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STEREOTIPI DEI MANUALI DI STORIA ANTICA
a vantaggio di chi le rivoluzioni agricole e urbane?
I -
II
 C. SCARPARO, PAGINE DI STORIA, Edidue, Torino 2010
- Secondo l'autore il Neolitico va dall'8000 al 3000 a.C., ma non spiega
perché nasca nella "Mezzaluna fertile".
- Bene fa a parlare di "famiglia nucleare" solo in riferimento alla
moderna società industriale, in quanto in precedenza prevalse la famiglia
clanica o patriarcale. Suo capo indiscusso era il genitore maschio più
anziano.
Poi però aggiunge, en passant, che può essere esistito anche il
matriarcato, ancora diffuso presso alcune tribù indigene dell'Oceania.
Infine precisa che accanto alla monogamia è esistita nel passato anche la
poligamia, senza però dare alcuna spiegazione di questa diversità di
comportamento.
- Interessante l'osservazione secondo cui la tradizionale divisione del
lavoro, ammessa da tutti gli studiosi, che vede negli uomini dei cacciatori
e nelle donne delle raccoglitrici di frutti bacche radici, relativamente al
Paleolitico, va messa in discussione, poiché non può avere valore quando in
gioco vi erano animali di piccola taglia.
Quella divisione probabilmente subentrò quando l'Homo erectus si diffuse
dall'Africa al continente euroasiatico, dove, abitando zone più fredde, era
costretto a cibarsi di animali più grossi, utilizzando anche le loro
pellicce per coprirsi. Questo benché sia da escludere che l'emigrazione
dall'Africa sia avvenuta durante una glaciazione. Il cambiamento di
abitudini, relativo alla divisione del lavoro, nell'Homo erectus, dev'essere
avvenuto quando in Europa, dopo un periodo di elevata temperatura, si formò
una glaciazione.
- L'autore espone le cose più in maniera fenomenologica che
storica, in quanto non le collega a delle motivazioni socio-economiche o
culturali. Tuttavia ha giustamente evitato di parlare di "schiavismo" in
epoca neolitica, anche se poi, facendo nascere Uruk (Mesopotamia) nel 3500
a.C., la prima città schiavista della storia, ha sbagliato a porre come data
ultima del Neolitico il 3000 a.C.
V. CALVANI, IMPEGNO E MEMORIA, A. Mondadori Scuola, Milano
2010
- Per la Calvani il Neolitico inizia verso il 9000 a.C., ma non spiega
perché proprio nella "Mezzaluna fertile".
- Incredibilmente ritiene che la famiglia paleolitica
(cacciatori/raccoglitrici) fosse di tipo "nucleare" e che divenne "estesa"
solo quando si costruirono i primi villaggi.
Non spiega il processo che ha portato la famiglia estesa a diventare
patriarcale ("totalmente sottomessa al patriarca"), e lascia
quindi credere che fosse nata naturalmente così.
Secondo la Calvani l'uguaglianza dei sessi poteva esserci solo nella
famiglia nucleare del Paleolitico, poiché a quel tempo non ci volevano
"molte braccia" per nutrirsi, come quando invece esistono allevamenti e campi
agricoli.
Questa analisi è completamente sbagliata, sia perché nel Paleolitico la
famiglia nucleare, che è concetto "borghese", non è mai esistita, sia perché
la disuguaglianza dei sessi non dipende dal fatto che dalla caccia si fosse
passati all'allevamento o dalla raccolta dei frutti all'agricoltura.
Occorrono ben altri fattori, che sono tipicamente culturali (a quel tempo di
natura religiosa).
Inoltre il patriarcato non nasce solo perché si era passati da un'economia
di prelievo a una produttiva.
- Ancora più incredibile è quest'altra affermazione, che introduce
inaspettatamente una categoria che nel testo non era mai stata citata prima:
gli schiavi, della quale non viene data una spiegazione propriamente storica
bensì sociologica. Il patriarca "acquistò potere di vita e di morte
sulle sue numerose mogli, i numerosissimi figli, i parenti acquisiti e gli
'schiavi domestici' (i senza-famiglia, cioè orfani, vedove, gente sgradita
in altri villaggi, che venivano accolti in cambio del lavoro che
fornivano)".
E' dunque evidente che la Calvani, nel capitolo dedicato al Neolitico, sta
usando una terminologia che dovrebbe in realtà essere applicata alle prime
civiltà urbane e schiavistiche. Introduce il termine di "schiavo domestico"
come se nel Neolitico fosse del tutto naturale "sfruttare il lavoro altrui".
Attribuisce la disparità tra uomo e donna al patriarcato, senza rendersi
conto che lo stesso patriarcato era frutto di una disparità tra uomo e
uomo, quella che farà poi nascere, accanto al patriarcato, anche lo
schiavismo e la monarchia.
- L'ultimo aspetto da sottolineare è l'attribuzione certa che l'autrice fa
del Diluvio universale, di cui si parla nella Bibbia, a una data
relativamente precisa: il 6300 a.C., che è quella in cui l'agricoltura si
diffuse dalla "Mezzaluna fertile" all'Europa, passando per l'odierna pianura
ungherese.
Secondo lei (o meglio, secondo le fonti di cui si avvale) l'innalzamento
della temperatura terrestre fece collassare un gigantesco ghiacciaio nel
Nordamerica, che alzò di 1,5 metri il livello degli oceani e dei mari
interni, come p.es. il Mediterraneo. Nel sud-est dell'Europa l'acqua ricoprì
75.000 kmq di spiagge, per un periodo di oltre mezzo secolo. Le acque
addirittura sfondarono lo sbarramento che allora separava l'Asia
dall'Europa, creando il Bosforo e trasformando quello che allora era un lago
nell'attuale Mar Nero. Chi sfuggì a questo immane disastro, portò
l'agricoltura in Europa.
Qui le domande da porsi sono le seguenti:
- non si comprende - visto che le glaciazioni non hanno mai valicato le Alpi
- perché nell'Europa meridionale l'agricoltura non potesse svilupparsi
spontaneamente come in Mesopotamia e nel Vicino oriente;
- avendo fatto iniziare il Neolitico, e quindi l'agricoltura, nel 9000 a.C.,
non si capisce perché gli europei, dopo 3000 anni di storia (stando al
Diluvio del 6300 a.C.), ancora non avessero appreso come piantare un seme.
La "Mezzaluna fertile" era una zona che andava dal Tigri-Eufrate al Nilo:
sarebbe stato impossibile per un europeo non accorgersi di questa nuova
economia produttiva;
- il racconto biblico del Diluvio universale, che riprende analoghi racconti
mesopotamici, al massimo può risalire (come scrittura e come fatti cui si
riferisce) a 2000-2300 anni a.C.: nessuno poteva avere memoria di eventi
successi ben 4000 anni prima;
- il racconto del Diluvio è chiaramente ambientato in epoca schiavistica e
non neolitica;
- il Diluvio può essere stato originato non dalla casualità di un iceberg
staccatosi dalla calotta artica, ma dalle massicce deforestazioni operate
sin dagli albori delle civiltà schiavistiche (presenti anche in Cina, India,
Mesoamerica...) e che procurarono ampie desertificazioni, che sicuramente
sconvolsero gli equilibri climatici e in maniera irreversibile;
- non fu l'agricoltura in sé a provocare i disboscamenti, ma l'uso
dell'agricoltura per affermare una sorta di potere personale,
esclusivistico, da parte di un gruppo sociale sull'intera comunità.
G. GENTILE, L. RONGA, A. ROSSI, SCENARI DEL TEMPO, ed. La
Scuola, Brescia 2010
- In una paginetta gli autori demoliscono il mito secondo cui nella
preistoria si stava meglio che oggi. E offrono numerose motivazioni:
- la vita media era di trent'anni circa, in quanto non sono quasi mai stati
trovati scheletri di persone anziane [come se per stabilire l'età di persone
di milioni di anni fa o addirittura le loro condizioni di vita, sia
sufficiente riferirsi ai loro scheletri, quando persino la sepoltura è
acquisizione relativamente recente, che in genere si fa risalire al solo
Neanderthal];
- la natalità era molto elevata: circa otto figli per donna [da notare che
questo aspetto viene considerato particolarmente negativo, ed è strano che
ciò venga detto in un manuale che, stando alla casa editrice, si presume sia
ad orientamento cattolico];
- la mortalità infantile era molto elevata a causa delle malattie e della
fame [come se gli uomini primitivi non avessero conoscenza delle proprietà
terapiche delle erbe! come se la fame non riguardasse proprio le comunità
preoccupate di conservare le eccedenze dei loro prodotti! come se queste
eccedenze non venissero
usate, in queste società, come arma di ricatto nei confronti delle classi
più deboli!]; - una vita di caccia, pesca e raccolta non offriva una giusta quantità di
calorie e vitamine [chissà dunque perché per milioni di anni gli uomini sono
riusciti tranquillamente a sopravvivere e anzi a diffondersi in tutto il
pianeta]; - la costituzione fisica era gracile perché condizionata da difficili
condizioni climatiche: grotte umide, capanne fatiscenti ecc. [eppure gli
spagnoli rimasero positivamente stupefatti nel 1492 osservando la
corporatura della prima tribù che incontrarono e ancora oggi è sufficiente
mettere a confronto la costituzione fisica degli individui provenienti
dall'Africa sub-sahariana, con quella di un qualunque bianco europeo, per accorgersi
di chi sia messo meglio]; - batteri e parassiti provocavano all'uomo primitivo numerose malattie
contro cui non poteva far nulla [come se l'evoluzione del genere umano non
abbia fatto nascere nuovi batteri e parassiti e nuovi virus patogeni, nei
cui confronti le medicine sono sempre meno efficaci!]; - l'alimentazione a base di cereali, pestati con pietre che lasciavano nella
farina numerosi frammenti, unitamente al fatto ch'essi contengono zuccheri,
fece apparire i primi denti cariati già 20000 anni fa [incredibile che
in un periodo in cui l'uso dei cereali non poteva certo
essere abbondante, visto che l'agricoltura quanto meno è di diecimila anni
dopo, l'alimentazione fosse così devastante per i denti degli esseri umani]; - le donne avevano deformazioni alla colonna vertebrale e in altre ossa,
perché sfregavano i cereali, per ottenere farine, stando chine sulle pietre
della macina [ma se questa attività era tipica dell'agricoltura irrigua, non
ci volle molto per sostituire la donna con un animale e la semplice pietra
con una ruota]; - i tumori, specie quello alla mammella, esistono da milioni di anni
[questo per dire che si sta meglio oggi, visto che l'intero pianeta ha a disposizione
igiene e medicina, prevenzione e sicurezza]; - la scarsità di cibo costringeva continuamente a una vita nomade [dunque la
fame esisteva, per questi autori, anche in presenza di un pianeta ricoperto
di foreste e di animali!].
Ma forse più che queste amenità, dal sapore quanto meno ideologico (1), sono
incredibili ben altre affermazioni:
- le prime città vengono fatte risalire addirittura all'8000 a.C.,
considerando Gerico non un'eccezione, ma la regola, tant'è che non si ha
dubbi nel sostenere, pur non potendolo dimostrare, che i villaggi più grandi
presenti nel Medio oriente 10000 anni fa erano, per le loro caratteristiche,
delle città vere e proprie.
- Oltre a Gerico viene citata Çatal Hüyük, fondata nella pianura di Konya
(attuale Turchia centro-meridionale), scoperta nel 1958. Fondata tra l'VIII
e il VII millennio a.C., era in grado di ospitare più di 5000 persone.
Infine si cita la siriana Ebla, un villaggio che diventò un'importante città
nel III millennio.
Ora, se città come Gerico e Çatal Hüyük fossero state la regola, ne avremmo
sicuramente trovate molte di più, al punto che dovremmo arrivare a dire che
la prima vera urbanizzazione non si verificò in Mesopotamia, bensì nel
Mediterraneo orientale. Ma, supponendo anche che ve ne fossero state molte
altre, perché sono tutte scomparse? Se fossero state distrutte da altre
città, dove sono le rovine di quest'ultime? Se al tempo di Ebla certamente
una città non era più un'eccezione, che dire dei tempi di Gerico e di Çatal
Hüyük?
A leggere quanto dice la Bibbia su Gerico, si deduce che la sua distruzione
sia stata provocata non da altre città ma da popolazioni non urbanizzate,
tra le quali appunto quella ebraica uscita dall'Egitto, guidata nel deserto
da Giosuè, che fece sì fuori altre città, ma certamente non 8000 anni fa.
Riguardo a Gerico Giosuè si servì, per occuparla, di quegli elementi
marginali che sempre si trovavano in relazione oppositiva allo sviluppo
della città stessa. Non esiste città che non sia caratterizzata da marcate
differenze di ceto o di classe, dalla presenza di categorie improduttive
(come i militari, i burocrati, il clero, i funzionari statali, gli scribi),
preposte al controllo dei ceti produttivi e subordinati.
"Neolitico" di per sé non vuol dire "schiavismo", ma certamente "schiavismo"
vuol dire "civiltà urbanizzata". Gerico e Çatal Hüyük non erano un villaggio
ingrandito né un insieme di villaggi, ma città vere e proprie, e quindi, in
un certo senso, erano la morte del villaggio tradizionale, che però restava
allora assolutamente predominante, almeno sino a quando le città non si
trasformarono in "regni". Il villaggio è spontaneo e informale, basato su
regole non scritte e sulla tradizione orale; la città invece è coercitiva e
molto formalizzata, vocata all'occupazione di territori altrui.
- Se si fa risalire il Neolitico all'VIII millennio, dicendo che il
passaggio dalla caccia all'allevamento o dalla raccolta all'agricoltura
comportò, quasi automaticamente, anche l'edificazione di città, con tanto di
mura fortificate, di lavori specializzati, di scambi commerciali ecc., non
ci si capisce più nulla, semplicemente perché si finisce col parlare di
"schiavismo" senza averlo detto.
Resta inspiegabile un atteggiamento così unilaterale, anche perché, ad un
certo punto, gli autori di questo manuale, per motivare il passaggio dal
Paleolitico al Neolitico, si sono sentiti in dovere di ammettere che le
spiegazioni, a tutt'oggi, restano scarsamente documentate. "Non sappiamo con
precisione perché ciò avvenne", nel senso che le ipotesi interpretative sul
tappeto restano solo due: "un deciso cambiamento di clima", "un aumento
della popolazione che provocò una maggiore richiesta di cibo", che sono le
due tesi borghesi principali con cui si cerca di giustificare qualunque
prassi sociale di tipo antagonistico.
Solo che, detto così, si induce a credere che il passaggio dal comunismo
primitivo allo schiavismo avvenne per cause di forza maggiore, senza
soluzione di continuità, in maniera del tutto indipendente dalla volontà
umana: la natura, ad un certo punto, per motivi insondabili, obbligò gli
uomini a non essere più se stessi.
La superficialità di questi ragionamenti è sconcertante, specie in un
manuale di storia. Gli autori sono persino arrivati a dire che i mutamenti
climatici provocarono spontaneamente la nascita del deserto del Sahara,
quando in realtà è impossibile escludere l'idea che la nascita dei deserti
di tutto il mondo sia avvenuta proprio perché la loro deforestazione fu
causata dalle limitrofe civiltà schiavistiche.
A. BRANCATI, T. PAGLIARANI, LE VOCI DELLA STORIA, ed. La
Nuova Italia, Firenze 2010
- Più equilibrato è il testo di Brancati-Pagliarani. Anzitutto perché
quando parla di "matriarcato paleolitico", evita di fare comparazioni col
"patriarcato", nel senso che se in quest'ultimo l'affermazione di un potere
personale appare alquanto esplicita, nel matriarcato invece si trattava
soltanto di non nascondersi una diversità di funzioni, che gli uomini,
peraltro, non si permettevano certo di sottovalutare, anche perché se era
importante la caccia e la raccolta, non meno importante era la riproduzione
della specie (riproduzione in tutti i sensi:
biologico e sociale, mediante integrazione supplementare del cibo tratto dalla
caccia, nonché l'allevamento della prole e la cura delle malattie, essendo le donne esperte da sempre di
piante medicinali).
- Gli autori del manuale capiscono bene la differenza tra "villaggio" e "città";
infatti non vedono contraddizione tra "villaggio" e "baratto" (lo scambio
delle eccedenze). Il commercio di per sé non implica lo schiavismo, ma
quando c'è schiavismo c'è sempre, nell'attività commerciale, il primato del
valore di scambio su quello d'uso.
- Interessante che si ammetta che i villaggi paleolitici non superavano il
migliaio di abitanti, mentre quelli neolitici erano molto più estesi.
L'interesse sta nel fatto che non è raro incontrare dei testi che parlano,
relativamente al Paleolitico, di gruppi di 50-100 persone al massimo.
- Il testo fa una distinzione significativa tra "orda" paleolitica
e "clan" e "tribù" neolitiche. Si sostiene la tesi che l'orda fosse un
"raggruppamento temporaneo di un certo numero di persone sottoposte al
comando di un uomo molto forte e abile". Ma per quale motivo il gruppo dobbiamo considerarlo "temporaneo"? Perché viene
detto che era sottoposto a qualcuno "abile e forte"? In quali occasioni si
rinunciava alla "democrazia" (così tipica di questo periodo)? Certamente non
in caso di guerra: non se ne ha notizia sino al momento in cui non si
formano le civiltà schiavistiche. In caso di caccia o di migrazione? Ma in
questi casi sarebbe banale sottolinearlo, in quanto la temporaneità
sarebbe stata troppo "irrisoria" per essere davvero significativa per gli
sviluppi ulteriori dell'orda.
L'orda in realtà può essere esistita proprio perché prescindeva dai legami
familiari, che sono peculiari del "clan", il quale li usava
proprio per contrapporsi ad altri
clan, introducendo elementi di aristocraticismo.
La tribù tuttavia non può essere un prodotto derivato da un insieme di clan
che stipulano un contratto tra loro. Questo è un modo "occidentale" di
guardare le cose: ci si mette insieme perché da soli si è più deboli. Semmai
anzi può essere vero il contrario, e cioè che i clan si sono formati
all'interno di una tribù primitiva proprio allo scopo d'indebolirne la
compattezza (come oggi le correnti dentro i partiti politici).
Noi dovremmo dare per scontato, nello studio della preistoria, che la cosa
più naturale, per l'uomo primitivo, era quella di vivere in una tribù dove
gli aspetti della collettivizzazione avevano una netta prevalenza
rispetto a quelli di parentela. La formazione di un clan, per non parlare
dell'esperienza dell'individuo singolo, che persino oggi è assurda, per
quanto i mezzi dell'autoaffermazione siano molteplici, sarebbe stata una
scelta autolesionista nei rapporti con la natura. Un clan poteva staccarsi
dalla tribù solo quando era relativamente sicuro di potercela fare da solo.
Se invece si vuol parlare di "clan pacifici" all'interno di una tribù, si
deve necessariamente pensare che, pur nelle distinzioni parentali, essi, se
volevano salvaguardare l'unità tribale, non potevano certo perdere di vista gli interessi del "bene comune". In ogni caso se un
clan inizia a staccarsi da una tribù e a gestirsi in autonomia, costruendo
uno stile di vita molto diverso da quello precedente, è facile che lo stesso
clan, trasformatosi, eventualmente in associazione con altri clan, in una
struttura di tipo urbana, arrivi a minacciare la sicurezza della stessa
tribù.
Questo per dire che la formazione di una città non è detto che sia avvenuta
per opera di una tribù, solo perché più numerosa di un clan. Non dobbiamo
infatti dimenticare che l'idea stessa di una città-stato presume
rapporti conflittuali già al proprio interno, in forza dei quali vengono del
tutto scardinati i tradizionali equilibri tribali. E il peso di questi
conflitti viene immancabilmente trasferito sulle spalle delle popolazioni
limitrofe.
Se noi pensiamo che esista una linea evolutiva tra orda, clan,
tribù e città-stato, siamo completamente fuori strada, anche
perché saremmo costretti ad affermare cose indimostrabili e anche poco
comprensibili, come p.es. che l'orda fosse un gruppo di persone che
"spontaneamente" si sottoponeva a un capo "forte e abile", cosa che invece è
tipica delle società antagonistiche, dove però la sottomissione non è
spontanea ma obbligata da una qualche forza coercitiva.
- Gli autori di questo manuale fanno nascere i conflitti tra le tribù del
Neolitico per il controllo delle risorse, chiamando in causa una motivazione
poco convincente: non usando a quel tempo
i concimi, i terreni diventavano ben presto improduttivi. Col che si dà per
scontato che l'agricoltura fosse la fonte primaria dell'alimentazione,
quando invece sappiamo che per tutto il Neolitico, essa, a parte la zona
paludosa della cosiddetta "Mezzaluna" (divenuta "fertile" per opera
dell'uomo, benché Brancati e Pagliarani sostengano il contrario), costituiva
soltanto un aspetto integrativo della caccia, della pesca e
dell'allevamento.
Quando l'agricoltura tende a diventare prevalente, le altre risorse si
marginalizzano (caccia, pesca, raccolta di frutti spontanei) o addirittura
vengono a confliggere (allevamento), in quanto bisognose di ampi spazi
aperti, liberi, non recintati, privi di fossati, sicuramente non coltivati.
Quindi parlare di "conflitti intertribali" per il controllo delle risorse è,
propriamente parlando, una sciocchezza, poiché quando il controllo diventa
un problema, non è più tra tribù, ma tra queste e le città-stato. Infatti se
non può esserci una città-stato senza un'organizzazione razionale della
coltivazione rurale (con cui sostenere i ceti improduttivi), può benissimo
esserci un'organizzazione del genere senza alcuna città-stato. E' più
normale pensare a un conflitto fra tribù e città-stato che non fra tribù,
anche perché le esigenze di una tribù non sono mai così grandi da impedire a
un'altra tribù di sopravvivere. Invece quelle di una città sono sempre di
molto superiori a quelle relative alla mera sopravvivenza: ecco perché una
qualunque città è perennemente in conflitto con le città e le tribù confinanti.
In genere i conflitti di tipo bellico sono sempre fra città-stato, anche se
l'espandersi progressivo e colonialistico di una città-stato giunge ben
presto a confliggere con tribù non solo stanziali ma anche nomadiche. Per
poter realizzare la transizione dalla tribù alla città, occorrono condizioni
molto particolari, situazioni ambientali molto critiche, rotture traumatiche
con tradizioni consolidate, espulsioni degli elementi disgregatori sul piano
sociale, perdita di senso del collettivo, uso mistificatorio del linguaggio,
falsificazione della memoria ancestrale, sviluppo alienante di strumenti
consolatori (come p.es. la religione, il teatro, i giochi...), culto della
personalità ecc.
Quando p.es. si definisce il "patriarcato" come una forma di società in cui
l'uso della forza veniva interpretato per sottomettere la donna, e si fa
risalire questa società al Neolitico, si dimentica di dire che anche prima
del patriarcato la donna era consapevole che l'uomo possedeva una forza
superiore alla sua, ma che non per questo lei se ne sentiva succube, né
l'uomo la usava come strumento di dominio. I passaggi da una società
all'altra spesso avvengono quando, pur in presenza di medesime azioni, si
cominciano a dare spiegazioni diverse.
Quindi se si vuol parlare di patriarcato in questi termini, si eviti almeno
di farlo risalire a tutto il Neolitico e si dica espressamente che l'uso strumentale
della propria forza fisica come occasione per rivendicare una posizione
egemonica sulla parte debole del collettivo, rifletteva, già di per sé, la
presenza di rapporti conflittuali tra uomo e uomo, tipici delle società
schiavistiche (a prescindere dal loro tasso di schiavizzazione).
Lo schiavismo non è nato dalla sottomissione della donna da parte dell'uomo,
ma dalla sottomissione dell'uomo da parte dell'uomo. E in ciò, prima che la
questione "fisica" giocasse un ruolo rilevante, deve per forza essere
intervenuta una questione "mentale". Semplificando si potrebbe dire che lo
schiavismo è nato quando un uomo forte è divenuto debole a causa di un
inganno, coperto da una illusione (prevalentemente di tipo religioso), la
cui accettazione ha avuto conseguenze imprevedibili e, per molti versi,
irreversibili. Il miraggio non s'è trasformato in realtà ma in incubo.
Ecco perché quando si fa storia, bisogna introdurre elementi di filosofia,
proprio per evitare che le spiegazioni dei fatti assumano un tono
deterministico che toglie ai soggetti umani la facoltà di scelta, l'esigenza
di un protagonismo attivo. Dire p.es. che le città-stato, la cui popolazione
era "suddivisa in classi", si sono formate in seguito all'unione spontanea
dei villaggi più grandi, dediti all'agricoltura e all'allevamento, è una
sciocchezza troppo grande per poter avere qualche barlume di verità.
Né l'agricoltura di per sé, né l'allevamento possono aver fatto nascere le
discriminazioni sociali o i conflitti di classe. A uno studente non si può
spiegare un percorso evolutivo fatto passare per "naturalistico", senza
ipotizzargli delle strade alternative. Non gli si può far credere che lo
schiavismo sia stato uno sbocco inevitabile del Neolitico, poiché, così
facendo, avrà l'impressione che la società in cui egli vive sia una
conseguenza non meno inevitabile di quella feudale.
- E' profondamente scorretto affermare, solo perché le città-stato
somigliano da vicino al nostro attuale sistema di vita, ch'esse
costituiscono "la maggiore eredità che i popoli antichi ci hanno lasciato".
Potremmo anche dire che tra le maggiori eredità del passato, esse sono state
la "peggiore", perché quella più socialmente conflittuale e quella più
devastante nei confronti della natura. Non è possibile, con un'affermazione
così unilaterale, far sprofondare nel dimenticatoio tutte quelle popolazioni
antiche che hanno resistito a trasformarsi in organizzazioni urbane.
Per trovare affermazioni più equilibrate, in questo manuale, bisogna andarle
a leggere in riquadri aggiuntivi, inseriti quasi per colmare spazi vuoti,
come p.es. quello dedicato al tema della "civiltà", in cui giustamente si
sostiene che "per molti secoli 'la' civiltà per eccellenza è stata quella
cristiana occidentale, che si è assunta arbitrariamente il diritto di
civilizzare gli 'altri' popoli, considerati incivili. Dal XIX e,
soprattutto, dal XX secolo s'inizia invece a usare il plurale, 'le'
civiltà... esistono tanti modi diversi per organizzare la vita sociale,
ognuno con una propria dignità e coerenza".
Peccato che a queste "sante parole" non si sia riusciti a dare, nella
trattazione dell'argomento, uno svolgimento conseguente.
P. AZIANI, M. MAZZI, RETE STORIA, ed. Clio, Milano 2010
- I due autori sostengono che l'agricoltura, tra il 9000 e il 5000 a.C.,
si diffuse nella "Mezzaluna fertile" perché qui i grandi fiumi la favorivano
in maniera naturale. E tuttavia, rendendosi conto dell'incongruenza in cui
si è costretti a cadere, costatando che nei due milioni di anni precedenti a
nessuno venne in mente di piantare anche un solo seme in una zona così
adatta all'agricoltura, essi preferiscono, subito dopo, precisare che in
realtà questa zona non era affatto fertile, anzi era molto arida, tant'è che
per realizzare l'agricoltura si dovette prima scendere dalle alture e
iniziare a provvedere alla bonifica con opere di drenaggio.
Infatti, con le piene regolari dei fiumi, quelle zone erano molto
acquitrinose, melmose, più adatte a essere percorse su imbarcazioni che a
piedi. Una situazione - come si può facilmente notare - non molto diversa da
quella del Po padano, che infatti, grazie alle sue inondazioni e
all'intervento antropico, trasformò quella che un tempo era una palude piena
di uccelli migratori, rane e zanzare (con tanto di malaria), in una delle
pianure più fertili d'Europa. Dunque le civiltà urbanizzate, schiavistiche non sono
nate dove si stava meglio (cioè nelle foreste), ma dove si stava peggio.
- L'agricoltura si diffuse in Europa continentale nel 4000 a.C., cioè
alcuni millenni dopo quella del Vicino e Medio oriente, e fu subito guerra tra
agricoltori e allevatori e cacciatori. Gli autori però non spiegano perché i
terreni fossero poco adatti alla coltivazione. Se fosse stato per la
presenza massiccia di foreste, non si spiegherebbe il conflitto tra
agricoltori e cacciatori (peraltro la popolazione mondiale a quel tempo
probabilmente non superava i sei milioni di abitanti).
Semmai i conflitti possono esserci stati tra allevatori e agricoltori (come
documenta p.es. il mito di Romolo e Remo), ma certamente, in presenza di
molte foreste, è impossibile pensare a una nutrita presenza di allevatori.
- Su una cosa invece sarebbe valsa la pena soffermarsi. Per quale motivo
in Europa occidentale l'introduzione dell'agricoltura creò subito aspre
situazioni conflittuali? Ciò probabilmente fu dovuto al fatto che quando
s'importarono le tecniche rurali più avanzate dal Vicino e Medio oriente,
gli europei importarono anche le tensioni tipiche delle economie
antagonistiche, correlate proprio a un certo modo di gestire le eccedenze
agricole. Gli europei non ebbero bisogno di ripercorrere il lungo e faticoso
iter delle antiche civiltà egizie e mesopotamiche (come nel XX secolo Cina e
Giappone non hanno avuto bisogno di ripercorre i cinquecento anni di
rivoluzione borghese europea).
- Secondo gli autori l'agricoltura fu inventata per sopperire alle
esigenze della fame. Infatti "le popolazioni che vivono di caccia e di
raccolta sono in genere piuttosto magre", non avendo cibo in abbondanza (le
eccedenze appunto).
Grazie a questa tesi molto disinvolta, gli autori ottengono un duplice
risultato:
- dimostrano che il Paleolitico andava necessariamente superato dal
Neolitico;
- dimostrano che il Neolitico è stato importante perché ha saputo porre le
basi della nostra civiltà, che va considerata la migliore possibile (benché
ancora oggi vi siano oltre 800 milioni di persone denutrite).
- Strano però che gli autori di questo libro di testo non arrivino a dire
che l'uso del rame fu un progresso indiscutibile per le prime
civiltà: "un'ascia o una falce di rame - così scrivono - sono troppo tenere
e occorre affilarle continuamente"; dopodiché aggiungono che gli oggetti di
rame erano di lusso e di scarsa utilità pratica. La stranezza però si spiega
col fatto ch'essi non sono interessati a far conoscere l'uso domestico
degli oggetti di rame, quanto piuttosto l'uso bellico. Ecco perché il
metallo a cui sono maggiormente interessati è il bronzo, con cui i
ricchi potevano permettersi il lusso di forgiare le loro armi, mentre gli
attrezzi dei contadini continuavano a restare di pietra (ma perché di sola
"pietra" quando i raccoglitori, sin dal Paleolitico, conoscevano il bastone
da scavo, quello stesso bastone che verrà poi trasformato in aratro trainato
da animali?).
- La preoccupazione degli autori è in realtà un'altra: dimostrare che per
arrivare alle città-stato occorrevano assolutamente il bronzo per la guerra,
le eccedenze agricole gestite da funzionari statali, la ruota e la vela per
gli scambi commerciali, la divisione del lavoro per rendere costosi i
prodotti artigianali e la famiglia patriarcale. Non c'è altro. Tutto procede
in maniera regolare e uniforme verso il meglio.
GIOVANNA DEL BELLO, DAL PASSATO AL PRESENTE, ed. Il Capitello,
Torino 2010
- La Delbello è l'unica a dire che la parola "Neolitico" è stata
introdotta dagli storici verso la metà dell'Ottocento per indicare quella
recente preistoria compresa tra l'8000 e il 3000 a.C., in riferimento alla
"levigazione" della pietra, e che solo 70 anni fa si cominciò a usare il
concetto di "rivoluzione neolitica", indicando la transizione da un'economia
di prelievo a una produttiva.
L'autrice però, insieme a tutti gli altri storici della preistoria,
dovrebbe fare un ulteriore passo in avanti, precisando la differenza
tra economia produttiva con e senza schiavismo, in quanto, se non si fa
questa differenza, non si comprende il passaggio dal Neolitico alle civiltà
urbanizzate e si deve per forza considerare un qualunque intervento
antropico sulla natura una forma di destabilizzazione per il
comunismo primitivo. Il che può non essere vero.
- Ora, siccome il futuro dell'umanità, se vorrà uscire dall'antagonismo
individualistico che la uccide, dovrà per forza votarsi al recupero di tutte
le forme collettivistiche e umanistiche del passato, è sin da adesso
importante sapere se possiamo recuperare qualcosa del Neolitico o se
dobbiamo volgere decisamente la nostra attenzione al solo Paleolitico.
Dobbiamo cioè cercare di capire se la stanzialità è in sé un rischio da
evitare per poter salvaguardare l'umanità che è in noi, ovvero che la
stanzialità è solo una delle nostre dimensioni esistenziali, che non
può contraddire quella, non meno importante, del nomadismo migratorio (che
oggi invece releghiamo al nostro tempo libero, spesso riproducendo le stesse
forme di alienazione che ci illudiamo di aver lasciato nelle nostre città),
o se invece dobbiamo accettare l'idea che per salvaguardare l'istanza di
umanità è del tutto irrilevante vivere la dimensione stanziale o nomadica.
Se l'uomo fosse perennemente nomade, la vita sarebbe errabonda, senza
radici, come certi animali randagi, e porterebbe all'indifferenza dei
valori: ci farebbe assumere atteggiamenti vittimistici, da perseguitati o,
al contrario, c'indurrebbe a credere d'essere, solo per questo, le uniche
persone libere del pianeta; ma se la vita fosse solo stanziale, la mente si
chiuderebbe al diverso, all'alterità e comincerebbe ad assumere
atteggiamenti assolutistici, separatistici, esclusivistici, si
trasformerebbe in un gigantesco egoismo collettivo.
- E' grave che in un testo di storia non vengano fatte domande di questo
genere alle nuove generazioni; è grave che si prospetti loro, come unico
scenario del loro futuro, la prosecuzione, eventualmente in forme ancora più
tecnologizzate in senso eco-compatibile, dell'attuale sistema di vita
capitalistico (come se il miglioramento della tecnologia fosse di per sé
sicura garanzia per le sorti dell'ambiente).
Non c'è nessun libro di testo che guardi il passato pensando di
"storicizzare" il presente. Il presente anzi viene "naturalizzato" e quindi
"eternizzato"; la "mutevolezza" appartiene solo al passato, mentre il
futuro, contro ogni regola evoluzionistica, che pur si decanta quando si
parla del passato (quel passato che deve portare a noi), è un futuro che non
esiste, se pensato qualitativamente diverso dal nostro presente.
- In questi manuali la linea della storia assume uno strano percorso, dove
da A a B c'è il Paleolitico, da B a C il Neolitico, cui segue in maniera
naturale la Civiltà urbanizzata (CD), poi la battuta d'arresto del Medioevo
(DE), infine la ripresa della Civiltà urbana, costituita dal Capitalismo (EF),
che continua in maniera indefinita (FG). Il socialismo di stato non merita
neppure d'essere ricordato, in quanto semplice incidente di percorso
dell'evoluzione mondiale capitalistica.

Invece come sarebbe più giusto rappresentarla?

AB è il Paleolitico, cui segue un Neolitico (BC) ambiguo, che in alcuni
casi (minoritari) ha portato alla linea tratteggiata, restando coerente coi
suoi valori umanistici di fondo, mentre in altri casi (risultati
maggioritari) ha portato alla nascita delle civiltà schiavistiche (CD), cui
s'è cercato di rimediare col ritorno al ruralismo medievale (DE), ma senza
successo, in quanto persistevano contraddizioni antagonistiche, di cui ha
approfittato la classe borghese che ha fatto nascere il Capitalismo (EF),
che però ha incontrato un nuovo ostacolo rappresentato dal Socialismo (FG),
il quale, nonostante le sue nuove contraddizioni antagonistiche, è
destinato, pena l'autodistruzione del genere umano, a diventare analogo al
Comunismo del Paleolitico (GH). In tal senso le linee discendenti (DE e FG)
non sono da interpretare come un regresso ma come un progresso dell'umanità,
per quanto il socialismo sia stato stravolto dall'idea di "statalismo".
- Il nomadismo è importante come scelta di vita, non va considerato come
un effetto della povertà, anche se è evidente che gli uomini si spostano
quando spinti da una necessità. E' una scelta di vita in quanto gli uomini
devono dare per scontato che su questo pianeta il loro destino non è quello
di vivere in eterno, ma di scomparire. Noi dobbiamo concepirci come
ospiti e pellegrini: non è la terra che appartiene a noi, ma il
contrario.
Bisogna abituarsi all'idea che su questo pianeta si è solo di passaggio e
che nulla di quanto si fa è destinato a durare oltre un certo limite. La
storia dimostra eloquentemente che tutto quanto abbiamo costruito come
uomini stanziali, è stato successivamente distrutto o abbandonato, anzi
quanto più è stato imponente tanto più ha provocato effetti devastanti sugli
ambienti naturali limitrofi.
L'uomo deve imparare a convivere con esigenze naturali contrapposte,
parimenti legittime: stanzialità e nomadismo. Deve imparare a
vivere la stanzialità come una forma provvisoria dell'esistenza, in
attesa di una nuova migrazione. La stanzialità perenne è la morte
della creatività. Non ha alcun senso umano diventare specialisti solo in un
determinato settore (che può anche non essere economicamente produttivo),
ovvero professionisti privilegiati in virtù di conoscenze specifiche, che
non tutti possono avere, che ci rendono diversi dagli altri, anche se sempre
più siamo incapaci di vivere un'esistenza autonoma, basata sull'autoconsumo,
incapaci di vedere il pianeta nel suo insieme, dove tutto è strettamente
collegato. Lo stanziale vede solo il suo particolare. Tutta la scienza che
possediamo serve solo a vivere lì dove si è, nell'orizzonte limitato delle
proprie paure e frustrazioni, dei propri inutili privilegi di categoria.
- Vediamo ora un altro aspetto affrontato dal manuale: la sottomissione
della donna nel patriarcato, che viene considerata del tutto naturale o
inevitabile, come già altri manuali.
Ora, senza entrare in dettagli storici che ci porterebbero lontani, si può
qui affermare, con relativa sicurezza, che tutti i miti ancestrali
dell'umanità sono serviti proprio per giustificare un rapporto sessuale di
dipendenza, che evidentemente in origine non esisteva. La donna non può
essere stata sottomessa dall'uomo in maniera spontanea, poiché a nessuno
piace essere sottomesso e a nessuno verrebbe in mente di farlo se non
esistesse già il concetto di forza usabile come strumento per
ottenere un potere particolare, esclusivo.
Se la donna si è lasciata sottomettere senza reagire, vuol dire che aveva
già compiuto qualcosa che aveva minato i legami sociali o la solidità del
collettivo tribale. Forse la stessa invenzione dell'agricoltura può in un
certo senso aver contribuito a scardinare dei rapporti ch'erano già in
difficoltà.
Gli elementi espulsi dal collettivo originario possono essersi riorganizzati
in maniera autoritaria, facendo della forza fisica un'occasione per dominare
i soggetti più deboli. Ecco perché, inaspettatamente (perché è questa
l'impressione che si ha dai manuali di storia antica), dopo molti millenni
di uguaglianza sociale, troviamo un patriarca che ha addirittura potere di
vita e di morte su moglie (a volte anche più di una) e figli, e con l'aiuto
di un consiglio di anziani, domina tutti i maschi del suo clan.
Tuttavia non può essere stata l'agricoltura in sé ad aver compromesso la
stabilità del collettivo originario (molti storici, senza rendersi conto di
quel che dicono, sono addirittura convinti che sia stata proprio
l'agricoltura a dare "stabilità" ai collettivi primordiali, privi di
eccedenze, quando invece bisogna far risalire al concetto di "eccedenza"
l'origine delle discriminazioni sociali).
Sarebbe meglio sostenere che l'agricoltura è stata una conseguenza della
rottura dei rapporti comunitari, esattamente come l'allevamento, che alcuni
storici considerano successivo all'agricoltura, altri invece precedente o,
quanto meno, concomitante, visto che l'una è conseguente alla raccolta e
l'altro alla caccia.
Il collettivo primordiale è entrato in crisi quando si è pensato che per
poterne uscire fosse sufficiente cercare delle soluzioni tecniche, che
rendessero la vita più semplice, più agiata. La trasformazione della vita da
nomadica a stanziale, con la conseguente esigenza di stabilire dei confini
alla propria dimora, è stato il "peccato originale" della preistoria. Sono
state violate delle tradizioni consolidate per lasciarsi tentare da una vita
più comoda.
Questo ha reso una tribù rivale dell'altra e ha creato inevitabilmente dei
conflitti all'interno della stessa tribù, p.es. tra allevatori e
agricoltori, tra uomini e donne, tra forti e deboli, tra cittadini e
stranieri, tra liberi e schiavi...
Uno schiavo non può nascere dal nulla, e non viene considerato "straniero"
solo perché non appartiene alla propria tribù. Se ci sono state guerre
intertribali, al tempo del Paleolitico o del Neolitico, noi non abbiamo
documentazione che la tribù perdente finisse schiava dell'altra. Per ridurre
uno in schiavitù, deve prima svilupparsi l'idea innaturale di vivere
sfruttando il lavoro altrui. L'innaturalezza di questo sistema di vita sta
nel fatto che se un certo tipo di lavoro dà soddisfazione o è fondamentale
per la propria sopravvivenza, non c'è ragione di farlo fare a uno schiavo,
che andrebbe comunque tenuto sotto controllo, in quanto non incentivato a
produrre come vorremmo. Là dove esistono schiavi, esistono sempre delle
categorie di persone che non lavorano, che non fanno nessun tipo di lavoro
produttivo, che campano di rendita ecc. e che schiavizzano non solo per i
lavori più faticosi e pericolosi, ma per qualunque tipo di lavoro, perché è
il fatto stesso di dover lavorare per vivere che viene visto con disprezzo.
Queste persone improduttive, oziose, privilegiate probabilmente non sono mai
esistite nel Neolitico, o comunque non sono mai esistite finché la
rivoluzione "agricola" non s'è trasformata in rivoluzione "urbana". Lo
stesso concetto di "straniero" è possibile che all'inizio non venisse inteso
in senso negativo (come persona di cui non fidarsi), ma, al contrario, come
ospite di riguardo, cui riservargli particolare ospitalità. Una tribù
stanziale ama i racconti dei nomadi, come i Feaci con Ulisse.
E' probabile quindi che nel Neolitico si fossero poste le basi del
superamento del Paleolitico, ma che quest'ultimo abbia continuato a
sussistere per molto tempo ancora, anche perché il passaggio dal Neolitico
alle prime civiltà urbanizzate non aveva nulla di scontato, richiedendo anzi
una nuova "rivoluzione" nello stile di vita.
Prendiamo p.es. la religione. Una cosa è pensare che esista un aldilà
in cui poter rivedere i propri parenti defunti; un'altra è approfittare di
questa credenza per chiedere alla persona di considerare il sacerdote
l'unico mediatore tra i vivi e i morti. Quando si forma una casta
specializzata per il culto, la religione diventa uno strumento al servizio
del potere.
Nel Neolitico i culti erano domestici e animistici; nelle civiltà
urbanizzate si facevano nel tempio con cerimoniali sofisticati. Ecco perché
il Neolitico costituisce uno spartiacque contenente in sé il rischio di uno
svolgimento antagonistico della vita sociale.
Non si può guardare la storia come una linea che dovrebbe essere
progressivamente in ascesa, il cui obiettivo finale siamo noi, con la nostra
democrazia borghese. Se la storia viene interpretata in maniera così
univoca, non si esce dalla leggenda, neppure in presenza di migliaia di
prove documentaristiche, fossero anche delle fonti in pietra.
E. BONIFAZI, S. RIZZO, STORIA ATTIVA, ed. Bulgarini,
Firenze 2010
- Gli storici dei manuali scolastici non presentano mai una visione
d'insieme dell'intero pianeta, anche perché non viene richiesta dai
programmi ministeriali.
Peraltro, siccome nelle parti fondamentali si copiano a vicenda, tutti,
senza eccezioni, parlando del Neolitico, prendono come unico esempio il
Vicino e Medio oriente, con la sua "Mezzaluna fertile". Sicché, quando si
arriva a circa il 4000 a.C., si comincia a dire che dal Neolitico si passò
alle prime città-stato della Mesopotamia e dell'Egitto, e qui si cita sempre
l'antesignana di tutte: Uruk.
Improvvisamente cioè si viene a scoprire che città come Gerico, Çatal Hüyük
e altre ancora non erano propriamente delle città ma solo "dei villaggi
ingranditi, privi addirittura di strade e con le case tutte attaccate tra
loro".
Quindi con Uruk finisce il Neolitico. La città-villaggio si è
improvvisamente trasformata in città-stato.
- Lo storico si sforza di andare avanti per determinazioni quantitative
progressive (la ruota, il forno, il bronzo ecc.), ma alla fine non riesce
mai a spiegare il motivo per cui nelle cose essenziali lo stile di vita era
completamente cambiato.
La pietra scheggiata o appuntita è stata ritrovata dagli archeologi
praticamente in tutta Europa e nel medesimo periodo e mentre le specie umane
erano le stesse. Non può essere stata una questione di intelligenza il fatto
che in Europa occidentale l'agricoltura sia apparsa molto tempo dopo che in
Medio oriente. Evidentemente le foreste erano sufficienti per sfamare tutti.
L'agricoltura non può essere nata tagliando le foreste (come avviene oggi),
ma deve per forza essere nata attorno ai grandi fiumi, i cui straripamenti
regolari, abituali, andavano prima irreggimentati, incanali in flussi
artificiali di percorso o deviati da sbarramenti, dighe, argini.
- Interessante di questo manuale è il rilievo che pone sulle conoscenze
astronomiche della proto-storia. Forse i primi templi o cattedrali della
storia non sono stati quelli delle civiltà urbanizzate, ma quelli del
Neolitico, che si chiamavano "megaliti" (menhir, dolmen, cromlech),
rinvenibili in varie zone europee (Carnac, Stonehenge ecc.).
Probabilmente il primo vero culto religioso pubblico, non domestico, fu
vissuto a ridosso di questi monumenti all'aperto, dove tutti potevano
osservare alcuni fenomeni astronomici molto particolari, come p.es. le
eclissi. A quel tempo doveva essere come andare al cinema oggi.
Forse si cominciò a considerare il sole una sorta di "dio", quale fonte di
ogni fertilità (specie quella agricola). Ma anche la luna era considerata
"magica", tant'è che i primi calendari non sono solari ma lunari (e
poi lunisolari). L'attenzione specifica per le fasi lunari andava di pari
passo col perfezionamento dell'attività agricola (cosa che ancora oggi viene
presa in considerazione).
Chissà che non siano stati proprio quei monumenti di pietra a segnare il
passaggio dal primato della luna (strettamente connesso alla fertilità della
donna) a quello del sole, quale forma più astratta e intellettuale della
fertilità.
B. BOLOCAN, G. DE VECCHI, G. GIOVANNETTI, LE BASI DELLA
STORIA ANTICA, ed. Scolastiche di Bruno Mondadori, Milano-Torino 2010
- Interessante il fatto che questo sia l'unico manuale, di quelli
esaminati, che dica espressamente che l'area in cui si sviluppò
l'agricoltura nel Neolitico non fu solo quella della "Mezzaluna fertile", ma
anche quella della Cina (intorno al 7500 a.C.), col riso e il miglio, quella
dell'America centrale (4000-3500 a.C.) col mais e la zucca, e quella
dell'America andina (4000-3500 a.C.) con la patata e i fagioli. In Egitto,
India ed Europa l'agricoltura fu portata dall'esterno.
Questo è sicuramente il modo migliore per affrontare la storia in chiave
olistica e universale, accettando l'assunto che il pianeta è un "villaggio
globale".
- La stessa domesticazione degli animali non fu una caratteristica del
solo Vicino-Medio oriente, ma anche della Cina, del Messico, delle Ande
peruviane. Il lupo, divenuto cane, fu addomesticato in Medio oriente, Cina e
Nordamerica sin dal 10000 a.C.; pecore, capre e maiali, le cui fattezze
erano sicuramente molto diverse da quelle odierne, furono allevate verso
l'8000 a.C.
- E' importante dire queste cose per dare alla storia un respiro il più
ampio possibile, relativizzando l'importanza di luoghi e contesti che fino
ad oggi, nei manuali, sono apparsi più unici che rari (vedi l'Egitto e la
Mezzaluna fertile).
Molti manuali, p.es., ritengono che l'allevamento sia posteriore di almeno
un millennio all'agricoltura. Ma questo è dubbio: può anche essere stato
concomitante o addirittura precedente. Quando gli animali sono grandi e
grossi, o feroci, non viene istintivo addomesticarli; ma se sono di piccola
taglia e non particolarmente pericolosi, solo con dei divieti di tipo
culturale (religioso) se ne potrebbe impedire la domesticazione.
Quel che più importa non è tanto sapere se è nato prima l'uovo o la gallina,
ma il motivo per cui, ad un certo punto, agricoltura e allevamento sono
venuti a confliggere e quali soluzioni sono state prospettate per risolvere
il problema.
- Pochi manuali inoltre sottolineano il fatto che fino alla concimazione
organica della terra (foss'anche solo la cenere dell'erba secca) e alla
rotazione delle colture, l'agricoltura è rimasta itinerante, in quanto il
terreno tendeva a impoverirsi.
L'agricoltura implica una sicura stanzialità quando esiste concimazione e
rotazione delle colture. Neppure una deforestazione per scopi agricoli o di
allevamento è in grado di garantire una sicura stanzialità. Anzi, in genere
una qualunque deforestazione porta alla desertificazione. Persino la
sostituzione di alberi sempreverdi con alberi da frutta stagionale non
permette alcuna vera stanzialità, poiché il ciclo di vita di un albero da
frutta (facilmente soggetto all'attacco di parassiti) è molto più breve di
un albero sempreverde. Senza poi considerare che una deforestazione di
piante sempreverdi provoca inevitabilmente smottamenti, frane, alluvioni e
mutamenti climatici.
- Né l'agricoltura né l'allevamento sono stati in sé un progresso nei
confronti della vita nelle foreste. Anche gli animali in cattività sono
molto più deboli di quelli selvatici: si ammalano più facilmente e il loro
patrimonio genetico inevitabilmente s'impoverisce.
Il fatto di volere una vita più comoda ha sempre un prezzo da pagare, anche
perché solo in apparenza risulta più sicura. Non è certo un caso che le più
grandi epidemie e carestie siano avvenute proprio durante la formazione e lo
sviluppo delle civiltà urbanizzate. Una qualunque pretesa di mettere la
natura al totale servizio dell'uomo, comporta effetti collaterali che
risultano dannosi per entrambi i soggetti. Vedere nella domesticazione,
nell'economia di produzione, nell'intervento diretto sulla natura (nella sua
antropizzazione unilaterale) un sicuro progresso dell'umanità, è stato un
errore di incalcolabile portata, anche perché, a tutt'oggi, s'è rivelato
assolutamente irreversibile.
- Il futuro non è progettabile, soprattutto se, per farlo, si vuole
coartare la natura alle nostre esigenze. La natura va rispettata per quello
che è, così com'è, essendo di molto antecedente alla comparsa dell'uomo
sulla terra. Noi dovremmo semplicemente concepirci come suoi ospiti, facendo
molta attenzione a come ci comportiamo. Prima di compiere una qualunque
azione, dovremmo sempre chiederci se per caso la natura non sarà costretta a
pagarne delle conseguenze.
- Spesso oggi ci diciamo che la sovrappopolazione costituisce un
problema per il nostro pianeta. Ma dimentichiamo di aggiungere ch'essa è
strettamente collegata alla sedentarietà. Non esiste sovrappopolazione là
dove regna il nomadismo, né là dove le tribù vivono a contatto con le
foreste.
Peraltro oggi questo fenomeno è connesso a un altro ancora non meno
preoccupante: l'invecchiamento crescente della popolazione. Un tempo, quando
si arrivava a 40 anni, si era già nella fase del declino, in quanto la forza
fisica veniva meno. L'età media era molto più bassa di quella odierna (dei
paesi cosiddetti "avanzati") e questo non veniva affatto visto come un
limite alla vivibilità di una tribù, anche perché ci si regolava sulla
capacità riproduttiva della donna, che costituiva, in un certo senso, il
parametro regolamentativo della stessa vita tribale (non per nulla
l'attività riproduttiva per una donna iniziava molto presto).
- Finché gli storici continueranno a interpretare il lontano passato
pre-schiavista coi loro occhi "maschili", non capiranno nulla della storia.
Ancora oggi noi abbiamo degli storici che pensano che i popoli nomadi
praticassero sistemi di controllo delle nascite, come p.es. l'astinenza
sessuale, l'aborto e l'infanticidio, a motivo del fatto che le donne non
riuscivano a spostarsi con più di un bambino per volta, quando l'attività
sessuale aveva in realtà per loro un'importanza completamente diversa dalla
nostra, essendo molto più simile a quella animale, che è finalizzata alla
riproduzione: l'attività sessuale era basata sulla capacità ricettiva,
organica, della donna, in quanto era lei a decidere il momento giusto per
l'accoppiamento.
- Interessante anche il fatto che questo manuale (unico degli otto
esaminati) prospetti l'idea che l'allevamento possa aver fatto nascere, per
la prima volta nella storia, il senso di una certa proprietà privata:
cosa che non poteva avvenire con la terra, che continuava ad appartenere
all'intero villaggio (le cosiddette "terre comuni" sono esistite sino
all'alba del capitalismo).
Questa cosa però è poco convincente. Anzitutto perché là dove esiste una
proprietà collettiva della terra, è difficile pensare a una proprietà
privata dell'allevamento. In secondo luogo è molto probabile che all'inizio
agricoltore e allevatore fossero in realtà la stessa persona, che poteva
essere indifferentemente uomo o donna: questo perché entrambi i sessi si
trovavano a fare insieme tutte le mansioni della vita rurale (ad eccezione
ovviamente di quelle che richiedessero una particolare prestanza fisica). In
terzo luogo si può pensare a una appropriazione privata dell'allevamento, e
quindi a una specializzazione della funzione lavorativa, soltanto quando il
medesimo processo ha cominciato a svilupparsi anche nell'agricoltura.
In fondo, se ci pensiamo, l'allevamento è più importante per una tribù
nomade (che pratica la transumanza) che non per una stanziale, la quale, pur
non disdegnandolo, preferisce affidarsi all'agricoltura (almeno in
prevalenza), poiché questa le garantisce maggiori e diversificate risorse
alimentari, benché in stretta dipendenza alle condizioni climatiche.
Il problema sta semmai nel cercare di capire come sia avvenuto il passaggio
da un possesso collettivo degli animali allevati a uno privato. E' difficile
infatti pensare che poche persone addette a una mandria abbiano potuto avere
la meglio su un consistente gruppo del villaggio dedito a lavori rurali
comuni. Pare più facile ipotizzare una spartizione dei beni quando ad un
certo punto si decise di rinunciare alla gestione collettiva della terra. In
quel momento infatti qualcuno, invece della terra, potrebbe aver optato per
l'allevamento, preferendo una vita più itinerante che stanziale.
Solo che una scelta del genere determinerà ben presto una situazione
conflittuale tra allevatori, continuamente alla ricerca di campi aperti, e
agricoltori, tendenti invece a recintare le proprie terre.
La ricerca di un maggiore benessere di piccolo gruppo (il clan), rispetto
alla tribù, ha incrementato l'instabilità della propria condizione
lavorativa. Una convivenza pacifica tra allevatori e agricoltori avviene
solo quando al di sopra di loro s'impone la volontà di istituzioni
autoritarie, che fanno gli interessi dei ceti più elevati. E' probabile, in
tal senso, che la nascita delle prime città-stato sia stata il tentativo di
risolvere il conflitto economico tra agricoltori e allevatori, che s'è
risolto però a danno d'entrambi, in quanto con le città si sono sviluppate
delle categorie di persone del tutto improduttive.
Note
(1) L'integralismo religioso per molto tempo ha contrapposto il Medioevo alla
società borghese e al comunismo. Oggi che un certo tipo di socialismo teorico
ambisce a considerare la preistoria quella in cui si realizzò il vero comunismo
democratico, l'integralismo comincia a sostenere che anche in questo periodo gli
uomini stavano malissimo. L'incapacità di relativizzare i pro e i contro di ogni
epoca storica rende certi manuali di storia una sorta di mascheratura della
peggior propaganda politica.
cfr Matriarcato -
Nomadi e Sedentari -
Introduzione all'epoca preistorica
Fonti
- Brusa Zappellini Gabriella,
Alba del mito. Preistoria dell'immaginario antico, 2010, Arcipelago Edizioni
- Coppens Yves,
Il presente del passato. L'attualità di preistoria e storia, 2010, Jaca Book
-
Preistoria. L'evoluzione della vita sulla Terra, 2010, Giunti Junior
- D'Acunto Nicolangelo,
Storia. Vol. 1: Dalla preistoria al 200 d. C., 2010, Vallardi A.
- Foliti Claudio,
Storia. Vol. 1: Dalla preistoria alla caduta dell' impero romano, 2010, Edises
- Aczel Amir D.,
Le cattedrali della preistoria. Il significato dell'arte rupestre, 2010, Cortina Raffaello
- Pozzi Alberto,
Megalitismo. Architettura sacra della preistoria, 2009, Società Archeologica Comense
- Priuli Ausilio,
Il linguaggio della preistoria. L'arte preistorica in Italia, 2006, Ananke
- I
mondi dell'arte. Asia, Africa, Americhe, Oceania e preistoria, 2006, Jaca Book
- Guidi Alessandro,
Preistoria della complessità sociale, 2009, Laterza
-
Preistoria. Come perché, 2009, Larus
- Cocchi Genick Daniela,
Preistoria. Con CD-ROM, 2009, QuiEdit
- Faorlin Paola; Puccio Maria,
Didattica della storia. La storia in scena. Vol. 1: La preistoria, 2008, ERGA
- Campbell Andrew; Parker Steve,
Dinosauri & vita nella preistoria, 2008, EL
-
Dinosauri. Scopri la preistoria, 2008, IdeeAli
- Goudsblom Johan,
Storia del fuoco. Dalla preistoria ai giorni nostri, 2008, Donzelli
-
Armi. Storia, tecnologia, evoluzione dalla preistoria a oggi, 2007, Mondadori Electa
- Beaumont Emilie,
La preistoria, 2007, Larus
- Feo Giovanni,
Geografia sacra. Il culto della madre terra dalla preistoria agli etruschi,
2006, Nuovi Equilibri
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