PROSPETTIVE DEL NOVECENTO
Il nodo della Grande Guerra


PRIMA E DOPO LA GRANDE GUERRA: L'ITALIA

Per approfondire la questione della guerra – fondamentale per capire il Novecento - occorre partire dai decenni riguardanti la fine dell’Ottocento e le prime due decadi del Ventesimo secolo, inclusivi della Grande guerra, la quale rappresenta il motore principale di tutti i successivi sconvolgimenti. La scelta di parlare della Grande guerra, piuttosto che della seconda guerra mondiale, deriva anche dal fatto che da essa nacquero il fenomeno dello stato totalitario e il declino dell’Europa.

Per iniziare, dobbiamo in primo luogo considerare le ragioni fondamentali di politica interna per cui si fanno le guerre.

Qui ci aiuta l’amara riflessione che Simone Weil fece in un lucido articolo del 1933, nel quale scriveva: “Il grande errore di quasi tutti gli studi sulla guerra, errore nel quale sono caduti specialmente i socialisti, è di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre costituisce innanzitutto un fatto di politica interna – e il più atroce di tutti. Qui il punto non sono riflessioni sentimentali o un rispetto superstizioso della vita umana, ma un’osservazione molto semplice: che il massacro è la forma più radicale di oppressione, e i soldati non si espongono alla morte, ma sono mandati al massacro. Come un apparato oppressivo, una volta costituito, sussiste finché non viene abbattuto, ogni guerra che fa pesare un apparato incaricato di dirigere le manovre strategiche sulle masse che vengono costrette a servire da masse di manovra dev’essere considerata come un fattore di reazione, anche se a farla sono dei rivoluzionari. Quanto alla portata esterna di una tale guerra, essa è determinata dai rapporti politici stabiliti all’interno: armi maneggiate da un apparato di Stato sovrano non possono apportare la libertà a nessuno”.26

La storiografia ha ormai chiarito a sufficienza le ragioni (anche economiche, collegate alla questione degli sbocchi commerciali nei Balcani, per quanto riguarda l’Italia) e le circostanze politiche, diplomatiche e persino casuali che portarono l’Europa a suicidarsi in due tempi, attraverso la prima e la seconda guerra mondiali.

Con una preveggenza tanto più sorprendente in quanto dopo poco più di un mese da queste dichiarazioni scalpitava per il timore che l’Italia non facesse a tempo a partecipare alla guerra, Ferdinando Martini, conservatore e ministro che citerò ancora, scriveva nel luglio 1914 nei suoi Diari: “Guerra, se avvenga, della quale non avrà esempio la storia; dopo la quale l’Europa rischia di divenire un compiacente morto alla mercé dell’America e dei popoli dell’Estremo Oriente...; ma è guerra da lungo voluta: e fiumi di sangue scorreranno e dalla guerra verranno, chiunque sia il vincitore, questi due effetti: miseria e rivoluzione”. [c.vo mio]

Di suicidio dell’Europa si deve infatti parlare, visti gli esiti della conseguente ridistribuzione mondiale del potere, e di suicidio tragico, visto che la prima guerra costò dai dieci ai tredici milioni di morti, sei-sette milioni di invalidi e quindici milioni feriti; e che la seconda portò i morti a più di cinquanta milioni.27 I dati sono ovviamente su scala mondiale. In Europa i morti furono circa 9 milioni. Va aggiunto che in Italia cadde il 6,5% della popolazione maschile, circa 750.000 persone, morte in combattimento o a seguito della guerra.

Allora non si pensava certo che il Novecento sarebbe stato soprannominato il secolo delle stragi. Il secolo più violento di tutta la storia umana, senza considerare le tante guerricciole e guerre locali e interne che hanno costellato la storia del secolo, tra un massacro in grande stile e l’altro. Un fiume di sangue, una carneficina – insisto a dire - che non hanno avuto precedenti nei millenni. Come cantava Prévert, si è trattato di una pioggia di lutti terribile e desolata.28

Il fatto è che una parte importante della cultura della prima parte del Novecento, in particolare italiana, ha avuto grandi responsabilità nel coltivare come un valore la violenza e il disprezzo della democrazia. Un’ininterrotta fiumana di scritti e di interventi esaltava la filosofia della sopraffazione, la guerra come regolamento dei rapporti internazionali, la necessità di costruire un impero italiano, la scelta di non confrontarsi con gli avversari politici ma di distruggerli, l’idea di governo come radicale occupazione del potere statale e di utilizzazione delle istituzioni a fini di parte, i miti del superuomo e del maschio combattente.

La guerra era magnificata come una bella avventura e i ragazzi (certo, non i contadini), come anche i comandi militari, andarono in battaglia pensando ad una guerra di tipo risorgimentale, così come l’iconografia e il mito letterario l’avevano costruita e tramandata. Insomma, prevaleva l’idea che la guerra “potesse risolversi nella breve stagione di un’epica avventura, in una festa antica ma non troppo crudele, in un’esaltazione inebriante delle energie individuali e collettive, come sembrava essere accaduto tra il 1859 e il 1871.”29

In sostanza, né il governo né i militari né tanto meno gli agitatori interventisti avevano compreso la natura nuova della guerra che ci si apprestava a combattere, e cioè che si sarebbe trattato soprattutto di un colossale scontro tra potenti apparati industriali, in grado di assicurare il successo delle operazioni belliche attraverso un rapido, continuo e massiccio rinnovamento degli armamenti. Si trattò di una sorta di “autoinganno generale o forse meglio di una incapacità culturale di cogliere appieno le trasformazioni in corso nelle società e negli stati, degli armamenti e dell’industria”.30 Inoltre, tutti gli stati maggiori sottovalutarono il fatto che la logistica – a parte l’uso massiccio della ferrovia, che però non arrivava certo alle linee del fronte – era ancora inadeguata. Non si potevano rifornire tempestivamente milioni di uomini in marcia per mezzo di carriaggi trainati da animali. L’avanzata dei tedeschi fu arrestata sulla Marna dai francesi perché i primi avevano allungato troppo le loro linee, i soldati erano stanchi e i rifornimenti – anche di munizioni – scarseggiavano.

Nessuno – salvo forse Churchill, come abbiamo visto, oltre a qualche commentatore che non fu ascoltato - si era reso per davvero conto della potenza delle armi di distruzioni di massa nel frattempo costruite. Pochi avevano riflettuto sul significato strategico e tattico di mettere in campo milioni di soldati e sulla differenza tra un attacco contrastato dalle mitragliatrici, da potenti cannoni e da reticolati e un’eroica carica risorgimentale che si concludesse con il bel gesto risolutore. Su quei reticolati finirono l’Ottocento e le sue illusioni. Lì moriva la guerra garibaldina - scrisse Alfredo Omodeo. Ma, secondo un’osservazione di R. Aron, lì moriva anche la tradizionale politica europea dell’Ottocento, la quale era continuata nel primo Novecento “come se la civiltà industriale non avesse portato nulla di nuovo.”

Leggere oggi, magari solo sfogliare, la letteratura bellicista del tempo fa venire i brividi e, ben sapendo cosa è accaduto in seguito, confesso che a me fa venire nausea, ma anche un certo disprezzo per quelli che avrebbero dovuto essere degli intellettuali, ossia delle persone per definizione più fornite di strumenti di interpretazione della realtà.

Il mito e l’esaltazione della violenza attraversarono molta parte della cultura italiana, fino alla necrofila posizione di F. T. Marinetti sulla guerra come unica igiene del mondo, le cui descrizioni della Grande guerra sono state assimilate ad un barocco mortuario, e fino alle allucinanti e entusiastiche perorazioni di Giovanni Papini per un caldo bagno di sangue nero. Quest’ultimo scrisse su Lacerba un articolo (e non solo uno) rimasto famoso, intitolato Amiamo la guerra che, tra l’altro diceva: “Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; e una muraglia di svampate per i freschi di settembre.” E continuava: “Fra le tante migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse che nel colore dei panni, quanti saranno, non dico da piangere, ma da rammentare?” Non arriveranno a venti, aggiungeva. Un odio e una svalutazione dell’umanità che ne fa uno degli intellettuali più esecrabili del Novecento italiano. “Amiamo la guerra – concludeva - ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa - e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi.”

In seguito, Papini si permise persino il lusso del pentimento. Un caso emblematico dell’irresponsabilità degli intellettuali della prima parte del Novecento.

Il clima esistente in molti ambienti borghesi e intellettuali del tempo è efficacemente riassunto in ciò che scrisse Giovanni Boine, esponente di primo piano del nazionalismo e ben introdotto negli ambienti militari, nei suoi noti Discorsi militari, le cui copie furono massicciamente acquistate dalle biblioteche dell’esercito: “La guerra ci darà delle leve di uomini più decisamente preparati alla vita, capaci di sacrificio pronto e di spirito di sofferenza, capaci di dolore, del dolore proprio e altrui senza eccessivi guaiti sentimentali e umanitari, meno fiacchi, più rudi e più maschi, meno immersi nella snervante consuetudine del piacere e del comodo o nel dissolvente egoismo borghese”.31

Insomma, si auspicava un massacro per selezionare una nuova classe dirigente. Era questo uno degli obbiettivi principali che i nazionalisti (ma non solo loro) si prefiggevano di raggiungere con l’entrata in guerra. Una pedagogia della violenza che è all’origine di tanti bagni di sangue, comunque connotati politicamente. Sarebbe interessante (ed è stato fatto) sottoporre ad analisi antropologica e anche psicoanalitica questo tipo di “cultura”.32

Come molti altri interventisti anche di sinistra i futuristi, ad esempio, pensavano e teorizzavano che il vecchio mondo borghese sarebbe uscito distrutto dall’esperienza della guerra e speravano che si sarebbe arrivati ad un’artecrazia, cioè al dominio politico e sociale degli intellettuali creativi e degli artisti. In un certo senso, avevano persino ragione a proposito della borghesia liberale, ma non nella direzione che essi si aspettavano. In loro, come in gran parte della cultura nazionalista e di quella più diffusa in quel tempo, l’ossessione della guerra nasceva dall’idea di una malattia profonda della società, derivante dal prevalente spirito piccolo-borghese e del cinico calcolo di bottega. L’unica cura per una tale infezione era la guerra, vista come misura igienica, come esaltazione incondizionata dell’eroismo. Marinetti espresse fin dal suo primo manifesto del 1909 l’idea della guerra come palingenesi e rinascita politico-sociale.

Molti degli altri gruppi interventisti avevano in realtà più tendenze eversive che di rinnovamento. Penso ai socialisti interventisti, ai sindacalisti rivoluzionari e persino a frange anarchiche e mazziniane. Ma c’erano anche circoli che teorizzavano la necessità della guerra come ultima guerra, dopo di che avrebbe regnato una pace universale. Infine, c’erano gli ambienti politici liberali che facevano capo a Salandra e alla massoneria, certo molto meno interventisti dei futuristi e dei nazionalisti. Anch’essi, però, videro nella guerra l’occasione per marcare un distacco dalla storia più recente, considerata troppo incerta dal punto di vista dell’attività di governo e della politica di potenza e per uscire da quella crisi morale nazionale di cui erano state piene le cronache degli interventi politici e letterari degli ultimi anni.

Con le motivazioni più diverse, insomma, tutte le componenti interventiste, anche quelle meno estremiste, speravano che la guerra avrebbe prodotto grandi cambiamenti politici interni: in buona sostanza, l’Italia entrò in guerra, in gran parte, per motivi di politica domestica e, soprattutto, per rovesciare il sistema di equilibrio politico-sociale giolittiano.

Tuttavia, al di là della passività contadina e anche dell’ostilità alla guerra di vasti strati maggioritari della popolazione, un certo consenso popolare ci dovette essere. Ha ragione Vittorio Foa nello scrivere che “il problema del consenso popolare alla guerra è ancora molto da approfondire sul piano storiografico, ma una sola cosa si può affermare con certezza: che non si trattò di una mistificazione. All’inizio l’atteggiamento attivo, se non entusiasta, rispetto alla guerra dimostrò quanto il nazionalismo fosse interiorizzato a livello di massa, con un meccanismo mentale inedito…”33 Ma negli altri paesi europei l’entusiastica adesione popolare alla guerra fu ben più ampia di quella italiana. Basti pensare che in Inghilterra, unico paese che non previde la coscrizione obbligatoria fino al 1916, nei primi mesi di guerra l’afflusso dei volontari fu di quasi due milioni di persone. Lo stesso clima si registrò in Francia e in Germania. In Italia, invece, i volontari non raggiunsero le diecimila unità

Certamente negli strati della piccola, media e alta borghesia numericamente in ascesa ci fu la partecipazione più attiva e molto ideologizzata. Per rendersene conto basta esaminare le tre idee principali espresse da quella parte della gioventù che andò volentieri al fronte.

1. La prima idea riguardava la difesa dell’unità del paese e della società come base necessaria per la vittoria. Queste furono anche le ragioni per cui molti tiepidi o contrari nei confronti della guerra si acconciarono a combatterla (persino i socialisti, contrari alla guerra, e che avevano ufficialmente adottato l’ambigua linea del non aderire né sabotare). Anch’essi – nonostante appartenessero all’unico grande partito socialista europeo che si fosse espresso contro la guerra - si batterono poi con determinazione, come riconobbero i comandi militari, convinti che un’occupazione straniera avrebbe solo peggiorato le condizioni dei lavoratori. “Noi siamo contrari ad ogni idea di guerra – dichiararono alla Camera – ma non potremmo certamente ammettere che il nemico venisse nel nostro Paese, e s’insediasse nelle nostre case.” Tuttavia, socialisti e repubblicani furono in genere esclusi dai corsi per diventare ufficiali.

Nel secondo anno di guerra ci furono episodi di propaganda pacifista da parte di anarchici e di frange giovanili socialiste, ma furono abbastanza marginali pur se gonfiati dalla stampa interventista e dagli stessi dispositivi giudiziari. Anche i cattolici, di fatto, non ebbero problemi a partecipare attivamente alla guerra, persino tra il clero, nonostante una certa riserva di fondo. In realtà, nonostante le resistenze di ambienti integralisti ormai marginali, l’unità nazionale non era più in discussione.34 Racconta Mussolini nei suoi diari di guerra, a proposito della predica tenuta da un cappellano militare, che si trattava del primo discorso veramente e accesamente patriottico che ho sentito in sedici mesi di guerra. D’altra parte, quasi tutta l’assistenza morale e materiale ai soldati, almeno fino a Caporetto, venne gestita dai cappellani militari, senza che i comandi militari o il governo si interessassero seriamente al problema, se non a parole. Nel 1917, però, di fronte alla dichiarazione del papa, che definì la guerra un’inutile strage, crebbe un’atmosfera di sospetto nei confronti degli stessi cappellani militari.

2. L’altra idea, efficacemente propagandata, insisteva sull’immagine di un nemico barbaro e terribile, dipingendo la Germania come il paese che per millenni aveva sempre portato guai alle popolazioni europee: un barbaro da schiacciare, come si può vedere dai manifesti di propaganda del tempo e che insozza il sacro suolo della Patria, come scrissero molti ragazzi dal fronte. E del resto, lo stesso Kaiser tedesco aveva boriosamente parlato di germanizzazione del mondo.

Qui si colloca anche l’ormai classico confronto-scontro, avvenuto anche in Italia in toni aspri, tra l’idea di civilisation, sostenuta dalla cultura francese e inglese (il liberalismo, in sostanza), che si basava sul riconoscimento di diritti individuali inalienabili, e l’idea tedesca di Kultur, che pur non disprezzando la cultura dei diritti la integrava (e piegava) attraverso il concetto di identità, come portato della storia e dell’appartenenza a una terra e a un unico sangue, e che si convertì brutalmente nel pangermanesimo e, in seguito, nella distorsione nazista.35 La polemica degli interventisti italiani si indirizzò soprattutto contro gli ambienti accademici, fortemente influenzati dalla cultura tedesca.

Certo, nella prima fase della guerra l’Intesa anglo-franco-russa aveva stentato a far identificare il proprio schieramento con quello democratico, a causa dell’alleanza con la Russia zarista; ma, dopo la caduta dei Romanov e l’entrata in guerra dell’America, la propaganda – anche italiana - puntò con determinazione sull’idea di guerra democratica contro l’autoritarismo degli imperi centrali.

Ovviamente, questa rappresentazione della guerra come uno scontro tra ésprit français e Kultur germanica è solo una sovrastruttura ideologica e propagandistica di ciò che in effetti accadde. Tanto più che ci sarebbe molto da discutere sul grado di democraticità sostanziale esistente in Inghilterra o in Francia. Pochi sanno che le leggi elettorali tedesche o austriache erano più avanzate delle altre, prevedendo già il suffragio elettorale generale maschile, e che lo stato sociale tedesco bismarckiano era il più generoso. Il punto dolente della Germania era piuttosto rappresentato dal dominio del militarismo e dei proprietari terrieri prussiani, sanzionato dalla costituzione imperiale. Secondo tale costituzione, il Kaiser, per la politica estera e per l’esercito, non rispondeva al Parlamento tedesco ma a quello prussiano, la cui legislazione dava appunto il potere ai militari e ai proprietari terrieri.

Diverso il caso austriaco, per il quale l’affermarsi del principio di nazionalità rappresentava un colpo mortale, da combattere a tutti i costi, anche dichiarando guerra a quelli che erano i più irrequieti e pericolosi nei Balcani, i serbi, per l’appunto. Anzi, nei calcoli di Vienna, il conflitto doveva servire a tenere meglio sotto controllo, se non a far regredire, i vari irredentismi che minavano l’unità dell’impero asburgico

Dunque, a parte il caso della Russia zarista, si trattò di un conflitto tutto interno a potenze i cui valori erano delle varianti di un impianto all’incirca liberale. In sintesi, “le ideologie delle nazioni europee non erano così diverse da provocare scontri nazionali, però abbastanza da aggravarli nel caso si verificassero”.36 Le differenze tra i paesi belligeranti furono appositamente esaltate dai governi e dagli intellettuali interventisti per sollecitare e motivare la mobilitazione bellica delle masse.

Non ho trovato una definizione più breve e pregnante della seguente: “La prima guerra mondiale nacque per decidere quale nazione o gruppo di nazioni avrebbe avuto un ruolo predominante in Europa e, in prospettiva, nel mondo, data la supremazia che gli stati europei allora esercitavano su gran parte del globo”.37 In particolare, era in gioco la supremazia tra Inghilterra e Germania, anche se tutti i belligeranti proclamarono che la loro era una guerra difensiva. Ma esistono documenti diplomatici francesi di sei anni antecedenti lo scoppio della guerra in cui si delineava un assetto europeo che passava attraverso una guerra generale, e il cui esito fu poi, sostanzialmente, quello uscito dalla conferenza di pace di Versailles.

In buona sostanza, l’insistenza sul predominio nell’assetto europeo era anche la tesi dei nazionalisti italiani, così come l’interpretazione del bolscevico V.I. Lenin, pur se tutti i contendenti dipingevano il nemico come barbaro e traditore. Fu il primo passo verso l’ideologizzazione del conflitto, necessaria per mobilitare e motivare grandi masse di combattenti. “Il bene finirà per essere patrimonio esclusivo della nazione a cui si appartiene, mentre il male sarà riversato completamente all’esterno”, scrive Paolo Sorcinelli.38

3. La terza idea assai diffusa tra i giovani interventisti italiani riguardava la redenzione delle terre occupate dall’impero austro-ungarico e la liberazione attesa da quelle popolazioni. Ma occorre dire che le popolazioni italiane oltre i confini orientali non accolsero molto cordialmente l’esercito italiano. In genere non manifestarono ostilità evidente, se non in qualche caso, ma mostrarono un’esplicita indifferenza.

Questa reazione della popolazione italofona, colpì molto i protagonisti, anche se venne taciuta dalla stampa. Le testimonianze dei militari interventisti più fervidi sono molto chiare in proposito. La giustificazione principale dell’intervento italiano, volta a ritagliare all’interno della guerra europea motivazioni specificamente nazionali che mascherassero le ragioni degli acuti contrasti con l’Austria-Ungheria su chi dovesse esercitare l’egemonia nei Balcani, aveva molto insistito sui caratteri risorgimentali del conflitto per renderlo più accettabile all’opinione pubblica. Tanto che quella italiana apparve, anche agli storici successivi, oltre che alle opinioni pubbliche dei paesi alleati, una specie di guerra parallela e secondaria.

La guerra era stata concepita con questi caratteri proprio dal governo italiano, il quale considerava transitoria l’alleanza con l’Intesa. “Infatti l’on. Sonnino [all’epoca ministro degli esteri] non pensava in nessun modo ad un’alleanza destinata a garantire anche per il dopoguerra a tutti gli alleati i frutti della vittoria. Per l’on. Sonnino, la guerra fra l’Italia e l’Austria non aveva nessun legame permanente con la guerra fra la Triplice intesa e gli Imperi centrali. Era la nostra guerra come faceva scrivere nei giornali a lui fedeli, che si combatteva accanto alla guerra generale senza confondersi con essa. L’Italia era una alleata provvisoria dell’Intesa antigermanica: alliée pour le moment, come diceva a Parigi un nostro diplomatico. E per il dopo guerra si riservava piena libertà di azione”.39 Contro il parere di alcuni ambienti militari, il governo si era rifiutato fin dall’inizio di accettare il sostegno di un corpo di spedizione alleato in Italia, che fu chiesto solo all’indomani di Caporetto.

Il governo italiano preparava così con le sue mani le delusioni del dopoguerra. Costruiva esso stesso le basi del successivo mito della Vittoria tradita che rappresentò uno dei più robusti sostegni ideologici all’avvento del fascismo.

Comunque, l’atteggiamento italiano sull’entrata in guerra era stato tanto più difficile da motivare, in quanto per decenni l’Italia era stata alleata della Germania e dell’Austria (la Triplice alleanza) e, poco tempo prima dell’entrata in guerra, aveva persino rinnovato il patto concordandone un rafforzamento. Le ragioni di politica internazionale che – giuste o sbagliate che fossero – avevano giustificato l’alleanza c’erano, ovviamente. Ma risulta obbiettivamente difficile spiegare come mai ci si fosse alleati con uno stato che occupava una parte cospicua delle terre italiane, salvo poi riscoprire questo problema. Nel telegramma informativo sulla firma del Patto di Londra che Salandra inviò agli ambasciatori italiani a Londra, Parigi e Pietrogrado non c’è alcuna traccia di motivazioni irredentiste. Ci sono solo considerazioni d’ordine strategico e tattico riguardanti i Balcani.

Che la situazione fosse molto ingarbugliata è anche testimoniato dal fatto che durante i primissimi tempi della neutralità il comandante in capo dell’esercito italiano, Luigi Cadorna, all’oscuro delle iniziative politico-diplomatiche del governo - tendenti a contrattare con Francia e Inghilterra i compensi per un’entrata in guerra al loro fianco - intratteneva rapporti abbastanza stretti e di collaborazione con i comandi austriaci, i quali si preoccuparono addirittura di quali e quante truppe dovessero inviare per sostenere l’esercito italiano sui confini con la Francia.

Poco tempo prima, in effetti, era stata rinnovata dal predecessore di Cadorna, dopo un periodo di sospensiva, una convenzione militare con la Germania in cui si prevedeva l’impiego sul fronte occidentale di alcuni reggimenti italiani, reputandosi impossibile, per ragioni orografiche, un attacco francese sul fronte alpino. La vicenda mette in luce l’assoluta mancanza di collegamenti tra la sfera politica e quella militare. L’alto comando italiano non era stato consultato circa gli indirizzi diplomatici del governo. D’altra parte, Salandra non si fidava di Cadorna, conoscendone le simpatie per la Germania. Oltre tutto, lo stesso governo non aveva ancora deciso in quale direzione muoversi.

Cosicché, Cadorna aveva approntato piani di schieramento e operativi delle truppe al confine delle Alpi occidentali, che presentò al re. Forse anche per questo l’alto comando italiano non aveva, all’inizio delle ostilità, alcuna idea sulla consistenza delle truppe austriache ai confini orientali.

La delusione – tornando all’atteggiamento degli italiani sotto il dominio austriaco - di chi aveva coltivato le maggiori illusioni sulla redenzione delle terre italiane fu insomma molto forte. Numerose furono le lamentale da parte dei soldati sul trattamento a loro riservato dai contadini e dai commercianti locali, essenzialmente teso a ricavare lauti guadagni dalla fornitura di generi di prima necessità, con un fortissimo rialzo dei prezzi. C’è un promemoria riservatissimo dello stato maggiore italiano che descrive allarmato questa situazione e che, per l’area friulana, accusa i preti di campagna di essere filoaustriaci e di condizionare il comportamento dei contadini.40 Lo stesso fenomeno si registrò però nel Trentino. La storiografia successiva passò sotto silenzio questi aspetti imbarazzanti, ma il caso di De Gasperi non fu certo isolato. Di fronte a circa un migliaio di trentini che, passando le linee, andarono ad arruolarsi nell’esercito italiano, ce ne furono 60.000 che vestirono la divisa austro-ungarica.41

Certo non bisogna pensare che i trentini andassero felici sotto le armi austro-ungariche. Si trattava pur sempre e in grande maggioranza di contadini che non vedevano con entusiasmo la guerra e che non seppero o non vollero sottrarsi alla coscrizione obbligatoria. Essi furono impiegati sul fronte orientale e considerati con sospetto dai comandi austriaci. Così come, d’altra parte, erano in genere guardati con sospetto dal comando italiano i volontari trentini, perché potevano pur sempre essere delle spie. Su oltre 30.000 prigionieri austriaci di origine italiana fatti dai russi, solo circa 2.500 accettarono di riprendere la guerra dalla parte dell’Italia. I casi eroici del socialista Cesare Battisti e di altri italiani dei confini, che infiammarono il patriottismo italiano, coprirono questa realtà. Ora la storiografia locale, molto attenta nel ricostruire attraverso lettere, diari e memorie i casi della gente comune di quelle terre ha chiarito definitivamente che fu davvero una piccola minoranza quella che si batté per l’unione con l’Italia.

In una lettera al Presidente del Consiglio, Luigi Federzoni, il noto nazionalista e interventista, scrive allarmato: ... in tutti i paesi noi siamo stati accolti con freddezza, con diffidenza, sovente con aperta antipatia. E termina addirittura confrontando l’accoglienza della popolazione friulana con quella libica durante l’invasione italiana. La popolazione locale venne considerata italofoba e in sospetto di continua intesa con il nemico. Più favorevole agli italiani sembrò l’atteggiamento dei ceti colti delle città.

A conclusione della guerra, la nostra pietà per i milioni di giovani vite europee stroncate non potrà avere fine. “In poco più di quattro anni, fra l’agosto del 1914 e il novembre 1918, muoiono nove milioni di persone, quasi tutte tra i venti e i trent’anni. Sono loro che danno il nome di generazione perduta ai giovani nati nell’ultimo decennio dell’Ottocento e che erano entrati nell’adolescenza mentre il mondo festeggiava con fiducia l’avvento del XX secolo”.42

L’Italia uscì dal conflitto molto diversa da come vi era entrata. È di Vittorio Foa, l’osservazione che lo stesso meccanismo del totalitarismo moderno “nasce probabilmente qui, nelle fosse di fango, nelle trincee della guerra. Qui si forma il totalitarismo inteso alla lettera per ottenere una conformità totale. Il meccanismo della disciplina totale contribuisce a questo. Io chiedo al cittadino, al soldato, al suddito non soltanto una disciplina su certe regole stabilite, ma una conformità della sua persona, una sua integrazione in un collettivo che è assunto e rappresentato nel comando”.43

M. Revelli, nel suo libro Oltre il Novecento - peraltro molto discutibile in alcuni suoi assunti - parla della Grande guerra come della catastrofe che rifondò la coscienza moderna, i cui frutti tossici - “militarizzazione della politica, politicizzazione integrale fin dentro l’interiorità, trionfo dello smisurato, dissoluzione dell’individuo nella logica serializzata dei grandi numeri” - continueranno a germogliare a lungo. Insomma, la militarizzazione degli stati moderni cominciò proprio da lì, dalla Grande guerra.44

Del resto, nei successivi anni ’30, in pieno regime, furono numerosi i libri storico-politici a larga diffusione che contenevano il seguente concetto: la Grande guerra come madre del fascismo.

Ma la Grande guerra ha fatto da incubatrice anche ad un altro fenomeno storico contemporaneo: quello del nuovo stato industriale che interviene nella regolazione, nella gestione, nella produzione dei beni e negli scambi, estendendo all’intera società – nei casi dei totalitarismi – il funzionamento della nuova fabbrica fordista. L’apparato burocratico si fece le ossa gestendo la mobilitazione delle industrie, in stretto rapporto con le strutture militari. In Italia, al momento dell’armistizio, la mobilitazione industriale diretta, sotto stretto controllo militare, riguardava quasi duemila stabilimenti con più di 900.000 lavoratori. In Inghilterra e in Germania quasi il 50% della popolazione combatteva e lavorava direttamente per la guerra.

Ci fu un’altra sfera dell’attività civile che uscì trasformata dalla guerra: quella della cultura. Prima del conflitto non esisteva una politica culturale dello stato, nel senso proprio della parola. Ma, dopo la rotta di Caporetto, l’alto comando attivò e organizzò il cosiddetto Servizio P, destinato ad una capillare e penetrante propaganda tra i soldati, fatta di colloqui e di sostegno morale, di giornali appositamente concepiti, di iniziative culturali, come le rappresentazioni teatrali leggere e tradizionali, di ascolto continuo del morale delle truppe e di indicazioni sulle modalità e sui contenuti degli interventi da fare. Per questi servizi furono mobilitati gli intellettuali, professionali e generici, che fino a quel momento non erano stati utilizzati in quanto tali e che, anzi, erano stati tenuti lontani dal fronte come elementi sospetti, che potevano creare dei problemi. Fu, in effetti, un’esperienza straordinaria, che ebbe molto successo. Dopo questo esperimento, “il periodo fascista fu il primo nella storia dell’Italia unita in cui si tentò, efficacemente, una mobilitazione del ceto dei colti, trasformato in strumento di edificazione del consenso dei ceti subalterni, a cominciare da quelli della piccola e media borghesia”.45

Per ovvi motivi, lo stato intervenne anche per calmierare i prezzi e per tamponare i fenomeni sociali più acuti e pericolosi, cominciando a superare l’idea di assistenza ai più disagiati come derivazione della carità cristiana, sostituendovi il concetto di obbligo civile di intervento finalizzato alla necessaria pace sociale. Nella seconda fase della guerra, ad esempio, si offrì a tutti i combattenti un’assicurazione garantita dal potere pubblico, oltre a moltiplicare le iniziative assistenziali, questa volta non lasciate ai soli cappellani militari. Alcuni elementi del Welfare State nacquero proprio in questo contesto, assieme ad un sempre maggiore affinamento delle capacità di controllo dell’economia.

Il classico stato liberale venne insomma messo tra parentesi in tutta l’Europa, avviandosi a modificare, anche profondamente, i meccanismi parlamentari della democrazia liberale. Sul piano della ripartizione e della gestione delle risorse, l’Italia passò da una spesa pubblica in rapporto al Prodotto interno lordo del 14,7% nel 1913 (era del 10% nel 1861) al 21,1% del 1922, seguendo un trend simile in tutti i paesi occidentali.46 Va anche ricordato come durante l’esperienza bellica maturasse un fenomeno nuovo e cioè la formazione di quello che molti decenni dopo D. Eisenhower, presidente americano conservatore ed ex generale in capo durante la seconda guerra mondiale, battezzò come il complesso militare-industriale, dando all’espressione una connotazione allarmata.

Le successive nazionalizzazioni e gli interventi di salvataggio operati dal fascismo durante la grande crisi del ’29 – dopo una prima fase di politica economica liberista, adottata all’indomani della presa del potere - utilizzarono l’esperienza e le competenze accumulate durante la guerra. Anche quella che lo storico George L. Mosse, nel suo ormai classico studio sulla Germania, ha chiamato la nazionalizzazione delle masse, come tratto caratteristico dei regimi nazisti e fascisti, fece le sue prove concrete nell’organizzazione di milioni di uomini in guerra. Così come, su un altro versante ideologico, dalla Grande guerra scaturì la rivoluzione bolscevica in Russia che, secondo M. Flores e non solo lui, ebbe le sue radici proprio nelle condizioni create dal conflitto.47

La situazione del primo dopoguerra, come sappiamo, fu socialmente e politicamente molto tesa. Al termine del conflitto la società italiana sembrava pronta a contestare confusamente il sistema e nei due anni successivi si giocò l’avvenire del paese. Le tensioni e gli scontri, anche fisici, cominciarono dopo un periodo di esaltazione dovuto alla vittoria e alle grandi speranze che l’esito della guerra aveva sollevato, specialmente con i famosi Quattordici punti del presidente americano Woodrow Wilson. Un programma non molto realistico, anche considerando le miopi posizioni delle potenze europee vincitrici, ma comunque coraggioso e che, in ogni caso, aveva sollevato molte speranze.

In realtà, gli ideali politici di Wilson entravano in contrasto sia con l’ordine internazionale (tra gli stati e sulla sovranità), sia con i diritti umani.48 A suo merito va ascritta l’iniziativa di promuovere un assetto internazionale fondato sulla cooperazione e l’armonizzazione degli interessi mondiali, piuttosto che sugli equilibri di potenza bilaterali che avevano portato al disastro della Grande guerra. Ma il Senato degli Stati Uniti non ratificò l’adesione alla Società delle Nazioni promossa da Wilson e rinchiuse l’America nell’isolazionismo.

Questa decisione di sottrarsi alle responsabilità internazionali, tra l’altro, illuse gli stati europei che nulla fosse cambiato sul piano del potere mondiale rispetto all’anteguerra: “una prospettiva errata che avrebbe avuto effetti negativi sulla futura condotta e sugli atteggiamenti delle classi dirigenti del continente.”49 Per quanto riguarda l’Italia, il presidente americano non riconosceva i patti sottoscritti a Londra dagli italiani per entrare in guerra e, dal punto di vista territoriale, sembrava concedere meno di quanto l’Italia si era presa negli ultimi giorni del conflitto. E nemmeno gli alleati europei, per la verità, si comportarono correttamente: mentre davano ragione a Wilson sui principi si dividevano le spoglie coloniali della Germania.

Sul piano interno, va ricordato come ai reduci, in generale, erano “state fatte le più grandiose promesse di compensi materiali. Ad essi, specialmente dopo Caporetto, era stato predicato che con la pace si sarebbe avverata anche una vera e propria palingenesi politica e sociale”- scrive Piero Melograni.

Il fatto è che la borghesia imprenditoriale, commerciale e finanziaria aveva tratto dalla guerra profitti considerevoli, mentre la classe operaia – pur perdendo terreno – aveva comunque costruito gli strumenti, attraverso le proprie organizzazioni, per tentare di contrastare almeno in parte la discesa del potere di acquisto dei salari.

M. Flores sostiene che durante la guerra i salari operai erano scesi in Italia del 33% (15% in Gran Bretagna, 23% in Germania, 57% in Russia). Per questo ci furono diversi scioperi, in particolare promossi anche dalle maestranze femminili. In effetti, nel corso della guerra il potere d’acquisto dei salari tese a dimezzarsi: nel 1917 si pagavano 40 lire per un chilo di lana che nel ‘14 si pagava 10 lire, mentre quadruplicò il prezzo della carne e quintuplicò quello dei fagioli secchi.50

Secondo A. Frigerio, “il salario reale nell’industria scese del 15% rispetto all’anteguerra, mentre il costo della vita aumentò del 34%.” Comunque, la paga giornaliera dei contadini continuava ad essere di 90 centesimi al giorno contro le 7 lire degli operai. Ma nell’immediato dopoguerra la ripresa dell’iniziativa sindacale (1919) portò ad uno storico accordo tra Fiom e industriali, nel quale si prevedeva la giornata lavorativa di otto ore, il riconoscimento delle commissioni interne e apprezzabili aumenti salariali.

I ceti con minori strumenti di protezione appartenevano alla media e piccola borghesia impiegatizia e ai risparmiatori. Proprio quei ceti da cui proveniva la maggioranza dei quadri interventisti e che con più convinzione si erano battuti per fare la guerra. I contadini, a loro volta, rinfrancati dalle promesse di riforme agrarie (la terra ai contadini e la revisione dei contratti agrari) con cui si era cercato di superare la crisi di Caporetto, una volta tornati a casa, constatarono che le classi dirigenti e i grandi proprietari terrieri non avevano nessuna intenzione di tener fede alle promesse fatte e ciò produsse ovviamente tensioni, scontri sociali e violenze.

Eppure, nel 1917, prima ancora della grande paura di Caporetto, l’autorevole rappresentante dei conservatori e ministro Ferdinando Martini, aveva scritto nel suo Diario: “Bisogna prepararsi a grandi e radicali riforme. Io veggo mutare, per lo meno, gli aspetti della proprietà. Il proletariato ha reso sui campi di battaglia grandi servigi. E i servigi si compensano coi servigi, diceva Bastiat: ossia si pagano. E bisogna che noi li paghiamo”. Nello stesso esercito, per rimotivare i soldati a combattere dopo Caporetto, si era utilizzato il tema della grande guerra come preliminare di una grande rivoluzione sociale. In una circolare agli ufficiali del V Corpo d’armata il comando scrisse di utilizzare nelle conversazioni con i soldati i seguenti concetti: “Si fa la guerra per il soldato: per il contadino, per l’operaio, per l’impiegato. Si combatte per tutti coloro che penano e stentano la vita, nelle campagne e nelle città, in Italia e fuori d’Italia. Si fa la guerra per i proletari: questa è la guerra dei proletari. Solo pochi pericolosi imbecilli possono parlare di imperialismo”. Il timore che si ripetesse l’esempio russo era evidente.

Anche uno storico revisionista come François Furet ragiona più o meno nei termini esposti sostenendo che “la guerra del 1914 è un tipico esempio di evento in cui gli attori della storia non prevedono le conseguenze delle loro azioni.” Aggiunge poi che la Grande guerra è stata una forma patologica di democratizzazione, nel senso che “le masse popolari sono entrate nella politica per mezzo della guerra ed escono da quella prova terribile interrogandosi sul senso di tanti sacrifici ai quali hanno acconsentito”.51 Tanto peggio e tanto più risentita dovette essere la riflessione di quei vasti strati della popolazione che la guerra l’avevano fatta senza nemmeno consentirvi.

Ma i socialisti, al termine della guerra, oltre non capire i problemi dei reduci, sottovalutarono l’importanza del sentimento nazionale che durante la guerra aveva conquistato molta gente. Pietro Nenni, nella sua Storia di quattro anni ammette che l’errore più fatale per i socialisti fu di svalutare e disprezzare il complesso fenomeno del combattentismo.

A Milano e in altre città ci furono dei linciaggi nei confronti di ufficiali e sottufficiali. In effetti la situazione era molto tesa. Primo Conti, artista futurista, racconta nelle sue memorie, La gola del merlo, come al ritorno dal fronte la sorella gli portasse sul treno gli abiti borghesi perché potesse arrivare sano e salvo a casa. Sullo stesso treno i commilitoni gli avevano riferito che a Milano erano stati spogliati e gettati nelle acque del Naviglio ufficiali in divisa. “Comunque andassero realmente le cose – osserva Conti – c’erano due Italie, lacerate e confuse, una contro l’altra, e il camminamento tra i due abissi si faceva sempre più stretto.”

Eppure, i reduci e i mutilati esprimevano un forte disagio sociale, specialmente in città. Scorrendo le cronache giornalistiche del tempo si rimane impressionati dalla grande quantità di iniziative organizzate dai reduci, anche contro il parere delle loro associazioni, per richiamare l’attenzione delle autorità sulle loro condizioni economiche. Non furono poche le occupazioni di edifici pubblici promosse da mutilati e reduci, i quali misero a soqquadro persino l’aula del consiglio comunale capitolino. Nei ceti dominanti la paura per una possibile eversione politica e sociale riguardava anche la rivoluzione di coloro che avevano fatto la guerra.52

Tuttavia, alla fine del 1918 e nei primi mesi del 1919 c’era ancora un’euforia diffusa. Generali apprezzamenti erano stati espressi nei confronti degli Stati Uniti d’America e, in particolare, nei confronti del presidente Woodrow Wilson, che venne accolto in Italia da grandi manifestazioni di simpatia. L’Italia aveva riscoperto l’America quando essa aveva dichiarato guerra agli imperi centrali. Grazie anche ad un’accorta propaganda, gli americani erano divenuti molto popolari (basta dare un’occhiata ai giornali dell’epoca), nonostante il loro impegno militare fosse essenzialmente limitato al solo fronte francese.53

Ma non c’è alcun dubbio che fu proprio il potenziale economico e bellico americano a fare la differenza nei confronti degli Imperi centrali, anche se i debiti di guerra contratti dall’Italia durarono – almeno teoricamente – fino al 1988.

Tanto per fare un esempio, il 4 novembre la popolazione romana, dopo la cerimonia al monumento a Vittorio Emanuele, in piazza Venezia, si era recata in corteo per ringraziare gli alleati non alle ambasciate francese o inglese, ma a quella degli USA. L’idillio, però, durò poco perché il programma di pace di Wilson venne fortemente osteggiato dalla Francia e dalla stessa Inghilterra, che non volevano certo perdere i loro imperi coloniali e che dettarono autolesionistiche condizioni di pace alla Germania, mentre in Italia, di fronte all’opposizione di Wilson all’annessione di Fiume e della Dalmazia, si cominciò a parlare di vittoria mutilata. L’espressione fu soprattutto usata, in un primo tempo, dai nazionalisti ma non immediatamente fatta propria dal nascente fascismo. Come è noto, Mussolini assunse, nei confronti dell’iniziativa dannunziana a Fiume, un atteggiamento ambiguo, fatto di sostegno verbale e di scarse iniziative pratiche.

Alla conclusione della guerra, l’Europa vincitrice costruiva con le sue stesse mani le ragioni della successiva seconda conflagrazione mondiale.

In realtà, anche il comportamento di Wilson – oltre a quello della Francia e dell’Inghilterra - si prestò a critiche. Mentre a Parigi, lui presente, si discutevano i termini delle sistemazioni territoriali nell’Istria, se ne uscì sulla stampa con un proclama agli americani, relativo alla questione adriatica, che chiudeva in sostanza ogni possibilità di mediazione ragionevole. Il governo italiano abbandonò clamorosamente i negoziati di pace e, specialmente sulla base della spinta dei nazionalisti e del movimento degli arditi, la questione divenne politicamente rovente.

Per la verità, il Patto di Londra sottoscritto dall’Italia per entrare in guerra a fianco dell’Intesa aveva previsto l’appartenenza di Fiume alla Croazia, anche se – sulla base del principio di autodeterminazione dei popoli adottato dai vincitori – non ci sono molti dubbi che la città fosse di prevalente lingua italiana. D’Annunzio promosse la spedizione di Fiume, mentre il governo assumeva un atteggiamento incerto e contraddittorio nei confronti dell’impresa. In seguito, sulla stampa di regime, si parlò sempre del famigerato programma di Wilson.

Non è qui possibile affrontare in modo esauriente ciò che successe in quel periodo, chiamato in seguito il biennio rosso (1918-1920). Tuttavia, qualche rapida osservazione è necessaria.

Il punto è che il paese era cresciuto, che i sacrifici erano stati generali e pesanti, e che le promesse fatte per avere il consenso alla continuazione della guerra erano state molte. Nel complesso, l’Italia usciva dalla prova con un’industria più moderna, abituata ad una disciplina produttiva militaresca, ma che ora entrava in crisi per la caduta della domanda militare. C’erano anche un’agricoltura ancora arretrata, con settori del commercio e dei servizi abbastanza sviluppati, nonché una tradizione culturale e politica in forte ritardo rispetto ai processi sociali e culturali avvenuti. Ivi compreso il ritardo della classe dirigente liberale, incapace di comprendere come si gestisce una società divenuta di massa e delle relazioni industriali e lavorative moderne, e timorosa di affrontare il nuovo che avanzava perché metteva in questione vecchi assetti e privilegi a cui non intendeva rinunciare. Ma c’erano anche

La nascita del fascismo viene spesso presentata come una reazione alle concrete minacce rivoluzionarie del tempo. Non fu così: l’ipotesi di una rivoluzione socialista o comunista alle porte, alla lunga, è risultata del tutto insostenibile. Persino i liberali democratici percepirono fin dall’inizio la mancanza di un nesso reale tra rivoluzione socialista o comunista e fascismo. Scriveva Mario Gamberi sul numero 15 de la Rivoluzione liberale del 1922, in un articolo intitolato Il fascismo: ”Non la dittatura rivoluzionaria ha scatenato il fascismo, ma la debolezza impotente e provocatrice; le squadre fasciste sorte da questa debolezza e non da intimo processo, peccano anch’esse non di forza ma di debolezza che si esplica, nella gioia della rivincita, in violenza personale.”

Tale era la situazione reale, e ciò al di là degli spaventi suscitati dalle rivoluzioni russe e ungheresi e dall’aspro conflitto sociale in corso in Germania, nella quale la rivolta spartachista era peraltro avvenuta nel 1919 ed era stata già soffocata nel sangue, così come era rapidamente crollata la repubblica comunista bavarese.

Piuttosto, grande preoccupazione suscitò, tra la borghesia liberale, l’avanzata elettorale del 1919 dei socialisti e dei cattolici. Quando il fascismo cominciò in seguito ad affermarsi la fase di più acceso scontro sociale (il biennio rosso, appunto) era già in pieno riflusso avendo dimostrato l’impossibilità di una rivoluzione italiana. Ma non era tuttavia terminata l’avanzata politica dei socialisti, che dai 250.000 iscritti del 1918 erano passati ai 2.320.000 del 1920. Soprattutto, non si riusciva ancora ad avviare l’economia su binari sani, c’era una forte disoccupazione e una lira che dal marzo 1919 al 1920 aveva perso il 350% del suo valore, mentre persisteva un’inflazione altissima. Il che tendeva di per sé a polarizzare l’opinione pubblica verso posizioni estreme e a penalizzare tutti i redditi fissi, tanto più se non protetti dalle dinamiche sindacali. Laddove la spinta verso l’estremizzazione riguardava anche quelli che Renzo De Felice chiama i ceti medi emergenti cresciuti nell’ultimo decennio, i quali chiedevano di acquistare potere politico.

Ma tra Wilson e Lenin, come sostenne anche lo storico Gioacchino Volpe - che non era certo un liberale né tanto meno di sinistra, ma su posizioni nazionaliste e vicine al fascismo - le masse italiane e i riformisti avevano di fatto scelto Wilson. Il partito socialista faceva un’accesa propaganda prerivoluzionaria, ma “la sua struttura interna e il suo bagaglio dottrinale non riescono a considerare e muovere [le masse] come protagoniste effettive di una marcia alla rivoluzione”.54

La propensione per la Russia era assolutamente minoritaria e non in grado di promuovere alcuna rivoluzione. Nemmeno la vittoria dell’ala socialista massimalista al XVI congresso di Bologna del 1919, con la mozione che auspicava “l’instaurazione di un regime transitorio della dittatura di tutto il proletariato”, mutava in sostanza il vecchio impianto teorico del PSI né lo induceva ad attrezzarsi concretamente per fare la rivoluzione.

Neanche Ernst Nolte, lo storico revisionista tedesco che ha suscitato tante polemiche, ha sostenuto esplicitamente, almeno nella prima fase del suo lavoro, che il fascismo (e poi il nazismo) sia stato una conseguenza del bolscevismo. Lo ha fatto in modo obliquo, però, aggirando il problema e facendo iniziare la cosiddetta guerra civile europea dal 1917, anno della rivoluzione russa. Tacendo insomma il fatto che, se di guerra civile europea dobbiamo parlare, allora dobbiamo convenire che essa era iniziata con la Grande guerra, la quale era stata promossa da potenze sostanzialmente liberali, e che la rivoluzione russa era stata una specifica conseguenza di quella.55 Insomma, la Grande guerra “fu la matrice di tutto quello che il secolo portò: dall’accantonamento della democrazia al genocidio”.56 Ed lì, nel periodo della prima guerra mondiale che Paolo E. Gentile, l’allievo prediletto di Renzo De Felice, colloca lo snodo principale di quella che chiama l’ideologizzazione della nazione, che è all’origine di gran parte dei conflitti del Ventesimo secolo.

Come aggiunge lo storico M. L. Salvatori “la fine della guerra lasciò un’eredità che da un lato esaltava la potenza dello Stato, del potere esecutivo, delle burocrazie dell’industria, dei mezzi di condizionamento di massa, dall’altro diffondeva in maniera estrema il senso della mancanza di valore della vita umana e della precarietà dell’esistenza, l’angoscia per la perdita di significato dell’individuo, la convinzione del carattere risolutivo della violenza nella soluzione dei problemi politici e sociali, l’insicurezza di fronte al futuro.”57 Da questo punto di vista, la guerra aveva consolidato un’altra eredità e cioè quella di considerare la violenza come una componente naturale e risolutiva del conflitto politico e sociale.

Ora, al di là delle opposte tesi, dell’asprezza del confronto sociale e degli scontri sanguinosi del primo dopo guerra, quella che si agitava in Italia era in realtà una domanda di maggiore giustizia, che tentava di uscire anche da rapporti di potere arcaici, ormai superati nella coscienza di milioni di persone. La scarsa consapevolezza di un ammodernamento necessario nelle relazioni e nei rapporti sociali e industriali in gran parte della borghesia e l’immaturità estremistica di fasce del movimento operaio e contadino non fecero altro che radicalizzare lo scontro. Del resto, la rivolta operaia – in gran parte spontanea - era essenzialmente diretta a riacquisire un controllo sul proprio lavoro, mentre la direzione sindacale e politica fu incerta e priva di una visione strategica.

La storiografia del regime (e anche un certo revisionismo attuale, se è per questo) tese a sfumare l’enorme preoccupazione destata nei ceti agrari e, in generale, nella media e grande proprietà, dall’attivismo e dal sindacalismo cattolico, allora in piena espansione. Anch’esso rivendicava condizioni di vita e un assetto sociale migliori nelle campagne, spesso con maggior seguito dei socialisti. D’altra parte, il partito popolare di Sturzo aveva dato ottima prova nelle prime elezioni in cui si era misurato, costituendo per la prima volta un’espressione politica di massa del mondo cattolico, inserita autonomamente nell’assetto liberale.58

L’esperimento sturziano non venne però sostenuto, anzi destò preoccupazioni e poi venne smobilitato dal Vaticano, interessato a raggiungere un concordato con il governo italiano. Nel momento il cui il Partito popolare rimise in questione l’appoggio dato in un primo momento al fascismo (e il regime non si era ancora affatto formato), Sturzo fu costretto alle dimissioni dalle smentite vaticane. Il Vaticano aveva concepito il movimento cattolico come antemurale e strumento di pressione nei confronti dello stato.

In sostanza, allora si polarizzarono semplicemente due opzioni: o un allargamento della democrazia (secondo il modello americano o, in alternativa del tutto minoritaria, socialista) o uno Stato forte che, all’inizio e nelle intenzioni dei liberali del blocco d’ordine, doveva essere solo autoritario: il tempo necessario per ristabilire l’ordine e poi tutto sarebbe tornato nell’alveo del sistema liberale classico. Mi riferisco ai liberali conservatori e allo stesso Giolitti, perché altri filoni liberali, come quello in seguito rappresentato da Piero Gobetti e da altri, sostennero una diversa soluzione della crisi sociale.

“Se l’Europa aveva concluso tragicamente con la guerra il percorso dell’occidentalismo [ossia, in senso lato, dell’eurocentrismo, nda], rovesciando contro se stessa le forze dinamiche e progressive che aveva suscitato a cavallo tra il XIX e il XX secolo, nel dopoguerra essa appare incapace di riannodare le fila dello sviluppo tecnologico, delle trasformazioni economiche, delle necessità sociali in forme dinamiche e propositive.”59 L’accusa vale, a maggior ragione, per i gruppi dirigenti italiani.

C’è da chiedersi cosa sarebbe successo se i tre filoni riformisti principali allora esistenti in Italia (il liberal-democratico-repubblicano, il socialista e il cattolico), invece di entrare in conflitto tra loro fossero riusciti a trovare un terreno comune per intese pratiche e anche strategiche. L’incontro non ci fu - per immaturità delle condizioni storiche, per i condizionamenti del Vaticano, per il settarismo dei socialisti e per altre ragioni. Per questo varco passarono il fascismo e le forze più retrive del paese. Il nuovo blocco politico contrabbandò il nuovo potere come il completamento del Risorgimento. Si trattava, in realtà, di un consolidamento del vecchio cerchio autoritario, coerente con l’impianto originario sabaudo di cui parleremo tra poco.

Non ci si può sottrarre all’idea - apparentemente banale, ma che oggi si ripresenta come un possibile esito storico-politico - che se quell’incontro ci fosse stato, non solo l’intero corso della storia del nostro paese sarebbe cambiato ma che, forse, si sarebbe finalmente realizzata quella componente risorgimentale democratica uscita sconfitta dal modo in cui era avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento la riunificazione italiana. Forse, si sarebbero potute raccogliere le energie capaci di produrre quella riforma intellettuale e morale di cui si avverte tuttora acutamente la necessità.

Certamente il processo di integrazione della società di massa sarebbe avvenuto lungo un versante democratico e partecipativo. Forse avremmo anche avuto un capitalismo ben temperato, più attento al valore del lavoro e agli aspetti sociali, meno proclive alle avventure finanziarie e ad investire nella rendita piuttosto che nella produzione. Forse si sarebbe potuto costruire uno stato sociale non rappezzato, non clientelare, meno venato di corporativismi come quello attuale, e più equo. Può anche darsi che sarebbe prevalso un costume sociale improntato ad una maggior rispetto della legalità.

Immagino, però, che difficilmente sarebbe stata trovata una soluzione per l’edificazione di uno stato davvero laico, ancora oggi ben lontano dall’essere compiutamente costruito, mentre quanto se ne è realizzato viene ora minacciato. Il fatto è che l’antica suggestione di sant’Agostino delle due città (quella terrena e quella celeste) si ripresenta di continuo in certa cultura cattolica come la prevalenza necessaria (e di fatto il comando politico) della seconda sulla prima. Così come, in realtà ho qualche dubbio che sarebbe avvenuto quel cambiamento nella cultura di fondo del paese, ad esempio nel rapporto con la scienza, di cui riparleremo più avanti.

Mi sembra che questa sia la sintesi più equilibrata di infiniti possibili elenchi di fatti, di prove e di controprove e di accuse reciproche da mettere in campo sull’avvento del fascismo. I gruppi dirigenti liberali, ma anche in un primo momento i popolari, gli industriali e gli agrari italiani scelsero la seconda opzione, quella autoritaria, pensando di poterla gestire utilizzando il fascismo per poi riassorbirlo nel vecchio sistema.

Ma il fascismo aveva appreso dall’esperienza vincente dell’interventismo prebellico e dalla spedizione di Fiume di Gabriele D’Annunzio come una minoranza decisa può impadronirsi del potere e tenerlo, tanto più in una situazione politico-sociale destabilizzata. Mi riferisco alle vicende del periodo iniziale della neutralità italiana, in cui una minoranza attiva, determinata e fortemente motivata, capace di mosse spregiudicate, non aliena dalla violenza e dall’intimidazione e dotata di mezzi finanziari adeguati, era riuscita ad imporsi alla volontà della maggioranza, facendo entrare l’Italia in guerra. Questa maggioranza di neutralisti, in Italia e nel Parlamento, allora c’era. Nonostante ciò, di fronte alla decisione di tre persone, presa politicamente in segreto (il re, Salandra e Sonnino), sostenute dalla attivissima coalizione interventista, il Parlamento votò per i pieni poteri al governo.

Ovviamente, la complessità storica non può essere spiegata sulla base delle decisioni di tre persone, ma è accertato che “il massimo impegno patriottico, la guerra, era comunque tenuto a battesimo da una manifestazione di assoluta impotenza dell’istituto della rappresentanza”.60 Il riferimento è ovviamente al ruolo secondario e notarile svolto dal Parlamento. Se questo giudizio sembra parziale, allora basterà citare quello che l’interventista e poi conservatore Giuseppe Prezzolini scrisse all’indomani delle manifestazioni interventiste del maggio 1915: “Siamo partiti con il grido: o guerra o rivoluzione! – ed avremo la guerra ma abbiamo avuto già la rivoluzione. Chi non se ne è accorto che questa settimana italiana, dalle dimissioni alla riconferma di Salandra, è stata rivoluzionaria, non ha senso storico. Le rivoluzioni non è necessario siamo sempre con le barricate, coi morti, con la ghigliottina. Basta che l’andamento legale sia rotto. Questa settimana non è stata legale. Nessuno oserebbe dirlo. […] La folla ha invaso Montecitorio e se il danno è stato piccolo, l’atto ha avuto un significato che andava al di là del danno perché ha osato infrangere il tabù di un feticcio”.61

L’assalto alla massima rappresentanza del paese, considerata come un feticcio, farà in seguito scuola. Nel nodo del fascismo confluirà molto di quanto si era detto e preparato nel primo Novecento e in quella straordinaria fucina rappresentata dalla Grande guerra. Sommovimenti politici e culturali venati di irrazionalismo di inizio secolo, Grande guerra e fascismo rappresentano in sostanza un blocco storico-politico-culturale omogeneo, non separabile se non al prezzo di una falsificazione storica.

Certo, in sede di consuntivo storiografico, il giudizio sulle responsabilità nazionali sulla Grande guerra può tuttavia ripercorrere l’atteggiamento di questo o quel settore della società ai fini di un’analisi più dettagliata. Nel complesso, mi pare che conservi pieno valore quanto, all’indomani delle elezioni politiche dell’autunno del 1919, scrisse Guido De Ruggero, filosofo e scrittore liberale, su Il Tempo del 25 novembre 1919, respingendo i tentativi delle frazioni neutraliste della borghesia - i giolittiani, in modo particolare – di appropriarsi del verdetto elettorale popolare, che con tutta evidenza aveva condannato l’esperienza bellica dando la vittoria ai socialisti e ai popolari: “La responsabilità della guerra - sosteneva - tocca a tutta la borghesia ugualmente, non solo nel significato generico che questa particolare guerra è derivata dalla struttura stessa del regime borghese, ma anche nel significato più specifico che noi italiani ci siamo stati condotti da tutto l’indirizzo della nostra precedente politica”.

Il che, peraltro, vale per tutta l’Europa e per il periodo che è stato nostalgicamente denominato della belle époque. “La guerra viene da lontano. L’abbiamo vista serpeggiare sin dalle viscere della belle époque con quel suo senso illusorio della pace inesauribile” - hanno scritto M. Isnenghi e G. Rochat.

Se vogliamo, dal punto di vista geopolitico, ma non delle condizioni reali esistenti all’interno dei singoli paesi, la storia può anche essere letta così. Nel primo dopoguerra, avviandosi a perdere una centralità propria, l’Europa occidentale fu orientata da due diverse polarità: quella degli Stati uniti e quella della Russia rivoluzionaria, che suggerivano due modelli antagonisti. I gruppi dirigenti italiani, per paura del modello sovietico e rifiutando quello democratico, si inventarono una terza ipotetica soluzione (che comprendeva un confuso e velleitario corporativismo peraltro rimasto sulla carta) pur di sfuggire alla necessità di risolvere, proprio sul terreno di una maggiore equità sociale e politica, questioni da troppo tempo insolute.

Ma nella parte d’Europa in cui la democrazia liberale era più consolidata e i cui gruppi dirigenti borghesi svolgevano, a differenza dell’Italia, un effettivo ruolo nazionale, la crisi economico-politica prodotta dall’ondata di scioperi, di violenze e di agitazioni di ogni genere, verificatasi dovunque, non ebbe esiti liberticidi, anche laddove s’inaugurò un ciclo politico conservatore.

Insomma, bisognerà aspettare il secondo dopoguerra e la seconda metà del secolo per capire (ammesso che lo si sia capito, il che proprio non sembra, pensando all’attualità politica) cosa significa un allargamento della democrazia e un rinnovamento tecnologico e sociale come risposta alle tensioni derivanti dallo sviluppo di una società di massa. Il conflitto che nasce dal cambiamento socio-economico è infatti un fattore di avanzamento e di modernizzazione, persino tecnologica, purché si abbia una politica economica, culturale e sociale adeguate. Ossia una politica che punti alla coesione sociale e alla mobilitazione – anche ideale - delle energie e della partecipazione democratica. Ma qui il discorso diventerebbe troppo lungo e specifico.


26 S. Weil, Riflessioni sulla guerra, in La Critique sociale, X, 1933, ora in Adelphiana, 2002.
27 S. Guarracino, Il Novecento e le sue storie, Milano, 2000.
28 J. Prévert, Poesie. Barbara, Novara, 1964.
29 G. Galasso, op.cit.
30 M. Isnenghi, G. Rochat, La Grande Guerra, 1914-1918, Milano, 2004.
31 Però, in privato – scrivono M. Isnenghi e G. Rochat – “si dissocia da quella guerra di massoni e di rivoltosi che insidiano nei due grandi imperi i baluardi militari e simbolici dell’autorità e dell’ordine”.
32 George L. Mosse ha scritto pagine memorabili su questo tema, come in L’uomo e le masse nelle ideologie nazionalistiche, ma si veda anche Emilio Gentile, allievo prediletto di Renzo De Felice, in Il mito dello Stato nuovo.
33 V. Foa, Quale Novecento, Torino, 1996.
34 Anche se, annota G. Turbanti, “ i principi liberali che si erano visti affermati nel processo rivoluzionario che aveva condotto all’indipendenza e all’unità del paese e che erano posti alla base del nuovo Stato conservavano per i cattolici tutto il loro significato sovversivo del giusto ordine delle cose voluto da Dio.” La distinzione tra paese legale e paese reale fu ampiamente utilizzata dai cattolici.[G. Turbanti, Il modernismo italiano tra crisi e nuova identità religiosa. L’identità nazionale dei modernisti italiani, in C. Mozzarelli (a cura di), Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica., Roma, 2003.]
35 Si tratta in sostanza di un etnonazionalismo, per cui il singolo individuo è subordinato al volere della Volksgemeinschaft, ossia della comunità etnica.
36 R. Aron, Il Ventesimo secolo, Bologna, 2003.
37 M. Isnenghi, G. Rochat, op.cit.
38 P. Sorcinelli, op.cit.
39 G. Salvemini, Sonnino e Di San Giuliano, in la Rivoluzione liberale, 25, 1922.
40 N. 976 del 16 dicembre 1914
41 M. Isnenghi, G. Rochat, op. cit.
42 M. Flores, op.cit.
43 V. Foa, Questo Novecento, 1996. Ovviamente Foa si riferisce a qualsiasi forma di totalitarismo.
44 Così anche L. Rocchi, Il potere dei militari e gli armamenti, in Approfondire il Novecento, a cura di F. De Giorgi, 2002.
45 A. d’Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Torino, 2001.
46 Dati riportati da S. Carpinelli e G. Melis, Lo Stato e le istituzioni, in C. Pavone (a cura di), Novecento. I tempi della storia, op. cit.
47 M. Flores, Il secolo-mondo. Storia del Novecento, op. cit.
48 Così il giudizio dato fin dal 1939 dallo storico Edward H. Carr, in M. Salvati, Il Novecento. Interpretazione e bilanci, op.cit.
49 G. Galasso, op. cit.
50 M. Flores, op.cit.
51 In M. Salvati, op.cit.
52 In R. De Felice, Intervista sul fascismo, Roma-Bari, 2004
53 A questo proposito va ricordato che le perdite alleate sul fronte italiano furono: 1024 britannici, 480 francesi, 336 cecoslovacchi, 1 americano. Gli Stati Uniti avevano inviato a sul fronte italiano un solo reggimento (il 332° Rgt. di fanteria della 83° Divisione), tenuto di riserva e utilizzato in chiave psicologica, e che fu impiegato operativamente solo nelle ultime ore che precedettero l’armistizio.
54 P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. I, Torino,1967.
55 Del resto questa nozione di guerra civile europea non è stata nemmeno un’invenzione di E. Nolte, ma dello storico del Novecento Isaac Deutscher nel 1967.
56 L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari, 2004.
57 M.L. Salvatori, op.cit.
58 Ovviamente, è necessario qui ricordare che in Europa e in Italia c’erano stati, da almeno un secolo, diversi tentativi di formare un partito dei cattolici.
59 M. Flores, Il secolo-mondo. Storia del Novecento, op. cit.
60 A. M. Banti, Storia della borghesia. L’età liberale, op. cit.
61 G. Prezzolini, La rivoluzione antigiolittiana, in La voce politica, VII, 2, 1915.

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Autore di questo testo PierLuigi Albini

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia contemporanea
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Aggiornamento: 14/09/2014