PROSPETTIVE DEL NOVECENTO
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DEFINIRE IL NOVECENTO
La letteratura che tenta di dare un senso complessivo al Novecento è ormai molto ampia, ma la discussione è ancora in corso. Tra le tante ragioni per cui è opportuno scrivere una sintesi sul senso del secolo c’è anche quella che, dopo una precedente apertura governativa sullo studio scolastico dell’epoca, l’attuale ministero ha dato indicazioni nazionali che lo cancellano in pratica dai programmi, stravolgendone anche il senso. Tutto ciò, nonostante l’impegno che gli insegnanti continuano a profondere. Troppi imbarazzi, forse, per il disvelamento delle connessioni di un passato non troppo remoto con l’attualità? Che tali connessioni ci siano è ovvio, si osserverà. Ma è ovvio per chi abbia un minimo di dimestichezza con la storia, non per una cultura dominante che cancella la memoria, rende tutto contemporaneo e consumabile entro pochi giorni e considera accadute nella notte dei tempi vicende di appena vent’anni fa. Il fatto è che la memoria storica dà spessore alla cittadinanza e rende più difficile far passare per grandi novità la pericolosa riedizione di politiche e di atteggiamenti sociali che sono stati la concausa di una storia tormentata. La domanda che percorrerà queste pagine è se il Novecento è davvero storia conclusa, come sembrano ritenere le generazioni più giovani. Lo storico Alberto De Bernardi nel chiedersi in un saggio del 2003, intitolato Il secolo delle masse, “Che cos’è il Novecento?”, avverte che può trattarsi di una domanda peregrina, dal punto di vista storiografico “perché è assai difficile, e forse anche inutile tentare di definire con un’espressione sintetica, che vuole avere la pretesa di restituire la complessità di un periodo storico, un intero secolo”. Tuttavia, noi sappiamo bene che per i secoli precedenti c’è sempre stato un evento, una tendenza predominante, un carattere più appariscente che ci hanno permesso di racchiudere un’epoca in un’espressione sintetica, come Rinascimento, Età dei lumi e così via. Sintetica, forse superficiale, ma pregnante. Dobbiamo cominciare a farlo anche per il Novecento, con la cautela dovuta al fatto che si tratta di un secolo che è ben lontano dal poter essere compiutamente storicizzato e i cui effetti sono in pieno svolgimento. In futuro si potrà cogliere meglio quella cesura che farà parlare di cambio di secolo o di epoca; e questo permetterà di semplificare, di dare un’etichetta, assegnando al Novecento i caratteri dominanti con cui gli storici ne parleranno. Intanto sono fiorite le definizioni, da quelle che vogliono mettere in evidenza il senso complessivo del secolo, a quelle che ne sottolineano un aspetto ritenuto preminente, a quelle di stampo giornalistico e politico. Tra le prime, quelle che hanno ricevuto miglior fortuna sono, per ora: Eric J. Hobsbawn, Il secolo breve oppure Il secolo degli estremi; Isaiah Berlin, Il secolo più terribile della storia occidentale; René Dumont, Un secolo di massacri e di guerre; William Golding, Il secolo più violento della storia dell’umanità. Sulla maggiore o minore lunghezza del secolo, che significa includerne o escluderne alcuni periodi e stabilire le date di cesura più significative, B. Barraglough, parla, in polemica con Hobsbawn, de Il secolo lungo; mentre Charles Maier, pensando ad una periodizzazione in tre tronconi parla di Secolo spezzato e si chiede se sia stato un Secolo corto o epoca lunga? Per Leonardo Paggi il concetto di secolo spezzato ruota attorno alla data del 1945, come spartiacque tra due età diverse. Luisa Mangoni propende in modo problematico per un secolo lungo e brevissimo nello stesso tempo: “lungo se lo si fa iniziare dalla crisi di cui si acquisisce consapevolezza nella seconda metà dell’Ottocento; brevissimo se, con Polanyi, si considera decisiva la svolta degli anni trenta”.1 Altri hanno scritto de Il secolo dei genocidi, (non a caso, il termine genocidio è stato coniato nel Novecento), mentre Tzvetan Teodorov, l’ha definito L’età dei totalitarismi. Il discusso Ernst Nolte scrive de Gli anni della violenza. Un secolo di guerra civile ideologica europea e mondiale. In realtà, Nolte riprende una celebre definizione del volume sulla storia contemporanea della New Cambridge Modern History del 1960, intitolato L’età della violenza. Oppure c’è il notarile titolo di Controverso Novecento di François Furet. Altri ancora, accreditati frettolosamente dai media, come l’americano Francis Fukuyama, hanno segnato il secolo con il discrimine della caduta del muro di Berlino, parlando addirittura de La fine della storia, che a me pare ridicolo fin nel titolo. In realtà Fukujama, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, parla di fine della storia nel senso che l’umanità avrebbe raggiunto con la democrazia di tipo liberale (e con l’attuale forma di capitalismo) il definitivo stadio del suo sviluppo politico-sociale, che si concluderà con la risoluzione di tutti i problemi sociali. I conflitti, da allora in poi, sarebbero generati da altri fattori, extraeconomici e di carattere psicologico. In sostanza, l’autore sostiene che l’occidentalismo rappresenta il vertice della storia umana e che nel futuro non ci potrà essere niente di meglio. Tesi lusinghiera, per l’Occidente, sostenuta da argomentazioni brillanti ma poco plausibili. Insomma, la cosa non sta in piedi da nessun punto di vista se non da quello del vizio, duro a morire, di proiettare nell’eternità le forme storiche che predominano in un determinato periodo. L’unico aspetto che condivido delle tesi di Fukuyama è che, prima della modernità occidentale, non c’è mai stato niente di meglio. Un lungo saggio - che è in qualche modo speculare a quello di Fukuyama - è invece Fuori dall’Occidente ovvero ragionamento sull’Apocalisse di Alberto Asor Rosa, che tirando le conclusioni soprattutto sull’ultima parte del secolo risolve la visione storica in una sorta di stoicismo e invoca una riforma dell’animo occidentale come unica possibilità per riprendere il cammino di un progresso accettabile.2 Per quanto possano essere discutibili alcune tesi dell’autore, non si può che condividere la necessità di una riforma morale dell’Occidente. Poi ci sono le variegate interpretazioni saggistiche, come quella di Giorgio Bocca, che parla de Il secolo sbagliato o di Marcello Veneziani che, in polemica con Hobsbawn, parla de Il secolo sterminato. Altri ancora parlano de Il secolo delle donne (ma un filone di studiose femministe, in polemica con lo storico Harnold Toynbee, si chiede: Il Novecento è stato davvero il secolo delle donne?), oppure si parla de L’età della tecnica o de L’età delle masse. O ancora, in chiave di maggiore interpretazione etico-politica, de Il secolo del comunismo o de Il secolo di Auschwitz; o, anche, de Il secolo dell’odio o de Il secolo della paura. Con sguardo retrospettivo molto generalizzante, ma non privo di verità, altri l’hanno chiamato Il secolo americano. Ma del Ventesimo come possibile secolo americano si cominciò a parlare già in un saggio del 1902, e poi in un libro di H.G. Wells del 1906. Infine, un recente lavoro collettaneo italiano conclude significativamente per un ’900: un secolo innominabile. Questa breve e non esaustiva rassegna di titoli mostra che le chiavi interpretative del Novecento sono molte, anche grazie all’incredibile sviluppo di discipline come la sociologia, l’economia o l’antropologia culturale, che propongono agli storici approcci metodologici continuamente diversi e prospettive inusuali. D’altra parte, questa faccenda della durata di un secolo, ossia della coincidenza tra un sistema cronologico del tutto artificioso come quello di scandire le epoche con cesure di cento anni, e quello di individuare invece il flusso di un insieme di eventi giudicati come appartenenti ad un unico tempo storico più compatto, più facilmente identificabile, non è certo riferibile al solo Novecento. Molto prima che Hobsbawn scrivesse Il secolo breve si accettava convenzionalmente che l’Ottocento iniziasse in realtà nel 1830 e terminasse con la prima guerra mondiale. E lo scrittore Massimo Bontempelli scriveva già sulla rivista ‘900, nel primo numero del 1922, che il secolo XIX finisce con il 1915. Molto dipende, ovviamente, dal punto di vista geopolitico da cui si guarda il panorama storico. Per esempio, come cercherò di dire in seguito, dal punto di vista della storia nazionale non avrei molti dubbi nel definire il Novecento un secolo spezzato, con la fine della seconda guerra mondiale a fare da cesura tra due epoche molto diverse. Invece, se ci si colloca dal punto di vista della maggioranza degli attuali stati e della popolazione mondiale, non avrei dubbi nel definire il secolo come quello della fine del colonialismo. Tutto sommato, sottolineo che tanto Hobsbawn quanto Barraglough, Maier e altri condividono una tesi di fondo e cioè che gli aspetti più caratterizzanti del Novecento siano stati la fine dell’eurocentrismo e l’unificazione della storia mondiale, avvenuta davvero per la prima volta. Tanto da suggerire a Marcello Flores di scrivere una storia del Novecento intitolata Il secolo-mondo, proprio per mettere in evidenza l’avvenuta universalizzazione della storia umana. La fine dell’eurocentrismo va intesa in due sensi: come perdita progressiva della centralità dell’Europa nel mondo e come sopraggiunta impossibilità di interpretare la storia nella sola ottica europea. Non solo le due guerre mondiali hanno spostato altrove gli assi della potenza economica e militare, ma sullo scenario internazionale si sono affacciati più di un centinaio di nuovi Stati.3 Eppure, qualcuno c’era stato che aveva per tempo previsto i pericoli derivanti da una conflagrazione europea su larga scala. Si trattava di Winston Churchill, allora ancora giovane (era il 12 maggio del 1901) che, pur caldeggiando ai Comuni il potenziamento della marina militare, aveva ammonito: “Una volta, quando le guerre nascevano da ragioni personali, dalla politica di un ministro o da passione di un re, quando si combatteva con piccoli eserciti regolari di soldati professionisti, e quando il corso era ritardato dalla difficoltà di comunicazioni e di rifornimenti, e spesso dalla stagione invernale, era possibile limitare le perdite dei combattenti. Ma ora, quando grandi popoli vengono scagliati gli uni contro gli altri, e ciascuno di essi fortemente inasprito e infiammato, quando le risorse della scienza e della civiltà spazzano via tutto quello che potrebbe mitigarne la furia, una guerra europea può soltanto terminare con la rovina dei vinti e con la disorganizzazione commerciale e con l’esaurimento, poco meno fatali, dei vincitori”. Churchill faceva eco a previsioni ugualmente catastrofiche, formulate anche in Italia, e alla previsione di Nietzsche che ci saranno guerre come mai prima sulla terra. Non che Nietzsche fosse un profeta, ma metteva assieme due fenomeni assolutamente nuovi: l’enorme sviluppo delle civiltà urbane di massa (che per lui erano naturalmente bellicose) e lo sviluppo del colonialismo, che avrebbe innescato una competizione per il dominio del mondo. Questo cambiamento di prospettiva avvenuto nel Novecento – la fine della centralità europea - ha riguardato anche processi culturali appartenenti non solo alla seconda metà del secolo, ma già iniziati nei suoi primi decenni. Essi hanno anzi le loro radici proprio in quel periodo. Come spesso è accaduto, fu l’arte a percepire per prima il cambio di direzione del vento della storia. Le avanguardie artistiche del primo Novecento si dettero molto da fare per scappare il più velocemente possibile dall’Ottocento. Dal cubismo alla letteratura, si cercò di ricuperare una fisionomia primigenia dell’uomo occidentale, costruendo il mito di una civiltà pura e incontaminata, e ciò soprattutto a causa dell’inquietudine suscitata dall’apparizione sulla scena del mondo dell’altro (l’altro delle maschere africane e dell’Oceania, l’altro dei popoli colonizzati, l’altro del periodo arcaico della civiltà occidentale). Fondamentale, da questo punto di vista, fu l’Esposizione Universale di Parigi del 1900, che fu visitata da milioni di persone e che colpì l’immaginazione francese ed europea con il suo esotismo estremo che rafforzava e dava un volto alla nozione di straniero. Tra l’altro, i visitatori potevano osservare dietro sbarre di ferro, come in uno zoo umano, interi villaggi di africani o di popolazioni del Pacifico dediti alle attività quotidiane. Si aprì così un doppio percorso culturale che si sforzava di tenere insieme la modernità e la sua negazione, oppure di mettere in radicale opposizione i due poli. Qui, però, il discorso sarebbe troppo lungo, anche se il farlo sarebbe essenziale persino per comprendere l’oggi. Le analisi sulla storia culturale del Novecento, compresa quella italiana, sono numerose. Naturalmente, il concetto di storia culturale che qui adottato non ha nulla a che fare con l’idealistica e crociana storia delle idee, ma è tributario soprattutto dell’antropologia storica o antropologia culturale (come derivazione dei cultural studies anglosassoni): un approccio che proprio Croce avrebbe condannato come un ibrido incapace di raggiungere la verità del mondo. Ora, la ragione per cui potrebbe sembrare prematuro e comunque problematico considerare chiuso il Novecento risiede nel fatto che l’equilibrio mondiale e i conflitti socio-economici non sono affatto assestati (altro che fine della storia!) e che gli esiti di una progressiva unificazione europea – figlia di due tragedie mondiali – hanno aperto scenari geopolitici nuovi che oggi non possiamo prevedere, ma che nel caso di un suo fallimento dovrebbero preoccuparci parecchio, se non terrorizzarci. In sostanza, quelli indicati dagli storici da ultimo citati paiono davvero i tratti dominanti e riassuntivi del secolo, una volta che si concordi di scrivere sotto il loro titolo anche il fenomeno dell’estrema violenza del secolo, dell’enorme sviluppo della scienza e della tecnologia e dell’irruzione delle masse sulla scena storica. Va però aggiunto che questa novità della fine dell’eurocentrismo è ancora ben lontana dall’essere assimilata. Essa rappresenta un problema per tutti noi che viviamo in Europa e che ancora non ci rendiamo ben conto che se volessimo parlare di storia del mondo in chiave europea dovremmo anche parlare della incredibile dissennatezza – per usare un eufemismo – del nostro continente. Soprattutto, dovremmo scandagliare le responsabilità europee nella nascita e nel consolidamento di fenomeni che, troppo facilmente, vengono oggi liquidati ripetendo vecchi stereotipi che hanno giustificato sanguinose tragedie. In realtà, nel secondo dopoguerra sono stati molti i filoni culturali che hanno affrontato il problema, talvolta anche esagerando e rifiutando in toto l’eredità europea, attraverso la pratica di un relativismo culturale assoluto. Ma qui, più che all’insieme di queste analisi, mi riferisco al corrente senso comune. Rimane vero, e probabilmente lo rimarrà a lungo, che riesce difficile mettere a fuoco i concetti storici essenziali attraverso i quali individuare il senso complessivo del secolo. Magari, potrebbe risiedere proprio in ciò la peculiarità del Novecento, ossia di aver prodotto tali e tanto sconvolgenti e contraddittori cambiamenti da rendere davvero difficile dare loro un ordine e un segno riassuntivo. D’altra parte, le difficoltà di definizione potrebbero invece derivare dal fatto che il Novecento è ancora un’età contemporanea, ha cioè una dimensione non finita, le cui riarticolazioni si andranno chiarendo con il tempo e con il consolidamento di nuovi indirizzi storiografici e di nuove metodologie storiche. Ma, soprattutto, con ciò che succede ora e che accadrà nel XXI secolo. Ed è proprio questa la ragione che mi obbligherà più avanti a dire qualcosa sull’attualità e sul futuro, con il rischio di sembrare eccentrico rispetto al tema. L’idea che ognuno ha del Novecento è inseparabile dall’immagine che si ha del mondo odierno: la qualcosa è peraltro vera per qualsiasi ricognizione storiografica e per qualsiasi epoca. Così come, per converso, non si può comprendere cosa sta accadendo oggi ignorando quel che è successo nel Novecento. Alcuni storici preferiscono adottare un’esposizione di tipo reticolare, visto poi il carattere dominante dell’attuale fase tecnico-scientifica che vede il predominio dell’informatica. Questo approccio è molto analitico ma rischia di appiattire i fenomeni, ponendoli tutti su uno stesso piano (come in una rete, appunto), perdendo così di vista il senso e le correlazioni dei processi avvenuti, se non si ha l’accortezza di integrarlo e di correggerne le deformazioni con prospettive e dimensioni diverse. È opportuno ricordare che esiste una tendenza recente ad utilizzare un tale metodo per cancellare le differenze di grado (di gravità, di responsabilità, di senso e così via) tra alcuni avvenimenti storici che sembrano tra loro connessi, apparendo equivalenti. Si tratta, in realtà, di un’operazione tutta politica che tenta di dissimularsi sotto una veste storiografica. Ovviamente, non condivido affatto quest’ultimo orientamento. Ciò che definiamo genocidio, ad esempio, non ha un segno equivalente a quello di massacro. Una lotta per la libertà continua a non essere affatto uguale ad una per opprimere. La soppressione della libertà in un paese non giustifica le persecuzioni in un altro, così come, per tornare a Kant, la violazione di un diritto umano in qualsiasi parte della terra dev’essere avvertita come tale dovunque. Se questo era teoricamente vero al tempo dell’illuminismo cosmopolita, tanto più è reale oggi, se il termine globalizzazione significa qualcosa di più ampio e profondo della libera circolazione delle merci e dell’informazione. Una ribellione contro una repressione che conculca diritti fondamentali è eticamente e politicamente giustificata, come stabilisce la stessa Carta dei diritti umani dell’Onu. In altre parole, e per quanto mi riguarda, mi attengo alla regola storiografica e morale kantiana, secondo la quale la violenza politica è illecita, ma che c’è una differenza tra quella che conduce alla conquista di diritti umani più avanzati, a società più aperte e tolleranti, e quella che oscura la libertà o sopprime diritti essenziali, anche mascherandosi dietro le giustificazioni più devianti. Insomma, quel che decide dell’eticità di un’azione è il principio di libertà associato a quello di giustizia o, se vogliamo, di uguaglianza, nella ricerca continua di un delicato (dialettico, si sarebbe detto una volta) equilibrio tra i due valori inaugurati dalle rivoluzioni americana e francese, e non ancora risolti. La questione della qualità del risultato è qui dirimente del senso e della giustificazione delle azioni compiute, e costituisce un metro di giudizio storico sul quale c’è ben poco da revisionare. Inoltre, le analogie che vengono spesso costruite tra esperienze storiche diverse dipendono non solo da punti di vista generali differenti, ma anche dal prenderle in esame partendo da un’angolazione parziale, da un singolo fenomeno considerato significativo. Avviene facilmente, se la luce della ricostruzione storica non scandaglia bene tutto il territorio da esaminare e non annota le differenze di senso, che nella notte tutti i gatti possano apparire bigi. Per quanto mi riguarda, rimango fedele ad una delle tradizioni illustri del raziocinio italiano, che è quello della logica della distinzione, mentre – come è stato recentemente e con finezza osservato – alla logica dei distinti è subentrata la logica del casino. Curiosamente, quest’ultima è una logica che – soprattutto in Italia – fiorì impetuosamente nei primi decenni del Novecento, che non caso rappresenta una base essenziale di questo saggio. Pur tenendo conto di tutte queste osservazioni, è tuttavia già possibile delineare un quadro concettuale di riferimento, essendo per definizione non impossibile fare della storia contemporanea. Il primo nodo con cui fare i conti è quello – come è già apparso evidente in queste prime considerazioni - delle esperienze belliche, tra loro collegate, che hanno attraversato il secolo, e che ho riassunto nella citazione di Churchill. Come Leonardo Paggi, sono convinto che qualsiasi tentativo di periodizzare il XX secolo non possa fare a meno di un confronto esplicito con il tema della guerra.4 In particolare, con la prima guerra mondiale, che è la matrice principale delle vicende novecentesche. Se si riesaminano i dati delle guerre del Novecento e li si confronta con molte delle opinioni che circolano, si arriva facilmente alla conclusione che non esiste una cognizione condivisa di quanto quel secolo sia stato il più distruttivo di tutta la storia. Si tende a dimenticare, a depotenziare, a relativizzare la drammaticità di ciò che è accaduto, attraverso vari percorsi mentali, che sono semplicemente dei percorsi politici giustificazionisti. Eppure nel solo Novecento, a causa delle guerre, le vittime sono state più del triplo di quelle di tutti i venti secoli precedenti. In State of the War: i dati economici, sociali e ambientali del fenomeno guerra nel mondo sono riportati dati impressionanti.5 In sostanza, il XX secolo ha generato un bilancio complessivo di centodieci milioni di morti per guerra, dei quali circa cinquantacinque nella sola seconda guerra mondiale (un calcolo più prudente parla di quaranta milioni, sempre per quest’ultimo conflitto). A quelli delle due guerre mondiali, occorre aggiungere i milioni di morti delle guerre successive, ossia dei 1253 conflitti censiti tra il 1950 e il 1998, di cui circa diciotto principali. Si potrebbe obbiettare che non c’è paragone tra l’entità della popolazione del Novecento e quella di tutti i secoli precedenti. Ma anche in termini relativi il discorso non cambia, perché il Ventesimo secolo registra un indice di morti per guerra di quarantaquattro vittime per ogni mille abitanti. Durante le tragiche guerre di religione del Cinquecento l’indice fu del tre per mille, mentre per la Guerra dei Trent’anni del Seicento (la più sanguinosa dopo il Novecento) l’indice è stato dell’undici e due per mille. Di gran lunga inferiori sono stati gli indici degli altri secoli. La Prima guerra mondiale fu, insomma, l’evento a partire dal quale si inaugurò lo sterminio di massa. Le guerre coloniali tra Otto e Novecento erano state solo un piccolo anticipo, troppo spesso dimenticato, di ciò che sarebbe successo in seguito. Si cominciò con le decine di lager inglesi della guerra anglo-boera (dove furono confinati in condizioni spaventose migliaia di donne, bambini, vecchi e uomini). Poi vennero le stragi dei contadini cinesi conseguenti alla guerra dei boxers del 1900, sulle quali una testimone occidentale scrisse: “La condotta dei soldati russi è atroce, i francesi non sono molto meglio e i giapponesi saccheggiano e bruciano senza pietà… È facile dire che la Cina questa calamità se l’è cercata… ma quando possiamo distinguere l’innocente dal colpevole visto che macchiamo le ultime pagine della storia del secolo con risultati che disonorano gli annali dei secoli bui? Stiamo dando dolci lezioni di civilizzazione occidentale ai cinesi.” 6 Si continuò con i campi di concentramento spagnoli a Cuba, con le uccisioni in massa dei congolesi da parte dei belgi e di duecentomila filippini da parte degli americani. Proprio gli eccessi compiuti sotto la presidenza di Theodore Roosevelt, durante l’intervento nelle Filippine, spingeranno i democratici americani e una parte dei repubblicani ad adottare una piattaforma politica antimperialista che trionferà con l’elezione di Wilson nel 1913. Scrisse Mark Twain, a proposito dei massacri compiuti durante la sanguinosa repressione della guerra di indipendenza filippina: ”…Dobbiamo continuare a marciare con quel vecchio stile pio e insieme frastornante… oppure dobbiamo smaltire la sbornia, fermarci e ripensarci un po’, prima? Non sarebbe prudente radunare gli arnesi della nostra civiltà e vedere cosa ci resta in mano, dopo le perle di vetro e la teologia, il fucile e i libri sacri, il gin di scarto e le torce del progresso e dell’illuminismo (evidentemente ancora utili, a volte, a incendiare i villaggi)…?” Per quanto riguarda il Congo, il censimento effettuato dai belgi nel 1920 rilevò che in trenta anni erano morti circa dieci milioni di congolesi per effetto della schiavitù, delle uccisioni, dell’amputazione degli arti e di maltrattamenti brutali, al fine di costringere gli indigeni a estrarre avorio, caucciù e minerali. Joseph Conrad in Cuore di Tenebra, ma anche Mark Twain, Arthur Conan Doyle e altri scrittori avevano a lungo denunciato le atrocità compiute in Congo. Nel caso di Conrad, per esperienza diretta, avendo lavorato negli anni ’90 lungo il fiume Congo. Solo oggi il Belgio comincia a prendere coscienza di questo lato oscuro della propria storia.7 Per non tacere, ancora, dei precoci campi di sterminio allestiti nel 1904 dai tedeschi nell’Africa sud occidentale, a proposito dei quali il generale tedesco von Trotha scrisse nel 1906: “L’esercizio della violenza, del terrorismo, e perfino della macabra ferocia era ed è la mia politica. Distruggo tribù africane con fiumi di sangue e fiumi di denaro. Solo perseguendo questa pulizia può emergere qualcosa di buono, che rimarrà.” Ma occorre anche ricordare i primi bombardamenti aerei sperimentati dagli italiani in Libia . Come scrive nel suo recente saggio Paul Berman, per altri versi non condivisibile per alcune suggestive ma un po’ forzate tesi, le stragi di massa sono un fatto ricorrente nel Novecento, uccisioni in quantità industriale: un leit motiv della modernità. L’autore, giornalista e saggista americano, sostiene anche che il fondamentalismo islamico deriva dalle ideologie totalitarie europee del Novecento. All’inizio del Novecento l’idea dell’unità di tutti i musulmani sarebbe nata in modo speculare a quella diffusa tra gli europei, “dove nella maggioranza della popolazione prevale la percezione di un’identità radicalmente diversa e di una superiorità che si manifesta nel dominio economico e nel controllo politico, e che è garantita dalla supremazia militare”.8 Vale anche la pena di ricordare che il termine fondamentalismo fu coniato attorno al 1915 in relazione ad una massiccia azione di propaganda delle chiese evangeliche statunitensi, le quali utilizzavano la Bibbia contro l’evoluzionismo darwiniano per imporre una visione teologica dei problemi umani. Una “cultura” che si ripropone oggi con il fondamentalismo neoconservatore e con il ritorno all’integralismo etico-dottrinale di una parte consistente della gerarchia cattolica e delle sette protestanti. Da un altro punto di vista, quello economico e della distribuzione della ricchezza, è ugualmente istruttivo incrociare la serie storica dei dati con le vicende politico-militari principali del Novecento. Balza evidente agli occhi come il grande sviluppo della ricchezza pro-capite di fine Ottocento e degli inizi del Novecento, subì un drastico rallentamento medio per tutto il periodo dal 1913 al 1950. Grosso modo, si tratta della fase comprendente le due guerre mondiali e il periodo più acuto della guerra fredda, ossia la fase dei conflitti più aspri. La guerra fredda continuerà ovviamente più a lungo, ma con altre dinamiche, dal momento (1952-1953) in cui anche l’URSS si doterà della bomba H. Queste osservazioni ci aiutano anche a capire lo sfondo su cui si sono innestati i processi politici del tempo, ossia che se la ricchezza ha continuato a crescere per tutto il secolo, quel periodo segna comunque un vistoso rallentamento, all’interno del quale c’è anche la grande depressione del 1929, che non fu un evento separabile dalle vicende belliche e politiche. Un ammonimento, per tornare alle due guerre mondiali (ambedue originate nel nostro continente), a tutte le giovani generazioni sulle conseguenze di conflitti inter-europei e sulla necessità di una solida unità continentale che li scongiuri in futuro, superando l’eredità di guerre secolari e di stupidi pregiudizi. L’Europa non deve più commettere gli stessi terribili errori. Dal mio punto di vista, questa è l’unica ragione che giustifica l’intervento in Kosovo e condanna il colpevole e ritardatario comportamento europeo, americano e dell’Onu a proposito dei massacri compiuti in Bosnia. Per non parlare delle responsabilità della Germania e del Vaticano nell’accelerare il processo di dissoluzione istituzionale nei Balcani all’insegna di un’irresponsabile improvvisazione e di interessi economico-religiosi. Insomma, è necessario fare fino in fondo i conti con il Novecento e chiuderne finalmente la vicenda, liberandosi anche da una certa lettura patologica della modernità. Il punto, al di là dei dati, è che tre guerre mondiali (due calde e una fredda, con quella fredda che ha coperto o scaricato il suo potenziale su centinaia di guerre locali), con i caratteri di distruttività, totalità e ferocia impersonale (ma anche personale) che hanno avuto, non hanno precedenti nella storia umana. Quali che siano le affabulazioni che si possono produrre sui grandi condottieri del passato e sulle eroiche gesta di questo o quell’esercito, sia che si tratti di Alessandro Magno come di Napoleone, bisogna essere coscienti che si tratta di quisquilie in confronto a quanto che è successo nel Novecento. Certo, il Novecento - lo sappiamo bene - non è stato l’unico secolo sanguinoso della storia. Anche gli stermini degli indiani delle Americhe, chiamati dalla letteratura dei missionari i figli del diavolo, avviati nel 1600 e compiuti dagli europei, sono stati terribili, pur se se abbiamo solo delle stime. E, naturalmente, il pensiero va subito alla leggendaria crudeltà di Gengiz khan e alle piramidi di teschi che costellavano i dintorni delle città vinte. Ma la crudeltà mongola era, per l’appunto e in parte, molto leggendaria, essendo soprattutto circoscritta alla decapitazione dei gruppi dirigenti delle città che non si erano arrese. Massacri e comportamenti feroci ci sono sempre stati, ma sul genocidio la maestra del mondo è stata l’Europa contemporanea. Insomma, dobbiamo essere coscienti che nessun secolo ha pianificato la morte come il Novecento e che nessuna epoca, soprattutto, ha avuto a disposizione armi così distruttive per farlo. Per cui, continuare a pensare la guerra nei termini più o meno dei fenomeni del passato rappresenta non solo una follia intellettuale, ma conferisce un’inquietante credibilità a quei filoni di pensiero critico che formulano un giudizio terribile sui caratteri del Novecento, anche se sono poco convincenti dal punto di vista delle previsioni apocalittiche che ne fanno discendere. Quel pensiero individua nell’enorme scarto tra la potenza tecnica e materiale della civiltà attuale e l’inadeguatezza morale, intellettuale e politica dell’uomo contemporaneo la radice profonda delle tragedie avvenute. L’uomo è antiquato è il significativo titolo del libro di un filosofo, Gunther Anders, scritto nella seconda metà del secolo. Il secolo mostruoso, è la sintesi che viene data al Novecento da questo filone di pensiero (che è di matrice essenzialmente tedesca), dove il mostruoso di ciò che è storicamente accaduto discenderebbe da due novità essenziali. Da un lato, appunto, c’è stata e c’è un’enorme sproporzione tra la potenza (militare, economica, scientifica e così via) messa in campo e la controllabilità dei suoi fini e dei suoi effetti. Dall’altro lato, c’è il fatto che il sistema novecentesco (quale che ne sia stato il connotato politico o sociale che si prende in esame) ha richiesto la costruzione di estesi apparati organizzativo-tecnologici in cui il singolo è stato inserito come la rotella di un grande ingranaggio, responsabile solo per quel segmento di lavoro che deve svolgere, indifferente e ignorante del risultato finale. È stato in sostanza introdotto un principio di de-responsabilizzazione personale assoluto che spiegherebbe come mai, nei casi più patologici, si possa partecipare ad un genocidio e, contemporaneamente, essere ritenuti buoni e tranquilli cittadini, amanti dei bambini e degli animali. È il fenomeno della macchinizzazione dell’uomo, per altri versi tanto esaltata dal nostro F.T. Marinetti, e così abbondantemente trattato dalla letteratura e dal cinema, e che ha avuto un corrispettivo economico-sociale nel processo di industrializzazione, in un’organizzazione del lavoro impersonale e gerarchizzata al massimo (quella tayloristica) e nella costruzione di enormi apparati militari. È questa solo una parte delle ragioni, ad esempio, per cui il diritto d’intervento dei lavoratori sull’organizzazione del lavoro rappresenta non solo una rivendicazione connessa al principio di libertà e al rispetto della persona, ma è pregiudiziale anche per un assetto sociale sano. Superare la passività nel mondo del lavoro costituisce il primo passo di una cittadinanza attiva, oltre che la salutare pratica di un abito mentale critico. D’altra parte, nasce proprio negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento l’idea che “dietro la società del benessere apparentemente benefica potesse nascondersi una menzogna incantatrice, capace di asservire l’uomo e di fargli smarrire la sua libertà”. Un’idea che, per la verità, aveva illustri precedenti nel romanticismo, che ebbe in seguito robusti eredi nella filosofia tedesca del Novecento, e con la quale facciamo ancora i conti, essendone ben vivi i filoni culturali di afferenza.9 Per tutto il secolo si sono fondamentalmente confrontate due idee sul futuro dell’uomo: come sogno di un avvenire riscattato dalle miserie materiali e morali; oppure come incubo di una società in cui la tecnologia e la politica avrebbero distrutto l’umanità. La differenza fondamentale deriva dal contrasto tra una visione ottimistica e una pessimistica: tra un atteggiamento di fiducia verso il futuro e il ripianto per ciò che è stato nel passato. Personalmente, ho sempre militato a favore delle prime ipotesi. Diciamo che tra Voltaire e Rousseau ho sempre preferito il primo, considerando del tutto campata per aria l’idea di una degenerazione dell’umanità, visto che le prime lamentele documentate in proposito risalgono alla XIII dinastia egizia. Ciò non toglie che, nell’ellisse che va dai massacri della prima guerra davvero di massa della storia (la Grande guerra) allo sganciamento sulle città giapponesi della bomba atomica, passando per gulag e campi di sterminio, genocidi e bombardamenti a tappeto, desaparecidos e macelli etnici, si concentra un cambiamento delle caratteristiche della storia umana (tecnico, morale, economico e culturale) tale da obbligare anche gran parte dei pensatori della seconda metà del secolo a porsi interrogativi angosciosi che attendono ancora una risposta. Intanto, la guerra è diventata ideologica e il vecchio aforisma di von Clausewitz che la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi, pensato in chiave di cariche di cavalleria, di manovre di squadroni e di conflitto classico tra Stati, è stato per molti decenni messo tra parentesi a partire dalla Grande guerra e da due tra gli effetti principali della modernità. Il primo effetto riguarda il tradizionale conflitto tra Stati, che è diventato uno scontro tra concezioni e valori in cui la posta in gioco non è solo il predominio ma la sostituzione di un sistema di pensiero ad un altro in intere popolazioni. Magari cominciando dall’immaginare la creazione di un uomo nuovo da imporre per necessità storica o per motivi teorici, intanto all’interno dei propri confini. La lista sarebbe troppo lunga, a cominciare dai prodromi primo-novecenteschi dei nazionalismi ritardatari, compreso quello italiano, passando per il fascismo e l’Olocausto, per finire ai totalitarismi dei paesi dell’est d’Europa o dell’Asia. Penso alla tragedia di Pol Pot in Cambogia, ma soprattutto all’Olocausto, le cui dimensioni e caratteristiche ne faranno pesare l’orrore sulla coscienza europea come il lato oscuro che ha accompagnato la sua civiltà.10 In generale, comunque, occorre essere coscienti che dentro la costituzione di uno stretto legame tra ideologia e politica ricadono tutti i filoni culturali e politici dell’ultimo Ottocento e del Novecento, compresi il conservatorismo e il liberalismo. Anzi, è stato proprio quest’ultimo ad aver inaugurato la nuova e potente combinazione. Questa interconnessione ha infatti significato che, a differenza del passato, vita e politica si sono congiunte a livello di grandi masse. Qui uso la nozione di ideologia non in senso marxiano (falsa rappresentazione, motivazione e coscienza dell’essere sociale dell’uomo) ma seguendo la definizione di Hannah Arendt, ossia che le ideologie-ismi, per la soddisfazione dei loro aderenti, possono spiegare ogni cosa e ogni avvenimento facendoli derivare da una singola premessa. La connessione tra politica e vita era iniziata nel XVIII secolo, ma solo con il Novecento giunse ad una completa maturazione. Il secondo effetto comporta che il teatro delle guerre del XX secolo è stato, per la prima volta nella storia, davvero mondiale. Nel Novecento è emersa l’interdipendenza reale del mondo e l’impossibilità di circoscrivere gli attori che possono intervenire in un conflitto. Inoltre alla guerra, per mobilitazione o per coinvolgimento forzato, ha partecipato tutta la popolazione. L’espressione fronte interno e fronte esterno è stata coniata durante la Grande guerra, per quanto le sue radici affondino nell’Apocalisse di Giovanni con il mito dell’attacco dall’interno e dall’esterno al popolo di Dio: un concetto oggi ampiamente ripreso e teorizzato dal fondamentalismo islamico. Ma è con la prima guerra mondiale che è cominciata in modo sistematico la cancellazione della distinzione tra combattenti e civili. Fu allora che venne formulato il nuovo paradigma della guerra totale, che ha registrato un’impressionante progressione. La definizione apparve per la prima volta in un’opera di Léon Daudet, La guerra totale, pubblicata a Parigi nel 1918. Durante la prima guerra mondiale il 15% dei caduti furono civili (secondo altre fonti il 5%), contro il 59% (o 45%) della seconda guerra mondiale, il 60% della guerra del Vietnam e l’80% circa registrato finora in Iraq e in altre guerre recenti. L’Armaggedon biblico - visto dal versante delle popolazioni inermi - è stato agito in pieno e non ce n’è stato uno solo, ma nessuno di essi – contrariamente a quanto si affermava nella profezia - ha prodotto alcun regno del bene. Ossia una Gerusalemme celeste, la quale ultima – come territorio geografico reale – è storicamente piuttosto insanguinata per continuare ad essere considerata sacra. In realtà, l’Armaggedon è stato largamente esportato, come pratica di governo e di distruzione del nemico su larga scala, dall’Europa nel resto del mondo, raggiungendo il suo apice con la seconda guerra mondiale. Poiché, nessun evento storico precedente ha raggiunto il livello di distruzione provocato dalla seconda guerra mondiale.11 Insomma, per uscire dalla metafora biblica e riprendere un’affermazione di De Bernardi, si è trattato di “guerre assolute, dove si scontrano diverse concezioni del mondo, diversi modelli di organizzazione sociale, che ambiscono a dominare l’intero pianeta attraverso la distruzione degli avversari.” E la globalizzazione di cui si parla tanto oggi, a proposito e a sproposito, è solo figlia di questi processi e dell’enorme capacità tecnica di comunicazione materiale e immateriale accumulatasi. In sostanza, aggiornando von Clausewitz, la guerra è diventata la prosecuzione armata e violenta di uno scontro ideologico, che maschera una lotta per il predominio anche economico e culturale: non è più un classico scontro politico tra stati o dinastie, anche quello, peraltro, spesso basato su ragioni economiche.
1
In V. Pavone (a cura di), Novecento. I tempi della storia,
Roma, 1997.
2
A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente ovvero ragionamento
sull’Apocalisse, Torino, 1992.
3
Dai 45 Stati aderenti all’ONU nel 1945 si è passati ai
193 attuali.
4
L. Paggi, Un secolo spezzato. La politica e le guerre, in C.
Pavone (a cura di), op. cit.
5
M. Renner, State of the War: i dati economici, sociali e
ambientali del fenomeno guerra nel mondo, Milano, 1999.
6
In M. Flores, Il secolo-mondo.
Storia del Novecento, Bologna, 2002.
7
Vedi la mostra: Congo:
il periodo coloniale,
Bruxelles, Museo
Reale dell’Africa Centrale, 27/01-2/10/05.
8
P. Berman, Terrore e liberalismo. Perché la guerra al
fondamentalismo è una guerra antifascista, Torino, 2004.
9
M. Nicoletti, La coscienza morale, in Approfondire il
Novecento, a cura di F. De Giorgi, 2002. Se si vuole
approfondire il difficile rapporto tra la tecnologia e la cultura
nel Novecento, si veda M. Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo di
incomprensioni, 2000. Sulle origini di questi atteggiamenti
antimodernisti e sulla rivalutazione del pensiero irrazionale ha
scritto pagine splendide anche A. Hauser, in Storia sociale
dell’arte. Rococò Neoclassicismo Romanticismo,
Torino, 2001.
10
Mosse G.L., Il
razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto,
Roma-Bari, 2003.
11
M. Flores, Il secolo-mondo. Storia del Novecento, Bologna,
2002. |