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Eventi e personaggi
11. LA LEGGENDA DELL'INFELICE ELISSA-DIDONE
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La genesi dei personaggi del mito si realizza in un tempo identificabile
con approssimazione, per molti di loro non si azzarda neppure l'attribuzione
di una ipotetica cronologia d'origine, e le vicende che li vedono
protagonisti si amplificano nel corso dei secoli, offrendo spesso versioni
discordanti. Capita addirittura che un personaggio abbia facoltà di lagnarsi
contro le presunte menzogne di un poeta, simulatore di comportamenti non
confacenti all'autentico mitologema.
La bionda Didone deve certamente la propria fama alla sublime arte di
Virgilio, che ha dedicato alla regina cartaginese il IV libro dell'Eneide e
numerosi altri versi del poema; tuttavia la fisionomia dell'eroina ha
subito, ad opera della geniale inventiva artistica, una trasformazione
radicale lesiva di una proverbiale pudicizia. Contro l'invidiosa Musa
virgiliana si scaglia pertanto il risentimento di Didone; ne è portavoce
Ausonio, che latinizza un testo greco: "Invida cur in me stimulasti Musa
Maronem / fingeret ut nostrae damna pudicitiae?"
La storia della fenicia Elissa/Didone, fuggita da Tiro, dopo che il
fratello Pigmalione le ha ucciso il marito, si lega alla leggenda di
fondazione di Cartagine.
Un'antica etimologia - Didone significherebbe "donna virile" -
attribuisce peraltro al nome dell'eroina una valenza combattiva ben
confacente a colei che, profuga in terra straniera, ha ottenuto dagli
indigeni il permesso di occupare una porzione di terreno equivalente alla
superficie delimitabile mediante una pelle di bue. Agendo d'astuzia,
l'intraprendente colonizzatrice taglia la pelle in sottili strisce che le
consentono di contrassegnare un perimetro bastevole per la costruzione della
nuova città: la punica Byrsa, ovvero "pelle di bue".
Corteggiata da molti sovrani africani, per resistere alle insistenti
profferte di Iarba e non venire meno alla fedeltà nei confronti del marito
defunto, la regina si suicida e, secondo lo storico Giustino, diviene
pertanto una delle divinità del pantheon cartaginese. Molti dettagli
cultuali, pertinenti alla religione fenicia, appartengono infatti alla
leggenda tradizionale: il tabù che vieta le seconde nozze per le vedove e lo
stesso suicidio rituale, perpetrato mediante il fuoco, quasi una pratica
purificatoria a sostegno dei ritmi stagionali di fecondazione della terra.
Il poema di Virgilio, celebrativo dell'impero di Ottaviano Augusto e
della conseguente grandezza di Roma, opera in senso divergente rispetto alla
leggenda che suffraga la divinizzazione della casta Elissa e ciò non
stupisce, perché l'incursione nelle tradizioni culturali di un popolo
nemico, duramente combattuto e infine sottomesso a prezzo di secolari
sacrifici, fa parte di un'operazione politica assai sofisticata, ma non
inusuale.
Il patto di fedeltà coniugale perdurante oltre la morte, appannaggio di
una virtuosa donna cartaginese, cede al cospetto della magnanimità di un
eroe progenitore di quella gens Iulia, da cui l'imperatore stesso
discende.
Virgilio elabora ogni dettaglio del carattere di Didone, esasperandone
le valenze umane e donandole una affettività disperata e totalizzante: il
personaggio commuove e risulta essere indimenticabile, eppure la sua
configurazione originaria appare usurpata.
La fama di pudicizia che inorgogliva la regina "elevandola fino alle
stelle" (Eneide, IV, 322), vero e proprio connotato divino, lascia il posto
a comportamenti furiosi confacenti ad una baccante, allorché la donna scopre
il "tradimento" dell'amante, in procinto di partire. "Saevit inops animi
totamque incensa per urbem / bacchatur [...]" (Eneide, IV, 300-301):
questo aggirarsi fuori di senno, per la città, si correla al tormento
amoroso che le ha dilaniato l'animo tra penosi conflitti prima della unione
fatale.
Nella tormentata sequenza dedicata alla rivelazione dell'innamoramento,
il paragone con la cerva ferita da una freccia, l'ha infatti assimilata ad
un animale indifeso e braccato: "Uritur infelix Dido totaque vagatur /
urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta" (Eneide, IV, 68-69).
Il lessico della passione ruota attorno ai campi semantici del fuoco
bruciante (uritur/incensa), che prefigura il suicidio conclusivo, e
del furor (bacchatur/furens), che trasporta sul piano
infero lo statuto di una eroina originariamente destinata alla dimensione
siderea.
Tuttavia, pur nel capovolgimento del mito, è accaduta una sorta di
compensazione: la Didone virgiliana ha suscitato, nel corso dei secoli, una
sorta di trasporto empatico da parte di molti poeti, del quale l'altra
Didone, protagonista della leggenda punica, non sarebbe stata probabilmente
mai capace.
S. Agostino si commuove, mentre legge la sventurata sorte di Elissa (cfr.
Confessioni, XIII), benché a posteriori condanni l'umana debolezza che
induce il lettore a dedicare troppa commiserazione alla finzione letteraria
e poca verso le proprie peccaminose miserie.
Giacomo Leopardi, invaghito dalla intensità affettiva della regina,
prova addirittura una sorta di avversione nei confronti dell'eroe troiano:
"ma Virgilio a riguardo d'Enea e della sua passione parla così coperto, anzi
dissimulato, (dico della passione, e non di ciò che ne segue d'inonesto a
descrivere, nel che giustamente egli è copertissimo anche rispetto a Didone),
anzi serba quasi un così alto silenzio, che e' non mostra essa passione se
non indirettamente e per accidente, e in quanto ella si congettura e si
lascia supporre per necessità da quel ch'ei narra di Didone, e sempre
volgendosi alla sola Didone"(Zibaldone).
Il mitologema di Elissa modifica nel corso dei secoli il proprio tema di
fondo, acquisendo sfumature interpretative consone soprattutto alla
sensibilità individuale, di segno ben diverso a paragone della funzione
etica o sociale che punici e latini variamente gli attribuivano.
"Viene dal mio al tuo viso il tuo segreto; / Replica il mio le care tue
fattezze; / Nulla contengono di più i nostri occhi / E, disperato, il nostro
amore effimero / Eterno freme in vele d'un indugio" (La terra promessa, VIII).
Per Giuseppe Ungaretti, Didone è simbolo della memoria, di tutto ciò che è
incancellabile, in quanto accaduto, perché l'assenza, sottolineando il
distacco, mette in gioco la facoltà di rivivere incessantemente l'intensità
delle emozioni: "est une poétique de l'absence, elle est dans ce sens une
poétique de la mémoire". E dunque le "vele d'un indugio" valgono a
dilatare a dismisura anche gli attimi più brevi, giacché, come insegna lo
stesso S. Agostino, non v'è oggettiva corrispondenza tra tempo interiore e
tempo fisico.
Poetica dell'assenza e poetica della memoria stabiliscono la circolare
connessione interpretativa che rinnova ad ogni lettura la scoperta
dell'identità mitica: Didone rappresenta una sorta di alter ego simbolico
non solo per Ungaretti, ma per quanti, accostandosi all'invenzione
virgiliana, si sono rispecchiati in lei. |
Fabia Zanasi
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