti di origine comitale, s’adoperano per lo sviluppo intenso dei Comuni, cosa che non accade dove il vescovo è ancora in possesso di territori vastissimi.

Ci sarà poi il Comune che, per posizione e per funzione di guida, arriverà a dominare una vasta zona d’influenza e a sottomettere altri piccoli Comuni dei dintorni (Milano e la sua provincia).

Le città s’ingrandiscono a vista e Milano arriva a sfiorare le centomila unità, togliendo così ampi spazi liberi all’interno delle mura per costruire nuovi edifici oppure allargando le mura stesse oltre la cerchia primitiva.

Sorgono così i primi palazzi pubblici (Palazzo del Comune, del Podestà, ecc.) che danno un’impronta diversa alla città, non più vista come solamente un centro mercantile di vasta portata, bensì come un centro dove si può anche legiferare, con tanto di edificio adibito a tale scopo, non più, quindi, nella dimora di un signore o di un re, e questo è senza dubbio un particolare importante nella tematica di un concreto contesto giuridico.

A Bologna è addirittura l’imperatore che appoggia le prime istituzioni cittadine per rendere meno potenti il Vescovo o la Chiesa in generale, nell’oramai cronico antagonismo che vede contrapposti, su due fronti, potere temporale e potere spirituale.

In questo modo, ogni Comune si sviluppa in maniera differente l’uno dall’altro, servendosi ora della chiesa ora dell’impero, senza mai escludere uno dei due, ai quali chiede aiuto in cambio della propria fedeltà.

Anche nel Comune, però, le qualità delle norme lasciano a desiderare, essendo utilizzate non equamente nei confronti di tutti i cittadini, ma dando spazio ad interpretazioni personali quando si tratta di persone eccellenti.

Proprio per questo motivo non si può, certamente, parlare di potere pubblico da parte delle autorità comunali in questo momento: ancora troppo si è legati ad una concezione di tradizioni secolari di potere personale.

Non tutte le persone che fanno parte della comunità sono soggette all’ordinamento giuridico. Chi non è soggetto a tale ordinamento, è del tutto privato d’ogni tipo di partecipazione alla vita pubblica, essenziale a quei tempi per essere considerato un cives.

I primi rappresentanti, diciamo così legali, dall’istituzione comunale, specialmente per quanto riguardava le controversie con i vescovi o con i signori feudali del circondario erano i Consules, che organizzavano l’eventuale lotta e i poteri di cui si circondano (militari, fiscali, amministrativi e giudiziari), che già da tempo non sono più nelle mani del sistema ecclesiastico, in quanto non vengono ritenuti conformi al magistero.

Il governo consolare è in ogni modo in mano a ricche famiglie nobiliari, che detengono il potere in maniera non dissimile dai dittatori illuminati, ed è difficile trovare all’interno di un’assemblea civica un’unità d’intenti tra il popolo ed il console.

Più spesso l’unità è frutto di manipolazioni e compromessi tra le varie fazioni della città e ciò mostra, inequivocabilmente, com’è stato difficile per tutti concepire un organo collegiale, nel quale si potesse trovare una qualunque forma di principio maggioritario sulle decisioni da prendere per il bene della cittadinanza.

Capitava, molto speso, che la decisione fosse rimessa ad un esterno che nulla aveva a che fare con il problema trattato, non dimenticando che il console generalmente non durava in carica per più di un anno.

Ciò la dice lunga sull’effettivo potere che il console esercitava: quest’ultimo era del resto portatore di un’indubbia diffidenza da parte delle grandi casate nobiliari della città.

A coadiuvare i consoli troviamo normalmente un consiglio detto di credenza, perché chi ne faceva parte era ritenuto un uomo degno di fede.

Anche i cives entrano a far parte di quest’organismo nel momento in cui si sviluppa la prima parte delle lotte tra l’imperatore germanico e i comuni lombardi, ma non certamente a scapito dei padroni veri della città che, nel contempo, aumentano il numero dei loro consiglieri a dismisura.

I Comuni, in realtà, disponevano dell’arengo o assemblea per dibattere i problemi inerenti l’ordinamento comunale, e qui si prendevano delle decisioni che poi venivano ampiamente codificate e redatte dopo essere state votate.

Per svolgere le mansioni istituzionali del Comune vengono creati degli uffici, se così possiamo chiamarli, dove la burocrazia del tempo s'industriava ad amministrare con oculatezza e si destreggiava alla meglio, partendo dal presupposto che chi otteneva questo incarico doveva disporre della propria casa come ufficio vero e proprio e doveva anche dar fondo a parte dei suoi mezzi personali. Tale incarico era di durata non eccessiva e di solito era affidato ad un mercante, che poteva ovviamente disporre di larghi mezzi finanziari e altresì di un’abitazione atta ad essere utilizzata come ufficio.

DUE PROBLEMATICHE BASILARI NEI RAPPORTI TRA COMUNI ITALIANI E POTERE IMPERIALE

Le proposizioni erano molte e sempre con argomentazioni forti, da trarre a freno anche il più astuto e preparato degli studiosi del tempo.

Innanzi tutto, bisogna porre il problema dicotomico sulla possibilità o meno di legiferare da parte (nel nostro caso) dei Comuni dell’Italia settentrionale e poi, susseguentemente, la seconda dicotomia sul riconoscimento o meno del valore del diritto statutario sul diritto romano imperiale.

Si può affermare che la seconda dicotomia sia assolutamente inscindibile dalla prima perché legata alla sua piena affermazione (in caso contrario, avremmo avuto la piena potestà imperiale senza la valorizzazione del diritto statutario).

Il trattare queste questioni, da parte dei giuristi dell’epoca, significava prendere una parte importante nella contesa, perché non si trattava di dare solamente una risposta a delle richieste particolari dell’imperatore e dei Comuni italiani, ma di esprimersi compiutamente sui diritti di sovranità o meno dell’imperatore stesso sulle civitas.

Riteniamo anche opportuno chiarire che, in ogni modo, i Comuni non avevano alcuna intenzione di venir meno alle loro qualità di federati imperiali, ma solo di ottenere una propria disciplina (e, a questo proposito, essi si sono sempre mossi nel rispetto ed in osservanza del sistema imperiale esistente).

I giuristi erano quindi chiamati ad elaborare delle soluzioni derivanti dal diritto romano stesso.

In sostanza, dovrà essere lo stesso diritto romano a codificare efficacemente lo ius statuendi delle comunità italiche e a creare una nuova situazione legislativa nell’impero stesso.

Gaio, con il suo Omnes Populi, darà un aiuto insperato nell'affrontare questa nuova situazione giuridica, senza prescindere dal codice giustinianeo.

Attorno a questo libretto si cimentarono i più importanti interpreti del diritto nell’arco di tre secoli, da Irnerio a Bartolo di Sassoferrato, accendendo dispute magistrali sull’uso delle norme statutarie e sui diritti acquisiti o meno dai Comuni italiani.

E’ proprio da questo frammento, passato così prepotentemente alla storia seppure nella sua brevità, che vogliamo partire per analizzare le problematiche inerenti al già citato diritto di sovranità dell’imperatore sui comuni lombardi, o meglio settentrionali, e sulle dispute avvenute durante l’impero di Federico I detto il Barbarossa.

Riporto il frammento gaiano: “Omnes populi, qui legibus ert moribus regentur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur. Nam quod quisque populus ipse constituit, id ipius proprium civitatis: quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi que iure omnes gentes utuntut “.

E’ palese e risulta evidente immediatamente come Gaio esprima chiaramente il diritto comune a tutte le genti (in questo caso il popolo dell’impero) e un altro diritto proprio delle civitas: da qui, a trarre che ogni città poteva dotarsi di una propria legiferazione il passo era breve.

Era chiaramente ancor più palese che questo principio era in netta contraddizione con quello espresso nelle stesso codice giustinianeo e che diceva: “leges condere soli imperatori concessum est”.

In tal modo spettava solo all’imperatore interpretare le leggi e solamente a lui spettava l’ultima parola sulle leggi da creare, a lui e solo a lui ci si doveva rivolgere e nessun altro aveva il potere di farlo.

Qui è espressa chiaramente la sovranità imperiale che pareva escludere, senza troppe discussioni ed in modo assoluto, qualsiasi altra fonte produttiva che non fosse quella dell’imperatore stesso.

Bisognava quindi superare questa difficoltà non certamente priva d’insidie e di valori nascosti in ogni circostanza, venuti alla luce dopo studi difficili e laboriosi.

LE ORIGINI E L'ESPRESSIONE GIURIDICA NELLA CONCEZIONE DELLO IUS COMMUNE

"Ius commune" significò un senso tipicamente medievale di intuire concettualmente la scienza giuridica, per costruire e conciliare, all'interno di una comprensione logica e razionale, il diritto romano dell'ordinamento universale e i vari diritti che si richiamavano agli ordinamenti particolari.

Tale espressione indicò, quindi, il diritto romano imperiale concepito come elemento di un sistema organizzato di fonti giuridiche coesistenti nel quale esso, come diritto generale e universale, si coordinasse secondo certe regole ai diritti locali e particolari.

E' importantissimo a nostro giudizio capire le intensità, diciamo così, concettuali dell'idea di ius commune, perchè su di essa si fonda tutto il sistema di diritto del XII secolo e così si rende indispensabile utilizzarla come strumento per comprendere un dato storico d'immensa portata, tanto da far breccia nelle vicende delle nazioni annesse all'impero.

I giuristi italiani (glossatori e poi commentatori) si sono industriati a legittimare l'antico diritto quale diritto vigente dell'impero e coordinarlo poi con le fonti locali, con stupefacente lavoro d’interpretazione in senso moderno.

Facendo un passo indietro e tornando alle origini, il rapporto fra il diritto romano unum ius dell'impero e la molteplicità dei diritti particolari entro l'impero stesso fu all'origine dello ius commune.

L'ignoto autore delle Quaestiones de iuris subtilitatibus ci fornisce qualche osservazione convincente in proposito.

Afferma infatti che in seno all'impero "discreti et loco et imperio populi diversa iure sectantur", mentre precedentemente diceva che "quod quisque populus ipse sibi ius proprium est ispius civitatis.Hinc evenit, ut multi populi non modo moribus, verum etiam scripte constituant sibi iura legibus contraria".

Il quadro è chiaro, il contrasto che n’esce è lampante, lo ius proprium degli ordinamenti particolari in contrapposizione all'unum ius dell'impero è già di fatto esistente al tempo.

Il Galasso a tal proposito osserva che nella concezione giuridica medievale, l'unum ius si contrappone al complesso degli iura propria di ciascun popolo e rappresenta lo ius commune, vale a dire quell'unità da cui la molteplicità di questi diritti deriva, secondo il principio della filosofia tomistica "omnis moltitudo derivatur ab uno".

Così, anche attraverso il frammento di Gaio possiamo rintracciare alcuni elementi riguardo l'espressione di ius commune.

Era il diritto delle genti, basato sulla "naturalis ratio" o patrimonio collettivo dell'intera comunità umana, da cui si potevano distinguere gli iura porpria delle singole civitates, patrimonio anche dello stesso diritto di Roma: "Omnes populi qui legibus et moribus regentur partim suo proprio partim communi omnium hominum iure utuntur".

Il diritto romano diventa insomma nel concetto medievale ius commune, e in altre parole diventa diritto universale emanato potenzialmente a favore delle esigenze dei comuni componenti la cosiddetta "respublica christiana", ed il suo destino è quello di dover servire tutte le popolazioni con ordinamenti giuridici particolari.

In sostanza, l'impero e il suo diritto (ius commune) formano un tutto, a cui si collega in perfetta subordinazione l'insieme dei diritti e degli ordinamenti di ogni singola unità dell'impero stesso (ius proprium).

Concettualmente, potremmo definire questa situazione in tal modo: si presuppone l'esigenza di un sistema normativo unitario in cui rientrino sia le norme comuni sia quelle particolari che sono una deviazione delle prime.

Così, il concetto dogmatico di diritto comune trae la sua giustificazione da un altro diritto che non è comune.

L'idea di diritto comune nasce quindi da un'esigenza universalistica fondamentale: l'impero romano-cristiano e poi romano-germanico.

Il diritto comune è presentato quindi come superiore a qualsiasi altro diritto, omnicomprensivo ed universale, valido per ogni scopo ed ogni fine.

Indubbiamente questa è una presentazione del diritto in veste sicuramente gerarchica, che postula un sistema di fonti normative facenti capo alla ratio iuris communis, in cui il diritto comune è la sorgente donde derivano tutti i diritti particolari.

E' in posizione di preminenza gerarchica, così collocato dai giuristi allo scopo di rendere ben chiara la sua grandezza in un mare d’ordinamenti.

I RAPPORTI TRA LO IUS COMUNE E LO IUS PROPRIUM E LA CONCEZIONE UNIVERSALISTICA MEDIEVALE

Tutti i rapporti fra ius comune e lo ius proprium sono edificati nei secoli dodicesimo e tredicesimo dalla scienza giuridica in modo ordinato e, dato che s’istituiscono vincoli che coordinano sia le fonti di Giustiniano sia quelle relative ai diritti particolari, questi ubbidiscono a prefissati criteri gerarchici di funzionamento.

Nonostante tutto questo sia più che altro astratto e artificioso, tale costruzione originaria, resa da chi studiava diritto, non stava nell’estrinsecare i vincoli di coordinazione che li avviluppavano, come in una subordinazione dello ius proprium allo ius comune, ma nell’inserirsi in una più vasta operazione che potremmo definire culturale, nell’ambito degli sconvolgimenti etico-politici dell’epoca.

Si possono riconoscere le forze trainanti di quest’impostazione culturale nella chiesa, nell’impero, begli ordinamenti monarchici, nei comuni, nei feudi e nelle corporazioni: da loro trae forza e progredisce l’impalcatura giuridica medievale nelle sue varie forme.

Il diritto così riflette sempre il sistema dei valori di una società ed il concetto che quest’ultima ha della giustizia.

L’idea del diritto comune viene ad esprimere l’unità suprema della legge universale che fungeva da collegamento e conciliava la molteplicità complessa delle leggi particolari: si poneva allora come naturale veste giuridica del più alto ideale di giustizia e d’armonia politica del medioevo.

Comprendiamo quindi perché si possa parlare di universalistico e particolaristico al tempo stesso e come sia proprio la stessa frammentazione particolaristica a dar vita all’idea universalistica.

In tutto il continente europeo, e in special modo in Italia, stava emergendo una molteplicità impressionante di stati sovrani e di città-stato che, sebbene legate all’impero, erano e volevano essere indipendenti giuridicamente.

Così il concetto, espresso fino ad ora, di diritto comune si lega e si collega al problema o meglio ai problemi della pluralità degli ordinamenti giuridici che derivavano dall’impero stesso che a sua volta, come abbiamo già visto, era sorretto da una fortissima connotazione ideologica legata all’idea universalistica.

Il vincolo degli Stati era quello della cristianità unita, ma non quello dell’ubbidienza cieca e assoluta all’imperatore, quantunque essi, a differenza d’altri Stati (come quelli dell’Italia meridionale), vivessero sempre come sudditi fedeli dell’imperatore stesso.

Dobbiamo, quindi, far capo a questo modo di concepire l’ideologia nel medioevo se vogliamo comprendere meglio la situazione venuta a crearsi (certamente così lontana dai nostri schemi attuali ma necessaria) e renderci conto dei motivi per cui l’unum imperium, e il suo ideale, avesse ancora ragione d’essere in questo periodo storico mantenuto con vigore in maniera linda e netta.

L’ideale universalistico era capace di sprigionare suggestioni altissime, sia di tipo religioso sia culturale, fino ad esaltare e giustificare anche il modo d’atteggiarsi degli imperatori stessi che si sono susseguiti sul trono di Roma, cominciando da Ottone I che nel 962 aveva annesso automaticamente la corona del sacro imperium a quella tedesca.

Essi si dicevano discendenti diretti dei cesari romani e questo simbolismo era autentico per i valori che esprimevano sempre, nella direzione di una tradizione formale e ufficiale.

Non a caso Federico I, formidabile avversario del papato e dei Comuni e rappresentante dell’idea imperiale nella sua forma più consapevole e matura, appare fra i più convinti sostenitori della romanità del suo imperium ed è il primo fra gli imperatori a denominarlo sacrum.

E’, appunto, questo concetto d’autorità dogmatica d’imperium, che i giuristi medievali cercano di esprimere utilizzando anche la plenitudo potestatis dei nuovi monarchi.

E' ancor più significativo che questi ultimi non abbiano saputo dare nessun altro fondamento di tipo teorico al loro potere e all’esercizio di questo come regno proprio, al di fuori di quello teorizzato così adeguatamente al loro caso dalla base giuridica romanistica.

Tutto ciò non impedì, peraltro, di far sì che i Comuni cittadini italiani usassero a loro volta le tesi dei giuristi per rendersi autonomi ed indipendenti, con lo schema: “universitas superiorem non recognoscens”, come dire che essi avevano titoli necessari ad esercitare nei loro possedimenti tutti quei poteri del monarca e perciò “tantum iuris habet in territorio suo quantum imperatum in suo imperio”.

Si può quindi intuire il collegamento tra il diritto comune, diciamo così primitivo, e le nuove ordinanze giuridiche scaturite dalle successive elaborazioni dottrinali giuspubblicistiche.

I GIURISTI MEDIEVALI DI FRONTE AI PROBLEMI FONDAMENTALI DEL DIRITTO COMUNE

I giuristi medievali, affrontando il problema di far emergere un fondamento che in seguito poté essere legittimato nell’insieme dei poteri che di fatto ciascun ordinamento, nella piena espressione della sua autonomia, esercitava per autogovernarsi, gettarono il loro sguardo alla potestà di emanare norme giuridiche, che sembrava essere la più importante tra le funzioni degli ordinamenti comunali.

In altre parole, il problema era quello di legittimare a pieni poteri le città comunali, come padrone di uno ius proprium, e a questo proposito si poteva parlare di problema teorico e politico allo stesso momento.

Nelle Quaestiones de iuris subtilitatibus si poteva trovare qualche fonte riguardante quest’argomento e precisamente quando si riconosceva lo ius proprium come preminente fra i poteri di un populus: ”ut legem condat, conditam interpretatur”.

Da qui, a capire il perché i Comuni italiani rivendicassero con tanta bramosia e gelosia la potestà di darsi statuti propri, il passo è breve; questo anche se i detti statuti sarebbero andati contro lo ius comune (applicandoli alla lettera) o non avessero seguito lo ius comune.

Fino a quasi tutto il XIII secolo resisterà questa situazione, nonostante il fatto che i più valenti giuristi cercassero sempre ed in ogni modo di esentarsi dall’imporre l’assoluta precedenza della norma statutaria.

Anzi, ribaltando la situazione venutasi a creare, essi difendono la preminenza del diritto comune su quello particolare, o meglio su quelle norme di diritto particolare che contrastano con il diritto comune.

Lo spirito del sistema suggerisce loro una visione in cui il diritto dell’impero appare davvero quell’unum supremo ed universale che non implica la scomparsa d’ogni legge concorrente, ma al quale tutti gli altri diritti devono coordinarsi e subordinarsi.

In verità, tutte queste chiarificazioni sul modo d’impiego dell’espressione ius comune non si possono certo esaurire in un modo così semplice.

Ciò che c’interessa è ora vedere come, invece, non si esaurisce nel tempo medievale la portata storica del concetto appunto di diritto comune.

La giurisprudenza medievale cercò di organizzare e coordinare sistematicamente tutte le fonti, contrapponendo uno ius comune universale allo ius novum, in altre parole l’assieme dei diritti particolari.

Il complesso di queste coordinazioni, da parte dei giuristi, portò ad una misura di ius vetus e ius novum.

In sostanza, partendo da una rigorosa attività d’interpretazione di dogmi giustiniani, attraverso non facili elaborazioni, si raggiungeva uno spirito nuovo nelle fonti giuridiche dettate da una versione diversa di veduta socio-culturale.

UNO SGUARDO AL SISTEMA UNIVERSITARIO MEDIEVALE

Si può tranquillamente affermare che, con Irnerio, nasce la prima università, intesa in senso moderno, in Italia e sicuramente la prima in Europa, per gli studi giuridici.

Il nome che la Bologna medievale si guadagna di "città dotta" (termine che rimarrà indelebile anche nei nostri giorni), lo deve appunto a tutta quell’attività peculiare e in continuo crescendo che Irnerio ha impostato all’inizio del XII secolo e che è poi proseguita con i suoi diretti discepoli.

E’ chiaro, sin da ora, che la Scuola di Bologna sarà sempre al fianco dell’imperatore nelle dispute giuridiche, proprio per l’accentuarsi di quella peculiarità che si potrebbe chiamare elitarismo scolastico e quindi d’inserimento in quella fascia alta della popolazione che detiene il potere.

Questa affermazione è permeata di un’attenta visione dell’immagine che abbiamo d’Irnerio, quando insegna: egli non è un oratore che pubblicamente spiega le sue teorie all’interno della sua “Università”, ma è un oratore che raccoglie solamente quei discepoli o studenti pronti a recepire i suoi insegnamenti in modo interessato ed attento, pronti a seguirlo ovunque e tendenzialmente fedeli alla sua immagine.

Veniamo a vedere meglio come si prepara un corso medievale.

Il maestro svolge le lezioni prevalentemente nella sua dimora, così da eliminare chiunque non sia di suo gradimento.

In genere, questo contesto forma la cosiddetta comitiva, che altro non è che l’insieme degli studenti con il loro proprio professore che li chiama familiarmente mei socii.

Non esiste nessuna formalità per poter partecipare al corso se non, beninteso, quella di pagare una quota al maestro.

L’unico atto, diciamo così formale, era quello dell’esame finale per il giovane giurista in un luogo pubblico, ove il laureando si poteva esibire in tutto il repertorio di diritto romano ed ecclesiastico.

Anche i programmi variavano da maestro a maestro e da alunno ad alunno, evidenziandone la preparazione più o meno specifica, denunciandone i limiti e le pretese.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia medievale
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Aggiornamento: 01/05/2015