LA STORIA CONTEMPORANEA
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IL GIAPPONE DAGLI ANNI VENTI ALLA GUERRA MONDIALE
Manciukuò e Provincia di Shandong L’ECONOMIA NIPPONICA NEL 1924-29 In Giappone la produzione e il commercio capitalistici, che avevano subito una flessione nel periodo della crisi postbellica del 1920 e che erano rimasti a un basso livello nei tre anni successivi, realizzarono un notevole aumento verso in biennio 1925-26: il valore globale della produzione dell’industria di trasformazione e il volume delle esportazioni raggiunsero il livello del 1919 e il numero degli operai occupati arrivò a quota 1,9 milioni, con un aumento di 100.000 unità rispetto al 1919. La ripresa fu il risultato dei grandi lavori di ricostruzione intrapresi dal governo dopo il grande terremoto del 1923, principalmente con i fondi del bilancio statale, incrementato dall’aumento delle tasse, specie quelle indirette. I monopoli sfruttarono la calamità naturale per intascare i rilevanti sussidi governativi per i lavori di ricostruzione. Tuttavia nel 1927 scoppiò una crisi economica nella sfera del credito e delle finanze, accompagnata dalla bancarotta di numerosi consorzi e aziende industriali. La banca semistatale di Formosa, così come decine di altre banche, con un deposito complessivo di circa un miliardo di yen, cessarono i pagamenti. L’apparato produttivo rimase inattivo per il 25-30%. Un forte colpo alle esportazioni giapponesi venne data dal boicottaggio delle loro merci in Cina e in altri paesi dell’Asia sudorientale. I monopoli giapponesi cercarono di reagire puntando più che sulla ristrutturazione tecnologica dell’industria, su una forte intensificazione dello sfruttamento del lavoro operaio. Anzi, preparandosi a una nuova guerra di conquista (dopo quella degli anni 1905-10 in Corea), il governo giapponese incentivò lo sviluppo dei settori dell’industria pesante. I DISSENSI ALL'INTERNO DEI GRUPPI DIRIGENTI Gli elementi moderati delle classe dominanti, considerando la situazione di tensione politica esistente nel paese e il malcontento delle masse popolari, preferivano perseguire un indirizzo di politica estera più cauto e una politica interna volta a fare alcune concessioni alle masse lavoratrici, che rivendicavano il suffragio universale. La vecchia burocrazia, la corte imperiale, la nobiltà feudale e i ceti militari insistevano invece per una politica estera espansionistica, mentre in politica interna erano contrari al parlamentarismo, all’estensione del diritto di voto e alla limitazione delle competenze delle vecchie istituzioni politiche semifeudali (consiglio segreto di Stato e Genro, un organo extra-costituzionale che si poneva come fonte reale dell'autorità del Governo, in quanto sceglieva il Primo Ministro e consigliava l'Imperatore su tutte le questioni di politica interna ed estera). Nel maggio 1924 alle elezioni parlamentari vinse il partito della grossa borghesia (“Associazione per una politica costituzionale”). Il leader di questo partito, Kato, un uomo del gruppo industriale Mitsubishi, diresse il nuovo governo, favorendo l’estensione del diritto elettorale: nel 1925 il numero degli elettori era passato da 3.000.000 a 12.000.000. La riforma però non concesse il diritto di voto alle donne, conservò un limite elevato di età per l’esercizio del voto attivo e passivo (di 25 e di 30 anni) e richiese un lungo periodo di residenza per poter esercitare il diritto elettorale e forti spese per la presentazione dei candidati. Inoltre la nuova legge elettorale sarebbe entrata in vigore solo dopo tre anni. Quasi contemporaneamente alla riforma elettorale venne approvata una nuova legge di polizia “sul mantenimento dell’ordine” (più nota con il nome di “legge sui pensieri pericolosi”), che prevedeva dieci anni di lavori forzati per l’attività rivoluzionaria. La legge venne estesa anche alle colonie giapponesi. Il governo Kato la utilizzò per compiere dure repressioni contro il movimento operaio e contadino. L’indebolimento delle posizioni internazionali del Giappone sia dopo la conferenza di Washington del 1921-1922 sul disarmo generale e la soluzione dei problemi dell'Estremo Oriente e del Pacifico che dopo il rafforzamento dell’Urss, indusse il governo a rinunciare temporaneamente alle avventure belliche antisovietiche. Anzi nel 1925 i rappresentanti dei due paesi firmarono a Pechino un trattato sulla apertura di normali relazioni diplomatiche. Tuttavia il governo giapponese fece di tutto per impedire la conclusione dell’accordo commerciale previsto dal trattato, anzi favorì al massimo l’attività antisovietica dei controrivoluzionari bianchi e dei militaristi cinesi nella Cina nordorientale. LO SVILUPPO DELLA LOTTA DI CLASSE Intanto il partito comunista, scioltosi nel marzo 1924 in conseguenza della politica opportunista della sua direzione, e ricostituitosi alla fine del 1926, elaborò un programma d’azione contro l’offensiva degli imprenditori, rafforzando la propria influenza nel paese grazie a un’intesa col partito operaio-contadino, creato nel 1926, che ottenne nelle elezioni parlamentari del 1928 200.000 voti. L’attività di questi due partiti gettò l’allarme nei circoli dirigenti, che nel 1928 introdussero nella “legge sui pensieri pericolosi” alcune clausole che prevedevano la pena di morte per attività rivoluzionaria e che comportarono lo scioglimento di tutti i partiti di sinistra, arresti in massa di comunisti e l’assassinio, nel 1928, di un dirigente comunista, Masanosuke Watanabe. LA POLITICA AGGRESSIVA DEL GOVERNO TANAKA Nell’aprile 1927 andò al potere il governo del leader della “Società degli amici politici”, il generale e barone Tanaka, uno degli organizzatori dell’intervento giapponese nell’Estremo Oriente sovietico nel 1905. Il nuovo governo si dedicò subito all’elaborazione di piani di aggressione contro l’Urss e la Cina. Nell’estate del 1927 si tenne a Tokyo, sotto la presidenza di Tanaka, la cosiddetta “Conferenza orientale”, nella quale venne discusso, con le massime autorità governative e militari, un programma aggressivo (detto “memorandum segreto di Tanaka”) che prevedeva la conquista di una parte della Cina e di tutta la Mongolia, con l’obiettivo di realizzare un dominio nipponico nell’Asia sud-orientale e nel bacino dell’oceano Pacifico. In concomitanza con l’inizio della guerra civile in Cina tra il Kuomintang (Partito Cinese Nazionalista) e il Partito Comunista Cinese, gli imperialisti giapponesi nel maggio 1927 avevano inviato proprie truppe nella provincia costiera cinese dello Shandong, occupando alcune città. Scopo di questo intervento armato era di fermare l’offensiva delle truppe del Kuomintang verso nord e di utilizzare queste forze per sconfiggere il movimento comunista. L’anno dopo infatti, col pretesto della “difesa degli interessi vitali e delle proprietà dei residenti giapponesi”, l’esercito giapponese penetrò massicciamente in tutta la provincia dello Shandong, chiedendo in forma ultimativa il ritiro di tutte le truppe cinesi. Uccisero anche nel giugno 1928 il governatore della Cina nord-orientale Zhang Zuolin, che s’era accordato con gli imperialisti americani, sottraendosi all’ubbidienza verso il Giappone. Tuttavia un forte movimento cinese di boicottaggio delle merci giapponesi e l’azione decisa della diplomazia sovietica contro il nuovo atto di aggressione costrinsero il Giappone a iniziare nell’agosto del 1928 l’evacuazione delle proprie truppe dallo Shandong (che terminò solo nel maggio 1929). Per tutta risposta nell’estate 1929, di concerto con gli Stati Uniti e con la Gran Bretagna, gli imperialisti giapponesi inscenarono una provocazione antisovietica di militaristi cinesi sulla ferrovia della Cina orientale e sulla frontiera sovietico-cinese, ma le truppe sovietiche respinsero l’attacco degli aggressori. GLI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA MONDIALE DEL 1929 Dopo il 1929 la crisi economica mondiale si manifestò in Giappone in forma straordinariamente acuta. Il valore totale della produzione industriale scese, nel 1931, del 32,4%, rispetto al 1929; il volume dell’industria estrattiva e dell’industria pesante fu quasi dimezzato. L’esportazione dei principali prodotti si ridusse di oltre i 2/3. Durante la crisi si rafforzò il processo di concentrazione della produzione e del capitale, a spese delle piccole e medie imprese. Nel 1929 si contavano nel paese 21 associazioni monopolistiche; nel 1930 esse erano già 31 e nel 1931 ne sorsero altre 23. I salari degli operai subirono continue riduzioni: nei rami fondamentali dell’industria diminuirono dal 25 al 45%. Nel 1931 c’erano nel paese 3 milioni di disoccupati. Il prezzo del riso era calato nel 1931 di oltre la metà rispetto al 1929, e siccome scendevano i prezzi anche degli altri prodotti agricoli, si accrebbe nettamente l’indebitamento delle aziende contadine. Approfittando di ciò, i proprietari fondiari presero a cacciarli dalle loro terre, anzi utilizzavano i numerosi disoccupati, ritornati dalle città dopo i licenziamenti dalle officine e dalle fabbriche, per rompere i vecchi rapporti tradizionali con i contadini affittuari. Cioè invece di concludere nuovi contratti di affitto, molti proprietari fondiari preferivano gestire le loro aziende con manodopera salariata. I lavoratori, con le loro nuove organizzazioni democratiche, scesero in lotta contro i licenziamenti, le riduzioni del salario e l’aumento della giornata lavorativa. Nel 1931 gli scioperi furono due volte e mezzo più numerosi che nel 1928. Nei primi tre anni di crisi il numero dei conflitti nelle campagne superò gli ottomila. I contadini chiedevano l’annullamento dei debiti dovuti ai proprietari fondiari (a cui spesso s’incendiavano le case), la riduzione degli affitti e avanzarono la parola d’ordine “la terra ai contadini”. I disoccupati chiedevano anche l’assegnazione di sussidi, la distribuzione gratuita delle scorte di riso, l’esenzione dal pagamento degli affitti delle abitazioni, l’introduzione di assicurazioni contro la disoccupazione a spese degli imprenditori. Le incursioni della polizia contro le organizzazioni sindacali, le bastonate ai partecipanti agli scioperi e gli arresti in massa divennero un fenomeno quotidiano. Nel 1930 vennero arrestate 6.000 persone, nel 1931 più di 10.000. Si rafforzò anche l’attività di organizzazioni para-militari sovvenzionate dal regime, che effettuavano azioni terroristiche contro i dirigenti del movimento operaio, disperdevano le assemblee operaie, attaccavano le sedi dei sindacati. I COMPLOTTI MILITARI FASCISTI L’oligarchia finanziaria del Giappone tendeva sempre più verso l’instaurazione di un “governo forte”. Lo strumento per realizzare questo fine doveva essere il ceto militare, i cui rappresentanti sottoponevano a violente critiche i partiti parlamentari per la loro incapacità di assicurare un “ordinamento solido”, e chiedevano apertamente la liquidazione del sistema parlamentare e il passaggio alla dittatura militare. Nel 1931 vennero scoperti complotti che avevano lo scopo di preparare dei colpi di Stato per l’instaurazione della dittatura. Una particolare attività venne manifestata in quest’epoca dai cosiddetti “giovani ufficiali”, in prevalenza provenienti dai ceti dei piccoli e medi proprietari fondiari (gli ufficiali superiori provenienti dall’antica nobiltà feudale-militare e che avevano partecipato alla guerra russo-giapponese del 1904-1905 erano denominati i “vecchi”). I “giovani ufficiali” esprimevano un certo malcontento verso la vecchia burocrazia e l’ambiente dei generali, considerandoli un ostacolo sulla strada del loro avanzamento nella carriera militare. Nel 1932 cominciò a formarsi l’organizzazione fascista “Federazione nazionale dei giovani ufficiali”, capeggiata dal generale Araki. Vi aderirono l’Unione dei riservisti, i rappresentanti dell’Associazione dei proprietari fondiari, la Società agricola imperiale e alcuni deputati degli agrari. L’organizzazione diffuse manifestini in cui attaccava demagogicamente i monopoli e prometteva il proprio aiuto al popolo nella lotta contro le speculazioni dei gruppi commerciali, dei “politicanti” e degli “amanti del facile arricchimento”. Il 15 maggio i ribelli fascisti penetrarono a viva forza nella residenza del premier Inukai e l’uccisero, gettarono bombe contro il palazzo del governo e le sedi del partito di governo e del gruppo monopolistico Mitsubishi. Il loro tentativo d’instaurare una aperta dittatura militare non ebbe però successo. La demagogia anticapitalistica dei fascisti apparve pericolosa alla classe dominante. Il governo fece disarmare i ribelli e arrestare alcuni di loro. Tuttavia il principale responsabile del complotto, il generale Araki, non venne arrestato, anzi ebbe il portafoglio di Ministro della guerra nel nuovo governo di “unità nazionale”, chiamato a quietare l’indignazione popolare. L'INVASIONE DELLE TRUPPE GIAPPONESI NELLA CINA NORD-ORIENTALE Negli anni della crisi economica, successivi al 1929, i monopolisti giapponesi, statunitensi e britannici si scontrarono aspramente in Cina per i mercati di smercio dei loro prodotti, per gli investimenti dei capitali e per le sfere d’influenza economico-politiche, allo scopo di alleggerire la loro situazione economica mediante la spoliazione del popolo cinese. Nel 1931 gli Stati Uniti elaborarono un progetto per la concessione di un prestito cosiddetto “dell’argento” da utilizzarsi per il riscatto delle ferrovie cinesi, allora in mano ai giapponesi. La Banca d’America a Shanghai decise di istituire alcune decine di succursali nel nord-est della Cina. Nello stesso anno gli Usa occuparono il primo posto nel commercio cinese, facendo retrocedere il Giappone al secondo e la Gran Bretagna al terzo. Non volendo rassegnarsi al fatto che le più importanti posizioni in Cina, destinata a diventare nei suoi intenti una propria colonia, passassero nelle mani degli americani, il Giappone pensò a una soluzione di tipo militare, aggredendo la Manciuria (la Cina nordorientale), le cui ricchezze economiche e la cui posizione geografica veniva considerata strategica, in quanto da lì si potevano compiere altre azioni aggressive contro la Cina e l’Urss. A dir il vero gli obiettivi finali della cricca militarista nipponica erano quelli di occupare tutta la Cina, la Mongolia, l’Estremo Oriente sovietico e vaste regioni dell’Asia centrale, contando di poter sfruttare gli atteggiamenti antisovietici dei circoli governativi degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Francia e delle altre potenze imperialiste: per questo motivo presentava la sua aggressione soprattutto come lotta contro la “minaccia comunista”. Nell’estate del 1931 il Giappone aveva completato la preparazione per l’attacco alla Cina. Il momento scelto gli sembrava assai favorevole, perché i concorrenti imperialisti erano presi dalla crisi economica mondiale. Nella stessa Cina era scoppiata la guerra civile (1926-1949), che veniva descritta dalla propaganda giapponese come una “minaccia rossa”. Nel settembre 1931 le truppe giapponesi iniziarono l’invasione della Cina nord-orientale, occupando in pochi giorni tutti i principali centri e approfittando della politica di capitolazione del governo di Chiang Kai-shek, secondo cui prima di combattere il Giappone bisognava eliminare i comunisti interni. Nel gennaio 1932 i militaristi giapponesi tentarono di occupare Shanghai, ma la resistenza degli operai della città e di alcuni reparti della XIX armata cinese fece fallire il loro tentativo. L'ATTEGGIAMENTO DELLE POTENZE OCCIDENTALI DI FRONTE ALL’AGGRESSIONE GIAPPONESE Sebbene l’aggressione giapponese alla Cina toccasse gli interessi delle potenze occidentali e violasse il trattato di Washington, il “patto Briand-Kellogg” e lo statuto della Società delle Nazioni, i circoli governativi di questi paesi attuarono una politica di connivenza con l’aggressore, rifornendolo di materiale strategico-militare. Alla base di questo atteggiamento stavano l’avversione contro la rivoluzione cinese del democratico Sun Yat-sen (1866-1925), fondatore della Cina moderna, nonché l’idea che lo sviluppo degli avvenimenti avrebbe portato a una guerra nippo-sovietica, nella quale ambedue le parti si sarebbero seriamente indebolite. Le truppe giapponesi, dopo aver occupato la Cina nord-orientale, cominciarono ad avanzare verso sud, cioè verso quelle regioni dove le potenze occidentali, in primo luogo la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, avevano grossi interessi industriali e finanziari. Provocò particolare inquietudine tra i monopolisti britannici e americani il tentativo giapponese di occupare Shanghai, principale centro del commercio britannico in Cina e importante zona d’investimento del capitale americano. Le ditte americane avevano a Shanghai 400 succursali: appartenevano loro la centrale elettrica, le aziende municipali, le aviolinee. Verso il 1932 gli Stati Uniti occupavano il primo posto nell’importazione di merci a Shanghai. Nel gennaio 1932 gli Usa invitavano il Giappone e la Cina a non creare una situazione in cui venissero danneggiati gli interessi del loro paese. Il che, in pratica, voleva dire che il Giappone avrebbe dovuto limitarsi a occupare la parte nord-orientale della Cina, rivolgendosi semmai verso i confini con l’Urss. I governi di Gran Bretagna e Francia speravano invece di accordarsi col Giappone per garantire i propri interessi in Cina senza la partecipazione degli Stati Uniti. Ovviamente neppure la Società delle Nazioni si oppose all’estensione dell’aggressione in Cina: si propose soltanto una commissione per studiare la situazione. Nel frattempo i militaristi giapponesi, volendo mettere la commissione davanti al fatto compiuto, accelerarono la riorganizzazione della Cina nord-orientale, ponendo al governo l’ex imperatore della Cina Pu Yi, ultimo imperatore Qing, “reggente” del nuovo Stato fantoccio del Manciukuò. Nel giugno 1932 il parlamento giapponese approvò la decisione di riconoscere, de iure, il Manciukuò, permettendo ai militaristi giapponesi possibilità illimitate di spadroneggiarvi. Nell’ottobre 1932 venne pubblicata la relazione della commissione della Società delle Nazioni sulla situazione in Cina. La proposta era quella di lasciare la Cina nord-orientale sotto la sovranità cinese con un’autonomia protetta dalle grandi potenze, cioè in pratica si mirava a trasformare la Cina nord-orientale in una zona di sfruttamento del capitale internazionale. Sicché per circa cinque mesi alla Società delle Nazioni si assistette a una dura lotta tra gli imperialisti per la spartizione di quell’area. Soltanto nel febbraio 1933 l’assemblea della Società delle Nazioni approvò una risoluzione nella quale si richiedeva lo sgombero delle truppe giapponesi dalla Cina nord-orientale, anche se riconosceva i particolari interessi del Giappone in questa regione. All’approvazione di tale risoluzione il Giappone reagì uscendo dalla Società delle Nazioni ed estendendo ulteriormente l’aggressione ad altre province cinesi. Alla fine il Kuomintang capitolò, firmando un accordo con i giapponesi per la trasformazione della parte nord-orientale di questa provincia in una zona smilitarizzata. Gli aggressori avevano però la strada aperta verso Pechino e Tientsin. A nulla valsero le opposizioni del partito comunista giapponese e di altre organizzazioni progressiste contro questa invasione imperialistica. Decine di migliaia di persone vennero arrestate, due dirigenti del partito comunista vennero uccisi dalla polizia, furono sciolte tutte le organizzazioni di sinistra e lo stesso partito comunista. LA PROGRESSIVA MILITARIZZAZIONE DEL GIAPPONE Il governo presieduto dell’ammiraglio Okada, che era subentrato nel luglio 1934 al governo dell’ammiraglio Saito, continuò la politica di consolidamento delle posizioni del capitale statale-monopolistico e la preparazione della “grande guerra”. I monopolisti ottennero sovvenzioni statali e commesse militari che assicurarono loro enormi profitti. Il governo favorì in primo luogo quei settori della produzione che erano legati alla preparazione della guerra. Una particolare attenzione venne dedicata all’industria pesante. Nel 1934 fu creato un grande trust metallurgico semistatale del quale fecero parte le fabbriche statali e alcune aziende appartenenti ai consorzi Mitsui, Mitsubishi ecc. Tre quarti del capitale del trust erano dello Stato. Le commesse militari del governo raggiunsero i 5 miliardi e mezzo di yen nel 1932-1936, stimolando il rapido sviluppo dell’industria pesante. La produzione della ghisa in Giappone (compresa la Corea) aumentò, nel periodo 1929-1936, da 1,2 milioni a 2,3 milioni di tonnellate; la produzione dell’acciaio aumentò negli stessi anni da 2,3 milioni a 5,3 milioni di tonnellate. Dal 1931 al 1936 furono investiti nell’industria bellica quasi 7 miliardi di yen, di cui circa 5,3 nella costruzione di nuove fabbriche. Enormi somme furono spese per rafforzare e modernizzare l’esercito e la marina: nel 1935-1936 esse raggiunsero i 1.023 milioni di yen, mentre nel periodo 1933-1934 le spese militari erano state di 852 milioni di yen. Sorsero però, inevitabilmente, serie difficoltà finanziarie, e il deficit del bilancio statale raggiunse un miliardo di yen, mentre la somma dei prestiti statali raggiunse i 9 miliardi. Lo Stato cercò di superare le difficoltà economiche e politiche causate dalla militarizzazione con un intensificato sfruttamento dei lavoratori e con una politica interna reazionaria. La giornata lavorativa era di 11 e più ore, mentre i salari vennero diminuiti. Un’operaia tessile giapponese riceveva un salario 7 volte inferiore a quello della sua collega britannica. Aumentò anche il numero dei disoccupati. Nel periodo 1933-1935 vennero gettate in carcere 24.000 persone, accusate di “comunismo” o di simpatia per i comunisti. Nell’autunno del 1935, nelle elezioni delle rappresentanze di circondario, le due grandi organizzazioni sindacali, la Federazione del lavoro e la Lega generale dei sindacati, che contavano nelle loro file circa 100.000 aderenti, si accordarono su di un programma di unità di azione, e nel gennaio del 1936 si unificarono. Con una legge del 1933 il governò aveva stabilito prezzi fissi sul riso, acquistandone grossi quantitativi dai contadini. I contadini più poveri, costretti in autunno a vendere il riso ai bassi prezzi statali, dovevano poi acquistarlo in primavera sul mercato a prezzi elevati. Alla fine del 1934 e nella prima metà del 1935 una carestia colpì le campagne giapponesi. Nel periodo 1935-1936 i conflitti furono 2-3 volte più numerosi di quelli registrati nel periodo 1929-1933, e nel 1936 raggiunsero la cifra di 5.500. Ciò era dovuto soprattutto alla cacciata degli affittuari dalla terra, all’alto canone di affitto, agli acquisti statali di riso a prezzi fissi. Accanto ai contadini poveri partecipavano alla lotta anche quelli medi. Alla testa del movimento contadino si pose l’associazione di sinistra delle unioni dei contadini, che chiedeva la concessione di terra ai contadini e l’abrogazione delle leggi più inique. IL PUTSCH MILITARE-FASCISTA DEL 1936 Preoccupati dal crescente inasprimento della lotta di classe i gruppi dirigenti nipponici tendevano sempre più a una dittatura apertamente fascista. Uno dei gruppi militari giapponesi, il “Kodoha” (“Fazione del Cammino Imperiale”), che poggiava sui proprietari fondiari e sulle concentrazioni monopolistiche, si poneva l’obiettivo d’instaurare, mediante congiure e rivolte, un “socialismo di stato con al centro l’imperatore” e la conquista dei paesi asiatici confinanti col Giappone. Questo gruppo era formato soprattutto dai rappresentanti dei cosiddetti “giovani ufficiali”. Un’altra organizzazione militare, il “Toseiha” (“Fazione del Controllo”) riteneva necessario consolidare l’apparato statale esistente e compiere la fascistizzazione del regime monarchico senza ricorrere a congiure e rivolte. I dissensi nel campo dei militari assunsero forme assai aspre quando il ministro della guerra Hayashi, che rappresentava il “Fazione del Controllo”, attuò un’epurazione nell’esercito, esonerando dai loro incarichi molti sostenitori della “Cammino Imperiale”, i quali passarono al terrorismo aperto, finché il 12 agosto 1935 fu ucciso uno dei capi della “Fazione del Controllo”. Tuttavia le elezioni parlamentari svoltesi nel febbraio 1936 indicarono che la politica avventuristica incontrava una sempre maggiore resistenza. Tutte le organizzazioni fasciste vennero sconfitte, ottenendo solo 200.000 voti e 5 seggi in parlamento. Di fronte alla sconfitta elettorale, i “giovani ufficiali” decisero di ricorrere alla rivolta aperta per instaurare una dittatura militare-fascista capeggiata dal generale Mazaki. Il 26 febbraio, 1.500 rivoltosi occuparono vari edifici governativi e compirono una serie di atti terroristici: furono uccisi varie personalità di spicco, mentre il premier Okada riuscì a fuggire in tempo dalla sua residenza. Nonostante questo la rivolta fallì, poiché considerevoli forze dell’esercito e della marina si schierarono con la “Fazione del Controllo”. Dopo una resistenza di tre giorni i rivoltosi capitolarono: 18 capi della congiura furono fucilati e 60 “giovani ufficiali” vennero condannati a periodi più o meno lunghi di reclusione, oppure passati nella riserva o trasferiti in zone remote del paese. Dopo la liquidazione del complotto si fermò un nuovo ministero presieduto da Hirota Hirotake, strettamente legato all’ambiente militare della “Fazione del Controllo”. Si decise allora di nominare alla carica di ministro della guerra e della marina solo generali o ammiragli in servizio militare attivo, per non consentire un eventuale indebolimento del controllo dei militari sul governo. Il ministero Hirota attuò una serie di misure reazionarie: il divieto dei festeggiamenti del 1° maggio; le leggi “sul controllo della corrispondenza pericolosa” e “sul controllo delle idee pericolose”; lo scioglimento dei sindacati nelle fabbriche militari ecc. In politica estera fu continuata la preparazione diplomatica della “grande guerra”. Nel novembre 1936 il Giappone firmò con la Germania di Hitler il “patto anti-Komintern”. Alle frontiere con l’Urss e la Mongolia vennero provocati nuovi “incidenti”. All’inizio del 1937 il governo Hirota fu sostituito da quello non meno reazionario di Hayashi, che nel marzo dello stesso anno sciolse il parlamento e indisse nuove elezioni, pensando di rafforzare le proprie posizioni. Ma, contrariamente alle aspettative, le elezioni diedero una grande vittoria ai suoi avversari. Gli sforzi congiunti degli ambienti della corte e dei grandi monopoli riuscirono a formare il ministero del principe Konoe, legato sia alla “Fazione del Controllo” che ai “giovani ufficiali”. Konoe riuscì a ottenere un consolidamento provvisorio di tutti i partiti della borghesia e dei grandi proprietari fondiari, sulla base del riconoscimento del programma bellico e della conservazione delle prerogative del parlamento. La via per l’attuazione dei piani della “grande guerra” era aperta. SECONDA GUERRA SINO-GIAPPONESE 1 Il 7 luglio 1937 il Giappone militarista iniziò una nuova penetrazione nella Cina del nord, ritenendo che l’arretratezza tecnico-militare del paese, la debolezza del suo governo centrale, cui numerosi comandanti militari locali negavano obbedienza, avrebbero consentito un rapido successo entro pochi mesi. Con un esercito di 300.000 uomini i giapponesi entrarono a Tientsin e a Pechino e in molte altre città e in agosto cominciarono i combattimenti per occupare Shanghai. L’8 luglio il Partito comunista cinese invitò il popolo a partecipare alla guerra nazionale contro gli invasori giapponesi e chiedeva al Kuo Min Tang di collaborare: in cambio prometteva di sospendere la confisca delle terre dei proprietari fondiari e di porre l’Armata Rossa sotto un comando unico di tutte le forze armate della Cina. Per sollevare le condizioni di vita dei contadini si proponeva una diminuzione dei canoni d’affitto della terra e degli interessi dovuti agli usurai. Nel clima di slancio patriottico generale il Kuo Min Tang non osò respingere le proposte del partito comunista. Venne così formato il fronte unico nazionale antigiapponese, composto da elementi assai diversi per la loro origine sociale e quindi con motivazioni assai diverse per conseguire l’obiettivo finale. Nel settembre del 1937, mentre le truppe del Kuo Min Tang subivano una sconfitta dopo l’altra e abbandonavano al nemico grossi centri abitati, le forze armate popolari, dirette dai comunisti, ingaggiarono una guerra partigiana nelle retrovie del nemico, causandogli perdite consistenti. Tuttavia nel periodo novembre-dicembre 1937 le truppe giapponesi s’impadronirono nella Cina orientale di Shanghai, Nanchino e altre importanti città, anche grazie al tradimento del comando del Kuo Min Tang. Nell’ottobre 1938, nonostante la resistenza del fronte partigiano, le truppe giapponesi entrarono a Canton. Ma qui si dovettero fermare, poiché la guerra nelle retrovie giapponesi assunse un carattere di massa e nel 1938 gli effettivi avevano raggiunto i 180.000 uomini. Dal canto suo il Kuo Min Tang continuava a sperare di poter giungere a un compromesso con gli imperialisti giapponesi, ristabilendo la situazione esistente al 7 luglio 1937. Il governo del Kuo Min Tang, infatti, era disposto a lasciare nelle mani degli invasori l’intero nord-est della Cina e una parte della Cina settentrionale e, per questo motivo, Chiang Kai-shek si dichiarava disposto a iniziare trattative di pace. In due anni di guerra la Cina venne perduto un territorio enorme con importanti centri industriali e quasi l’intera rete ferroviaria. Dalla fine del 1938 la forza principale della resistenza del popolo cinese contro gli invasori giapponesi furono le armate dirette dal partito comunista e il fronte principale di guerra fu costituito dalle zone liberate nelle retrovie del nemico. L’APPOGGIO DELL’URSS ALLA LOTTA DI LIBERAZIONE NAZIONALE DEL POPOLO CINESE. LA POLITICA IMPERIALISTICA DELLE POTENZE OCCIDENTALI Nella situazione determinata dall’aggressione giapponese in Estremo Oriente acquistò una certa importanza il trattato di non aggressione firmato dall’Urss e dalla Cina il 21 agosto 1937. L’articolo 1 infatti condannava il ricorso alla guerra per risolvere le divergenze internazionali e come strumento di politica nazionale nei loro reciproci rapporti. Il governo sovietico si pronunciò anche contro i massicci bombardamenti delle città cinesi, che causavano migliaia di vittime tra i civili e nel 1938 concesse alla Cina un prestito di 100 milioni di dollari e nel 1939 un nuovo credito di 150 milioni, senza legarli ad alcuna clausola politica, né ad alcuna garanzia. Le potenze occidentali, invece, benché l’occupazione di territori cinesi da parte del Giappone fosse in contrasto con i loro interessi sia in Cina che in tutto il bacino del Pacifico, svolsero una politica d’incoraggiamento dell’aggressore, poiché consideravano il Giappone “la principale forza anticomunista” in Estremo Oriente, destinata a soffocare il movimento di liberazione nazionale in Cina e ad aggredire l’Urss. E così, dopo l’aggressione del Giappone alla Cina, gli Stati Uniti dichiararono ch’essi assumevano “un atteggiamento amichevole, imparziale”, e non intendevano dichiarare il Giappone responsabile dello scatenamento della guerra in Cina. Un atteggiamento simile assunse anche il governo britannico. La violazione da parte del Giappone del trattato di Washington delle nove potenze, del “patto Briand-Kellogg” e di altri trattati internazionali non incontrò la necessaria opposizione, nemmeno da parte della Società delle Nazioni. La discussione del conflitto sino-giapponese in seno alla Società si limitò alla decisione di sottoporre il problema all’esame di una conferenza delle potenze firmatarie del trattato di Washington del 1922. Ai primi di novembre del 1937 si aprì a Bruxelles la conferenza delle potenze firmatarie del trattato di Washington per discutere la situazione creatasi in Estremo Oriente. Il Giappone e la Germania rifiutarono di partecipare alla conferenza. Benché l’Urss non avesse firmato il trattato di Washington, essa inviò una propria delegazione allo scopo di difendere gli interessi del popolo cinese. La delegazione cinese chiese che la conferenza di Bruxelles decidesse sanzioni economiche contro l’aggressore e offrisse aiuto alla Cina. Quella sovietica appoggiò queste richieste in base all’articolo 16 dello statuto della Società delle Nazioni. Le sanzioni economiche da parte delle potenze aderenti alla Società delle Nazioni nei confronti del Giappone potevano essere una misura valida per fermare l’aggressore, dato che la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Cina (senza la Manciuria), l’Olanda, l’Indonesia, la Francia, l’Indocina fornivano al Giappone circa i tre quarti del suo fabbisogno di materie prime. Il Giappone dipendeva quasi completamente dalle importazioni dalla Gran Bretagna, dagli Stati Uniti e dall’Olanda per materie prime importantissime dal punto di vista strategico-militare, quali il ferro, il piombo, lo stagno, il manganese. Ma la proposta delle sanzioni non fu appoggiata dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. Il delegato italiano, che alla conferenza si fece portavoce delle potenze dell’Asse, approvò addirittura l’aggressione giapponese. In sostanza la conferenza di Bruxelles (che si chiuse il 24 novembre 1937) si limitò ad approvare alcune dichiarazioni verbali, nelle quali si affermava che le azioni del Giappone in Cina contrastavano con trattato di Washington delle nove potenze e si chiedeva al Giappone di cessare le operazioni militari, senza però prendere misure di alcun genere contro l’aggressore. Anzi, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna continuarono anche in seguito a prestare aiuti ai militaristi giapponesi. Nel 1938 il Giappone ottenne dagli Stati Uniti prestiti e crediti per 125 milioni di dollari, una grande quantità di macchine utensili, di attrezzature militari e di armamenti. La Gran Bretagna aiutò il Giappone nei trasporti dei carichi militari in Cina, diventando il suo secondo fornitore di materiali strategici. I banchieri britannici parteciparono al finanziamento delle operazioni militari del Giappone, insieme alla Germania e all’Italia. Fonte: www.scribd.com/doc/91757830/Storia-Universale-IX Accademia delle Scienze dell'URSS, Storia universale, vol IX, Teti Editore, Milano, 1975 1 La prima guerra sino-giapponese (1894-1895) venne combattuta tra la dinastia Qing cinese e l'Impero Giapponese del periodo Meiji per il controllo della Corea. La guerra, perduta dalla Cina, diventò il simbolo del disfacimento irreversibile della dinastia Qing e la dimostrazione del successo dell'occidentalizzazione e modernizzazione del Giappone ad opera del Rinnovamento Meiji. La principale conseguenza fu lo spostamento del dominio regionale in Asia dalla Cina al Giappone. La vittoria del Giappone incoraggiò le richieste imperialistiche sulla dinastia Qing da parte di altre potenze occidentali. Poco dopo la guerra Sun Yat-sen fondò il movimento rivoluzionario repubblicano che nel futuro sarebbe diventato il partito politico del Kuomintang. |