PROSPETTIVE DEL NOVECENTO
Il nodo della Grande Guerra


ALCUNI STRUMENTI DI INTERPRETAZIONE

Ora, riprendendo la riflessione di carattere generale, in un primo momento la definizione di Hobsbawn del Novecento come secolo breve, racchiuso tra la prima guerra mondiale e la caduta dei regimi comunisti dell’est europeo, non era sembrata a molti del tutto convincente, proprio pensando agli effetti di lunga durata dei mutamenti avvenuti all’inizio del Novecento. Il secolo non appariva affatto terminato, ma solo concluso in tre delle sue fasi (il conflitto tra capitalismo, nazifascismo e comunismo).

Può anche darsi che questa impressione, da me condivisa, risentisse troppo di un punto di vista localistico, ossia di un osservatore che vive in una realtà nazionale relativamente poco importante nel panorama geopolitico, come l’Italia. Può essere che l’accento fosse messo troppo sugli elementi di continuità sociale e culturale nazionali rispetto agli scenari mondiali, a causa della preoccupazione di individuare i fattori di lunga durata che sostengono la storia del nostro paese, al di sotto dell’incresparsi degli eventi che ne rappresentano la cronaca storica.

D’altra parte - per spezzare una lancia a favore di Hobsbawn - è anche vero che, già con i dati di quanto sta accadendo nel XXI secolo, la cesura del Novecento, rappresentata emblematicamente dalla caduta del muro di Berlino, ossia dalla scomparsa dell’unica altra formazione statale che ha seriamente controbilanciato la potenza americana nella seconda metà del Novecento, preluda ad una svolta che potrebbe contrassegnare davvero il passaggio di secolo e che apre scenari futuri del tutto nuovi.

Se ci riflettiamo, non possiamo non concludere che è stata proprio questa competizione tra est e ovest, estesa in ogni angolo del globo, che ha spinto popolazioni e stati verso la modernizzazione e verso l’accesso sulla scena mondiale, agendo anche come un moltiplicatore e, nello stesso tempo, come una precondizione per la successiva globalizzazione, una volta che l’Unione sovietica è implosa. Probabilmente, è proprio questo fenomeno della globalizzazione che ci costringerà a rileggere il Novecento in una nuova chiave. Ma non solo: la lunga eclisse della teoria sulla guerra di von Clausewitz sembra essere terminata. La guerra sembra di nuovo essere considerata dall’attuale amministrazione americana (e non solo da essa) come un modo assolutamente normale di continuare a fare politica e di coprire le scelte di politica interna.

Tuttavia, se il mondo è diventato unico, allora qualsiasi osservatorio è buono, purché sappia fare i conti con una dimensione universale delle vicende storiche, ossia sappia “rimettere a punto tutta l’impalcatura di opinioni e preconcetti su quali si basa il nostro giudizio” – come ha osservato G. Barraclough.12 Non si tratta, infatti, di aggiungere alcuni capitoli riguardanti altri paesi di altri continenti alla storia che già conosciamo, come si faceva superficialmente a scuola, se pure si faceva, ma di riesaminare i fondamenti e le interrelazioni di ciò che è accaduto dal punto di vista mondiale (e anche di ciò che presumibilmente accadrà). Gli ordini di grandezza con cui occorre fare i conti sono i seguenti: nel 1901 gli europei erano il 24% della popolazione mondiale, nel 2000 sono diventati l’11% circa, nel 2050 la percentuale scenderà all’8-9%.

Forse, ma non è certo una definizione, il Novecento può anche essere considerato il secolo in cui la contraddizione tra i fini dichiarati e i mezzi usati è stata la più drastica e, nello stesso tempo, la più coerente, a seconda della prospettiva da cui lo si guarda. Penso nel primo caso, ossia al massimo del divorzio tra finalità di liberazione umana e mezzi coercitivi impiegati, al comunismo dell’est europeo; mentre nel secondo caso, come esempio di disumana coerenza tra fini di oppressione e crudeltà dei mezzi impiegati, penso al nazismo.

Può anche darsi che, proprio a partire dal Novecento, in futuro non sarà più possibile scandire la storia in secoli, essendo le fratture che si susseguono molto profonde e sempre più ravvicinate. Il che appare come un parto assai doloroso di un tentativo che non c’è mai stato prima nei termini progettuali tentati nel XX secolo. Mi riferisco di nuovo alla questione della creazione sociale dell’uomo nuovo, perché essa è stata cruciale per tutto il Novecento, a partire dai movimenti politici e culturali dei suoi primi anni, storditi dalle grandi novità tecniche e scientifiche, dalla potenza sempre più impressionante della grande industria e dal protagonismo delle masse. Forse è proprio questo il tratto distintivo del secolo.

Il tentativo che ha attraversato intere generazioni è stato quello di sostituire l’evoluzione storica con il controllo politico-sociale, di tentare una pianificazione razionale degli ordini sociali, magari per mezzo miti di rifondazione umana che si imponessero all’intera società, non importa se attraverso la violenza. Antiche utopie letterarie e filosofiche e nuove visioni umane, mutate di segno, sono divenute sperimentazione sull’umanità attraverso l’esaltazione della volontà politica.

Paradossalmente, potremmo affermare che l’unica utopia effettivamente realizzata nel Novecento è stata quella tecnologica, nel senso che essa ha reso possibile ciò che prima era confinato nella sfera dell’immaginazione e del mito, come volare o rendere artificiale gran parte della vita quotidiana o con l’avvento delle tecnologie digitali e biologiche. C’è chi ha denominato per questo il Ventesimo secolo come Il secolo del possibile, ossia della fantasia diventata realtà.13 Tuttavia, quella tecnologica non è un’utopia nel senso proprio del termine, perché non è affidata a nessuna progettazione finalistica e perché è del tutto eterodiretta.

Va chiarito che, per quanto riguarda la nozione di utopia qui utilizzata, quella che si rovescia cioè nel suo contrario (distopia), intendo riferirmi alla versione che si affida alla palingenesi, al sogno di saltare quasi all’improvviso da una condizione storica ad un’altra, sotto la direzione di un gruppo sociale ristretto, animato da una ferrea volontà politica. Insomma, si tratta della costituzione di un nesso stretto tra ideologia e politica che non porta all’utopia ma al totalitarismo, come è dimostrato dall’idea leninista di praticare, con la rivoluzione in un paese arretrato, una scorciatoia della storia.

Altra cosa è l’utopia della trasformazione come speranza e pratica del cambiamento, nel senso di un progetto animato da lotte quotidiane, da un mutamento progressivo di rapporti di forza, dentro un orizzonte di principi ideali democratici, corredato di un esercizio costante di analisi, di critica e di salvaguardia di un equilibrio dinamico tra libertà e uguaglianza.14 Questa sarebbe, in buona sostanza, una ricerca per rendere praticabile il diritto alla felicità, sancito dalla costituzione americana, da quella della rivoluzione francese e da molte altre costituzioni moderne. Quando penso all’utopia, penso anch’io ad un’utopia ragionevole, un’utopia che prende sul serio il mondo così com’è.15 D’altra parte - è stato scritto - solo una mentalità conservatrice non ha utopie.

Insomma, per tornare alle utopie incarnatesi nel Novecento, una nuova organizzazione sociale e lo sviluppo tecnico-scientifico – purché esplicitamente progettati - avrebbero generato un’umanità all’altezza dei nuovi tempi. In sostanza, parlo del fatto che “la centralità della volontà politica, l’utopia costruita di un salto nel buio, la forzatura delle categorie di spazio e di tempo in quanto categorie date e legate all’esperienza quotidiana, sono tutti elementi che delineano lo spirito del tempo”.16 A cominciare dalla mentalità prevalente nei primi decenni del Novecento.

Così, la grande tragedia del secolo è stata una grandiosa ambizione di futuro che si è incarnata in macchine politico-sociali impersonali e autoreferenti. Se il fine era così alto e onnicomprensivo, l’individuo poteva infatti diventare un niente, poiché occorreva disporre di un potere assoluto, di un potere che doveva necessariamente estendersi all’uomo nella sua totalità per rimodellarlo: corpo, comportamenti e coscienza. All’antico controllo religioso sull’interiorità, si tentava di sostituire il controllo politico per mezzo dello stato. La violenza, l’atto di imperio, l’abuso sulla persona tentavano di forzare l’intangibilità e l’irriducibilità della coscienza individuale, ultima roccaforte di ogni libertà. L’unica motivazione - ma non una giustificazione - che si può invocare è che talvolta si trattava di una reazione ad altrettante violenze e ingiustizie storiche. Infine, le esperienze totalitarie sono state accompagnate, nei casi estremi, dall’utilizzo di una pseudo-scienza (parlo dell’eugenetica nazista e del razzismo). Insomma, l’uomo nuovo, per nascere, doveva essere una creatura eterodiretta.

Ora, parafrasando un’osservazione fatta da altri, se c’è una cosa che dovremmo aver imparato dall’esperienza del Novecento, è che non esiste nessuna causa, per quanto affascinante e ricca di promesse, che possa giustificare la tirannide, i torti e le sopraffazioni.

Per questo si può anche dire che l’anima etica del Novecento è stata – in tutte le sue forme - la resistenza al totalitarismo e la lotta per la libertà e per la democrazia, le quali hanno prodotto, nel secondo dopoguerra, una cultura dei diritti umani che non sopporta eccezioni o sospensioni. Essa ha generato un’etica della responsabilità che implica il rifiuto di ogni condizione disumanizzante e oppressiva. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, contenuta nella carta di fondazione dell’ONU, rappresenta uno dei frutti più elevati del Novecento, nato proprio dagli abissi toccati nel secolo. Essa permette un’unica forma di intolleranza: quella nei confronti di chi non li rispetta, perché al di là si apre un nuovo abisso e nuove possibili carneficine. E indica una via maestra etico-politica: quella di rendere effettivi tali diritti.

La Dichiarazione rappresenta non solo il minimo comune denominatore della convivenza tra i popoli, ma costituisce l’unica scala di valori universalmente sottoscritta (almeno in massima parte) e, quindi, da rispettare. Né sono d’accordo con una moda invalsa in molti ambienti secondo la quale, forzando i dati antropologici e dando un senso sbagliato alle colpe del colonialismo e del neocolonialismo, si assume il relativismo culturale come idea guida di una nuova visione del mondo, per cui tutte le culture umane non solo hanno una loro cittadinanza (il che è ovvio), ma sono sullo stesso piano rispetto alla storia, al futuro e alla loro rispettabilità. C’è differenza tra relativismo e pluralismo. Desiderare il secondo non implica l’accettazione del primo. Il pluralismo comporta l’inclusione, il relativismo – nei casi meno drammatici - implica l’indifferenza. Ma il pluralismo, per esistere realmente, postula un ordine condiviso, uno zoccolo di principi e di valori tanto più universali e rigorosi quanto più si è per un pluralismo rigoglioso e multiforme.

Non si possono condividere culture che entrano in conflitto con i principi universali appena richiamati, d’altra parte sottoscritti. Né si può assumere un atteggiamento di rispetto nei confronti di usanze che impongono il burka – ossia la segregazione delle donne - persino se le stesse donne si dicono d’accordo, del che dubito comunque molto. Il che non vuol dire che si fa loro la guerra, ma nemmeno che li si giustifichi, magari a seconda delle convenienze geopolitiche.

Così come è legittimo ribellarsi ad una cultura che pensa ad uno stato etico, attraverso il quale si vogliono imporre alla popolazione concezioni e comportamenti attinenti la sfera privata o si tenta di limitare la libertà di conoscenza, di ricerca o di opinione, oppure, come dirò ancora, si provano a sovrapporre concezioni religiose al governo delle società civili. In Oriente come in Occidente, nel Nord come nel Sud del mondo.

Qui, in sostanza e per quanto riguarda il presupposto dell’esistenza di individui liberi e uguali, stiamo parlando della possibilità di costruire uno stato aperto (come dev’essere uno stato democratico), secondo la quale “solo se la concezione politica della giustizia rimane neutrale rispetto alle varie dottrine comprensive e alle concezioni del bene che le esprimono possiamo sperare che persone profondamente divise sul piano delle idee religiose, morali, filosofiche continuino nella cooperazione sociale”. Laddove per giustizia, secondo l’ottica di John Rawls, si intende appunto una cooperazione sociale definita in base ad un accordo equo e accettabile da persone di orientamento morale, religioso, filosofico diverso.17.

In altre parole, l’idea di ciò che è giusto richiede la presa in considerazione della pluralità dei soggetti, qui, su questa terra, confrontandone esigenze diverse e aspettative dissimili, secondo una procedura deontologica, mentre il concetto di bene, con il suo ineliminabile finalismo, è per definizione esclusivo e unilaterale e la sua ultima radice riposa sul mito o sulla metafisica. Esso è, per sua stessa definizione, predominante su ciò che è giusto; quest’ultimo, anzi, è definito come ciò che massimizza il bene. Non è un caso che opposti fondamentalismi oggi in campo ricorrano al concetto di bene e male per giustificare le loro azioni e le loro concezioni geopolitiche, e non al concetto di ciò che è giusto. In nome di un supposto bene si possono travolgere molte delle barriere che si oppongono all’ingiustizia.

Rawls insiste sul fatto che la molteplicità dei punti di vista non è eliminabile e che è impossibile ridurli ad una sola concezione morale. Un approccio realistico, dunque, che esclude una nozione ristretta di comunitarismo: “Io credo, per esempio, - scrive Rawls - che una società democratica non sia né possa essere una comunità, dove per comunità intendo un gruppo di persone che affermano unitariamente la stessa dottrina comprensiva, o parzialmente comprensiva. È il fatto stesso del pluralismo ragionevole, caratteristico delle società dotate di istituzioni libere, a rendere la cosa impossibile; in questo consiste il fatto dell’esistenza di differenze profonde e inconciliabili fra le concezioni comprensive, religiose e filosofiche, che i cittadini hanno del mondo (e che supponiamo sempre ragionevoli), nonché fra le loro idee dei valori morali ed estetici cui la vita umana deve tendere. Ma questo fatto non è sempre facile da accettare, e la filosofia politica può cercare di riconciliarci con esso mostrandocene le ragioni, nonché i benefici e vantaggi politici”.

Da un altro punto di vista, come hanno mostrato Amartya Sen e i critici di Rawls, l’opposizione in radice tra liberalismo e comunitarismo da lui suggerita, se allargata al complesso delle condizioni sociali, rappresenta un falso dilemma proponibile solo in astratto.18 Nella giungla non c’è libertà: solo in una società integrata l’individuo può essere veramente libero, scrive Amartya Sen. Ma la critica, a mio parere, va più rivolta alle teorie utilitaristiche e liberiste che a quella contrattualista di Rawls, perché quest’ultima incorpora nella società umana sia l’idea di conflitto sia quella di cooperazione. E se è vero, come si deduce dallo stesso Rawls, che in via teorica l’utilitarismo non è meno ferocemente sopraffattore di uno stato teocratico in quanto cerca di applicare “alla società intera il principio di scelta di un solo uomo”, la visione contrattualistica, per quanto astratta, permette più di ogni altra di tenere conto di tutti gli attori in campo senza ricorrere a miti e a visioni totalizzanti dell’umanità.

D’altra parte, mi pare che, dopo la lunga discussione degli anni Ottanta tra liberali e comunitari, proprio di fronte al tema del pluralismo (e del multiculturalismo), stia consolidandosi la convinzione di un nesso inscindibile tra i due aspetti dello statuto umano: quello del possesso da parte dell’individuo di diritti personali, che non possono essere oggetto di transazione né di sospensione, e quello di un agire sociale (il contesto storico-sociale) in cui l’essere umano effettivamente vive.

Non esistendo pattuizioni razionali originarie tra individui immaginari, se non in quanto modello astratto di riferimento, come lo stesso Rawls ammette, io e noi non sono concretamente scindibili, se non a prezzo di disastri umani. È il mantenimento di questo nesso che da un lato esclude un’autonomia assoluta dell’individuo e che, dall’altro, permette di perseguire l’integrazione o la coesione sociale, nei suoi termini reali e non solo formalmente giuridici, senza rinunciare alle idee di diritti umani, di tolleranza e di neutralità dello stato.19

Ciò che qui però interessava, nel richiamare le idee di Rawls, era solo l’opportunità di mettere a fuoco questo tema della neutralità dello stato in materia di beni morali, che non vuole affatto dire che esso debba proteggere qualsiasi valore e, addirittura, favorire dei disvalori. Parlo, insomma, di una neutralità relativa o tendenziale, poiché non ci capiterà mai di imbatterci nella neutralità assoluta. Anche in questo caso è la ragionevolezza la cartina di tornasole dell’accettabilità politica e sociale. Ma la condizione perché ciò avvenga è che nessuno degli attori in campo invochi l’esclusività.20

Perciò, nonostante possa sembrare una contraddizione rispetto a quanto ora sostenuto, proprio per le ragioni predette il presidio di una tale frontiera, quella della tolleranza e del pluralismo, non sopporta incertezze né ritorni, per quanto mascherati, e richiede un’attenta vigilanza sul futuro e tempestivi interventi correttivi laddove si presenti la minaccia che essi vengano svuotati da un’eccessiva concentrazione di potere o da tentativi di imporre visioni unilaterali. Come nel caso in cui si voglia ridurre molteplici identità storiche (ad esempio, italiane o europee) all’identificazione con il cristianesimo o con il solo cattolicesimo.

Si tratta di una richiesta apparentemente astratta che ha però precise conseguenze sul piano politico e pratico in quanto, partendo dalla rivendicazione di una tradizione esclusiva come quella contenuta nel concetto di radice della civiltà, il progetto neoguelfo immagina una sorta di magistero religioso, istituzionalmente legittimato e comunque morale, su quel che possono combinare gli organismi secolari che l’umanità si è data. Ma nel caso della chiesa, in quanto organismo solo parzialmente secolare, la vigilanza sarebbe autoconsistente: si tratta di un’asimmetria insuperabile.

Ci sono, poi, alcuni problemi etici e storiografici enormi, che non è possibile affrontare in questa sede e che sono ancora aperti. Non parlo del rapporto tra oppressione-tirannia e rivolta, che è chiarissimo proprio sulla base della citata Carta dell’ONU, ma di quello tra rivoluzione e violenza, come anche del ruolo della guerra come levatrice della storia, e ai quali ho già alluso. La frontiera di cui parlo ha alle spalle una geografia assai complessa e i sentieri che portano ad essa non sono affatto rettilinei né privi di contraddizioni.

Comunque sia, è la memoria lo strumento essenziale, non tanto della ricerca di un’identità - come a sproposito troppo spesso si invoca - ma di un razionale timore che il passato possa ripetersi, ovviamente non nelle forme già conosciute, ma forse in circostanze non meno tragiche, considerando l’ancora accresciuta potenza umana e l’inadeguatezza attuale degli strumenti di governo del mondo.21

Certo, né il passato né il principio di responsabilità debbono essere un fardello paralizzante, ma nemmeno risolversi nell’allegro ed irresponsabile invito che fu rivolto, ad esempio, alle aristocrazie intellettuali degli inizi del Novecento a ripudiare la memoria correndo incontro ad un indistinto futuro sciolto da tutti i lacci che potevano limitare i desideri e la potenza individuali. C’è qui, sullo sfondo, la tragedia del superuomo e degli abusi della storia di cui parla un mal compreso Nietzsche, che storicamente si sono incontrati non solo con le élites intellettuali alle quali si rivolgeva l’agitazione politica e culturale del tempo, ma con milioni di persone diventate ormai cittadini e protagonisti sociali.

L’insegnamento della scuola storiografica francese sulla lunga durata delle strutture mentali, economiche, di costume e sociali al di sotto dell’orizzonte degli eventi, ci ammonisce a diffidare degli innumerevoli annunci politici, susseguitisi nel Ventesimo secolo, con i quali si prospettavano cambiamenti irreversibili e un voltar pagina che nascondevano esiti umani terribili. La memoria serve anche a questo, ad avere la percezione immediata di ciò che cerca di sopravvivere e di riprodursi dissimulandosi sotto le mentite spoglie di un modo nuovo di vedere la cose, ad individuare i fossili mentali che possono procurare ancora guai seri.

È grazie alla memoria che possiamo dire, in modo sintetico, che uno degli insegnamenti nascenti da una visione complessiva del Novecento è che la barbarie moderna è ben diversa da quella antica, ma che se ci sono stati milioni di barbari moderni, altri milioni di persone hanno però saputo opporvisi, e che l’idea di libertà va gelosamente custodita e difesa in ogni momento. La libertà e la democrazia sono come la scienza: in primo luogo occorre volerla, poi se ne potrà discutere la qualità.

È grazie alla memoria di ciò che è stato il Novecento che possiamo capire come la storia sia diventata storia universale, per cui, “nella misura in cui l’umanità vive ormai una storia unica, dovrà acquistare una nuova capacità di controllo razionale, non più sugli istinti biologici, ma sulle passioni sociali. Più gli uomini di razze, di religioni, di costumi altri vivono in un mondo unico, più essi devono dimostrarsi capaci di tolleranza e di rispetto reciproco” – auspicava lo storico e sociologo francese Raymond Aron.22

Il secondo nodo storico da considerare è rappresentato da un Novecento la cui storia può essere scritta sia al maschile che al femminile. Il XX secolo segna infatti l’ingresso delle donne sulla scena politica e sociale, e quali che siano le fasi di avanzamento e di stasi, e persino di regresso, destinate a verificarsi, non ci sono dubbi che questo solo fatto distinguerebbe il Novecento da tutti i secoli precedenti.

Questa novità attraversa ormai lo stesso conflitto ideologico mondiale o il cambiamento dei valori etici (vedi, a esempio, la questione della famiglia o l’applicazione delle biotecnologie o i profondi mutamenti nei rapporti tra i sessi). Si tratta – per quanto contraddittoria, stante la persistenza di radicate disuguaglianze sul piano socio-economico e culturale - di una rivoluzione molecolare nella distribuzione dei poteri, dei ruoli e delle gerarchie sociali che prescinde del tutto dall’idea che ogni donna può avere della politica o del mondo o di se stessa, per affermarsi come dato di fatto trasversale. D’altra parte, non si può pensare che gli stereotipi e i pregiudizi interessati che hanno strutturato per migliaia di anni i rapporti tra i due sessi possano essere superati nell’arco di poche generazioni.

Inoltre, sarebbe un altro errore pensare che questa rivoluzione di fatto – certo ancora agli inizi – riguardi le sole aree sviluppate del mondo: basti pensare alla convinzione diffusa, per ciò che concerne le politiche più attive ed efficaci contro la povertà, che solo partendo dalla condizione femminile, dall’affermazione economica della donna e dalla riassunzione di un controllo del proprio corpo, sia possibile sottrarre intere aree del mondo alla miseria e anche al disastro sanitario.

Tutto ciò non significa, certo, essere ottimisti, considerando quanto sta accadendo in tante parti del mondo non solo islamico, dove – anche a causa dell’emersione di movimenti ispirati a una visione contraria alla laicità dello stato – le donne stanno pagando il prezzo di una condizione di inferiorità giuridica e sociale capace di giungere sino all’esclusione dall’istruzione o alla barbarie della lapidazione.

Questi due nodi dell’affermazione delle donne nel XX secolo e della costruzione di un uomo nuovo, sono associati a tre altri passaggi essenziali:

  1. la deruralizzazione delle campagne, per cui centinaia di milioni di uomini e donne hanno abbandonato l’attività agricola, non solo nelle aree sviluppate del mondo ma anche in quelle arretrate. Gli abitanti delle città sono passati dai 224 milioni di inizio secolo a 2.500 milioni, pari al 45% della popolazione mondiale. Si tratta di una rivoluzione paragonabile a quella che, con l’invenzione dell’agricoltura, diede il via ad un ciclo millenario di sviluppo della civiltà radicalmente differente dal passato, e che è ancora in corso, producendo gravi disadattamenti sociali e culturali;
  2. l’incremento di enormi flussi migratori, dapprima dall’Europa verso le Americhe e l’Oceania e poi, più di recente, dai paesi del sud del mondo verso il nord industrializzato. Sapere che, nell’arco di quaranta anni, quasi settanta milioni di persone sono emigrate nei soli Stati Uniti o che, per la prima volta nella storia (per la verità a partire dall’Ottocento), le emigrazioni hanno sostituito intere popolazioni (a differenza di quanto era accaduto nel passato, come ci hanno ormai chiarito le ricerche genetiche, cancellando le precedenti approssimazioni storiografiche), non è un fatto su cui si riflette a sufficienza;
  3. l’ingresso delle masse in quanto tali sulla scena storica, generato dalla rivoluzione industriale e dalle stesse guerre totali. Questa è peraltro una questione talmente importante del Novecento - come del resto quella delle guerre - da aver quasi monopolizzato la giustificata attenzione degli storici. Giustificata perché i principi di democratizzazione sono usciti per la prima volta, e in modo impetuoso, dal ristretto circuito delle élite al potere per investire il funzionamento globale delle società e della civiltà. A partire da qui sono cambiati tutti i termini del governare e del fare politica, travolgendo teorie e prassi consolidate. Qualche storico sostiene, e in modo non peregrino, che è questo il nesso che, se non spiega completamente tutti gli altri, tuttavia ne condiziona l’esistenza e la portata.

Certo, il processo di massificazione era già cominciato nell’Ottocento, e questo ci dice – come succede nella ricerca storica – che la definizione di un canone, di un criterio interpretativo che spiega tutti gli altri rappresenta una semplificazione destinata a scontrarsi prima o poi con la realtà delle cose, e come spesso ci si possa perdere in una specie di gioco degli specchi in cui non è mai possibile arrivare alla sorgente dell’immagine. L’ingresso delle masse nella storia è infatti, a sua volta, figlio della rivoluzione industriale e dell’affermazione del capitalismo che sostituisce il mercantilismo delle epoche precedenti. Ma non bisogna nemmeno sottovalutare l’effetto del progresso sanitario generale e dell’esplosione demografica, e così via.

Sta di fatto che questo fenomeno dell’irruzione delle masse nella storia (prima di allora, e non a caso, anche la storia scritta era solo storia di élites) è stato lucidamente percepito quasi immediatamente ed ha rappresentato fin dal primo decennio del Novecento il terreno di scontro tra opposte ideologie e ipotesi di governo sociale. Scrittori, sociologi e filosofi si sono variamente arrovellati durante tutto il secolo attorno a questo fenomeno, arrivando a chiamare il Novecento L’età della follia (ecco un’altra definizione, questa volta tratta da uno scrittore come il Céline di Viaggio al termine della notte, che appartenne alla destra filonazista e che bisognerebbe leggere o rileggere).

Ma cos’è questo fenomeno delle masse che entrano nella storia? Come e perché vi entrano? La domanda è importante. Aiuta, come una lente di ingrandimento, a interpretare particolari che sfuggono facilmente ad un’attenzione non attrezzata o che non sa cosa cercare. È con questo problema sullo sfondo che ebbe a che fare la società italiana del Novecento, messa in crisi dall’espansione del macchinismo industriale, dalle grandi scoperte scientifiche e tecniche e dall’evoluzione dei costumi e dei rapporti politici e sociali, specialmente nella prima decade del secolo.

Certo, non pretendo di dare qui una rassegna esauriente di questo problema, tuttavia alcuni caratteri essenziali si possono segnalare. Molti autori organizzano infatti il concetto di masse sostanzialmente attorno a cinque fattori fondamentali:

i) la crescita sorprendente della popolazione; ii) il fenomeno dell’urbanizzazione; iii) l’affermazione del taylorismo e del fordismo nell’economia e nella produzione; iv) la diffusione dei consumi e un indubbio, anche se conflittuale, aumento del tenore di vita; v) l’alfabetizzazione di massa.

Si può condividere abbastanza questa lista di fattori, ma a due condizioni, e cioè che ognuno di essi venga messo in correlazione con lo sviluppo della scienza e della tecnica, che nel Novecento non possono essere paragonate a nessun secolo precedente, anche dal punto di vista del ruolo svolto nella cultura e nell’economia. E a condizione che si metta bene in evidenza che nel Novecento cambia anche, e radicalmente, il rapporto tra uomo e ambiente, sia in senso filosofico che pratico. Corollario di questi cambiamenti è stata un’enorme accelerazione dei tempi della storia, nel senso di una straordinaria intensificazione dei suoi mutamenti.

Per questa ragione, occorre sottolineare che per la prima volta nella storia dell’umanità - come annota Massimo L. Salvadori - “individui nati all’inizio del Novecento e vissuti fino ottanta-novanta anni si sono trovati nel corso della loro esistenza fisica a vivere diverse vite storiche”.23 In termini contraddittori e confusi, alcune avanguardie culturali come il futurismo avevano previsto almeno una parte delle novità in campo, a partire dalla sfera estetica. L’idea centrale del futurismo della intensificazione della vita, come effetto fondamentale della modernità, è stata un’intuizione straordinaria.

In sostanza, tornando alla questione delle masse, si può essere d’accordo con De Bernardi, secondo il quale esse “... sono un agglomerato di individui scolarizzati, che si muove nello spazio sociale ed economico della città, a cui si apre per la prima volta l’accesso ai consumi e che sono coinvolti nella nuova organizzazione del lavoro fordista. Dentro le masse stanno uomini e donne e, in quanto parte integrante di questo agglomerato, sono entrambi sottoposti a processi di differenziazione e di omologazione che ne rimodellano i ruoli e i rapporti. Le masse quindi sono il più complesso prodotto della modernità, riconoscibile nella sua genealogia: il soggetto e la sua atomizzazione, il primato della tecnica, il progresso.”24

Comunque, la richiesta di integrazione sociale, di conquista di una cittadinanza piena, di una riconoscibilità sociale, di una soggettività prima permessa a ristretti gruppi sociali, nobili o borghesi che fossero, nonché le modalità con cui si rispose a questa ineludibile domanda, rappresentano il succo di ciò che è successo politicamente nel Novecento.

L’elitismo culturale non aveva più senso, rimaneva come una categoria dell’anima a cui non corrispondeva alcunché dal punto di vista dei meccanismi profondi del funzionamento sociale. L’antico bipolarismo tra aristocrazia e popolo era stato ormai da decenni rotto dall’affermazione della realtà borghese e dall’emergere dei ceti operai. E tuttavia fu proprio il rifiuto della società democratica e della sua dimensione di massa da parte di tanta intellettualità a costruire, in particolare in Italia, il contenitore politico-culturale che raccolse e dette una fisionomia politica alle convulsioni di un mondo in impetuosa trasformazione, stravolgendo il senso più fecondo della modernità e generando il peggio di sé proprio quando riuscì ad incontrarsi con le masse, come nel caso del fascismo. Il che avvenne in seguito al fallimento della “illusione liberale che progressivamente tutti potessero seguire il percorso borghese, di un equilibrio tra mondo razionale, funzionale e impersonale (quello pubblico) e il mondo emotivo, degli affetti, della solidarietà (quello privato)”.

In sostanza, il liberalismo non resse all’impatto della società di massa come si configura a cavallo tra Ottocento e Novecento.25 Non per semplificare troppo cause e dinamiche molto complesse, ma è proprio qui la radice delle vicende belliche del secolo.


12 G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Roma-Bari, 1996
13 A. Caronia, Il Cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, Milano, 2001.
14 Su questi temi un’analisi originale e coraggiosa di che cos’è un’utopia che non si trasformi in distopia, è in B. Trentin, Il coraggio dell’utopia, Milano, 1994.
15 S. Veca, La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull’idea di giustizia, Milano, 2002.
16 M. Salvati, Il Novecento. Interpretazioni e bilanci, Bari-Roma, 2001.
17 J. Rawls, Una teroia della giustizia, Milano, 2004. Naturalmente qui il concetto di giustizia è inclusivo delle diverse sfere in cui esso si realizza, da quella sociale a quella specificamente giuridica, per cui la nozione di accordo equo va integrato non solo facendo riferimento agli orientamenti, ma anche alla posizione socioeconomica e all’utilizzo dei beni, come ha osservato Amartya Sen.
18 A. K. Sen, La libertà individuale come impegno sociale, Bari-Roma, 2003.
19 R. Dworkin, Virtù sovrana. Teoria dell'uguaglianza, Milano, 2002. "L'uguale considerazione è la virtù sovrana della comunità politica - se manca, il governo è soltanto tirannia - e quando la ricchezza di una nazione è distribuita in modo fortemente disuguale, come lo è attualmente la ricchezza di nazioni anche molto prospere, allora la sua uguale considerazione appare sospetta".
20 C. Del Bò, Pluralismo e questioni bioetiche, in M. Ricciardi e C. Del Bò (a cura di), in Pluralismo e libertà fondamentali, Milano, 2004. Citando poi un altro filosofo della politica, l’autore chiarisce cosa s’intende per neutralità dello stato: “...lo stato sarà neutrale nella misura in cui ogni sua decisione potrà essere giustificata ricorrendo ad almeno un argomento che i) non fa appello a una qualche concezione della vita buona, ii) non contiene premesse implausibili né fallacie evidenti, iii) fornisce una giustificazione ragionevolmente stringente. Ma forse, come ripeterò anche in conclusione, se la filosofia politica, piuttosto che isolare in astratto alcuni valori o presupporre delle fondazioni di valore a partire dalle quali si sarebbe formata la società umana, tenesse maggiormente d’occhio i dati dell’antropologia e dell’evoluzione culturali, si potrebbero mettere meglio a fuoco i dati essenziali del problema.
21 Una recente e ampia ricerca, svolta dall’Università di Roma tra 2200 giovani di 14-18 in oltre cento comuni mostra un aumento percentuale di coloro che hanno un atteggiamento di esclusione verso le differenze culturali. Il 20% dei ragazzi ritiene che “quanto si dice sulla Shoah sia frutto di un’esagerazione”. In conclusione - scrive il Redattore Sociale del 22 marzo 2005 – “al di là di forme esasperate, cresce in modo trasversale e pervasivo – [...] scavalcando anche l'intensità della pratica religiosa e l'orientamento politico, anche se più marcato nel centrodestra - il razzismo condito da stereotipi nei confronti di stranieri, ebrei e musulmani”.
22 R. Aron, L’aube de l’histoire universelle, in Une histoire du vingtiéme siècle, Paris, 1996, citato in M. Salvati, Il Novecento, Interpretazioni e bilanci, op.cit., ma vedi anche l’edizione italiana de Il Ventesimo secolo, Bologna, 2003, una raccolta di saggi di Aron che affronta i problemi di interpretazione del Novecento, talvolta con un approccio non condivisibile.
23 M.L. Salvadori, Il Novecento. Un’introduzione, Bari-Roma, 2002
24 A. De Bernardi, Insegnare il Novecento. Il secolo delle masse, in www.itsos.gpa.it.
25 M. Flores, op.cit.

Web Homolaicus

Autore di questo testo PierLuigi Albini

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia contemporanea
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 21/09/2014