DONNE E DIRITTO
Nella Roma arcaica, quella in cui cominciano a imporsi i rapporti
antagonistici, il pater familias (con la sua patria potestà, col suo
potere assoluto, natura et iure) aveva dei
privilegi relativi al fatto ch'era titolare dei propri beni, a differenza della
donna, che, come i figli, non poteva possedere qualcosa di proprio.
Nei primi secoli della sua storia il diritto romano rifletteva le regole di
una società in cui capo indiscusso era l'uomo, con un potere di vita e di morte
("ius vitae ac necis"), padrone della casa e della familia,
comprensiva anche dell'intera servitù.
Soltanto l'uomo godeva dei diritti politici (votare, eleggere e farsi eleggere,
percorrere la carriera politica, il corsus honorum). La donna ne era del tutto
esclusa; anche per esercitare i diritti civili (sposarsi, ereditare, fare
testamento) aveva bisogno del consenso di un tutore, di un uomo che esercitasse
su di lei la tutela: questi era il padre, poi il marito e, all'eventuale morte
del marito, il parente maschio più prossimo.
Da una legge che figura nelle XII Tavole si può ricavare la posizione giuridica della donna nell'antica Roma:
"Feminas, etsi perfectae aetatis sint, in tutela esse, exceptis virginibus
Vestalibus". E cioè: "(E' stabilito che), sebbene siano di età adulta, le donne devono essere sotto
tutela, eccettuate le vergini Vestali" (che però
erano sotto la tutela del pontefice massimo).
La donna romana era costantemente sotto tutela, cioè in manu: dalla
manus protettiva e imperativa del padre passava, anche senza il suo
consenso, a quella del marito. Tuttavia, è documentata la presenza di un matrimonio senza manus,
cioè senza potere del marito,
in epoca precedente alle Dodici Tavole.
E' con la legislazione attribuita a Romolo che si sancisce definitivamente
una situazione iniqua nel rapporto tra i sessi (la stessa leggenda sul ratto
delle Sabine fa capire in quale considerazione tenessero i romani le donne).
Le limitazioni alla capacità giuridica della donna romana vengono spiegate
dai giuristi latini con pretese qualità negative come l'ignorantia iuris
(ignoranza della legge), imbecillitas mentis (inferiorità naturale),
infirmitas sexus (debolezza sessuale), levitatem animi (leggerezza
d'animo) ecc. La rivendicazione di questa radicale diversità tra uomo e
donna rifletteva una netta contrapposizione già esistente tra uomo e uomo, tipica delle società
antagonistiche.
Al pari degli impotenti o degli eunuchi, la donna romana, nel periodo
arcaico, non poteva adottare; non poteva neppure rappresentare interessi altrui, né
in giudizio, né in contrattazioni private; non poteva fare testamento o
testimoniare, né garantire per debiti di
terzi, né fare operazioni finanziarie; non poteva neppure essere tutrice dei suoi figli
minori.
Le veniva preclusa la facoltà d'intervenire nella sfera giuridica di
terzi semplicemente perché (e con questo in pratica si chiudeva il cerchio della
discriminazione) non aveva mai ufficialmente gestito alcun tipo di potere su
altri.
Sotto questo aspetto la società maschilista romana non faceva molta
differenza tra donne
ignobili e donne rispettabili, come p.es. le matrone. Le differenze erano di
carattere etico-sociale, non certo politico.
Tra le prime, spesso indicate
come non romane, sono coloro che provengono dal mondo del teatro, del circo, della prostituzione. Queste donne appartengono
ad uno status sociale inferiore, riconoscibile ad esempio nel fatto che era loro
consentito di non coprirsi il capo o nel divieto di portare
la stola, quel manto che è considerato proprio della rispettabile matrona. Queste donne di rango inferiore, come pure quella ufficialmente dichiarate
adultere, vengono private a scopo punitivo del diritto di contrarre un legittimo
matrimonio e della facoltà di trasmettere pieni diritti civili.
A differenza delle donne egiziane le romane non avevano diritto al nome
proprio. Nel caso avesse un nome proprio, questo non doveva essere conosciuto se
non dai più stretti familiari e non doveva mai essere pronunciato in pubblico.
(1)
Alla nascita infatti venivano assegnati tre nomi al maschio: il praenomen
(p.es. Marco; in tutto erano circa una ventina), il nomen (p.es. Tullio) e il cognomen
(p.es. Cicerone);
e uno solo alla femmina, quello della gens a cui apparteneva, usato al femminile.
La donna veniva considerata non come individuo, ma come parte di un nucleo
familiare. Cicerone, p.es., chiamerà la figlia col nome di Tullia.
Se le figlie erano più di una, accanto al nome della gens portavano il nome
generico di Prima, Secunda, ecc. Ma questo era la plebe a farlo, i patrizi
preferivano attingere alle antenate illustri. Per distinguere due sorelle
oppure madre e figlia si usavano l'aggettivo senior o junior.
I liberti, maschi o femmine, assumevano il nome del patrono.
A volte, ma solo per i maschi, si aggiungeva un soprannome per meriti civili o militari: p.es. l'Uticense,
il Censore, l'Africano...
D'altra parte avere un nome proprio contava relativamente: nella Roma repubblicana venivano censite solo le donne che, in quanto
ereditiere, avevano l'obbligo di contribuire a mantenere l'esercito.
[1] Si noti che a differenza di quella romana, la donna
etrusca poteva essere identificata anche col nome della madre, poteva
partecipare ai banchetti sdraiandosi sui letti con gli uomini (mentre a Roma le
donne dovevano stare sedute), si occupava di affari pubblici, discutendo di
politica (anche se non poteva votare né essere eletta), usciva di casa quando
voleva, talvolta era libera di scegliersi lo sposo e in genere aveva una libertà
che scandalizzava molto gli scrittori greci e romani, che descrissero gli
etruschi come un popolo privo di moralità.
DONNE E ISTRUZIONE
Le bambine romane imparavano a leggere, scrivere e far di conto se i
genitori potevano permettersi di pagare un maestro privato.
Quando arrivavano a dodici anni ed erano già in età da marito, potevano
continuare con lo studio, sempre a pagamento, delle lettere, della danza e della
musica.
L'istruzione dei ricchi è sempre stata privata: i primi precettori delle grandi famiglie
provengono dall'Italia stessa, e parlano latino, greco, osco. Mentre le legioni
romane portano il latino ovunque, nell'Urbe diventa di moda il greco. Si considerava chic per le ragazze conversare in greco e leggere Menandro.
E gli intellettuali greci, la cui superiore cultura era apprezzata a Roma,
emigravano volentieri in questa città. Ma sono anche gli schiavi e le schiave greche che insegnano
la loro lingua ai bambini delle
famiglie patrizie.
Col tempo però i romani cercano di favorire anche la scuola pubblica, pagandola di tasca propria,
in quanto lo Stato, restio a interferire nel potere del "pater familias",
comincerà a provvedere solo a tardo impero. Da Cesare a Costantino verranno
accordati regolarmente compensi e privilegi agli educatori pubblici, poiché si
riteneva fosse un dovere sociale imparare a leggere e scrivere, senza differenze
di sesso.
Spesso alle lezioni della scuola pubblica assistono nutrici e custodi degli
stessi studenti, ma è possibile anche per genitori, parenti, amici: la scuola è
aperta a tutti.
L'istruzione pubblica è suddivisa in primaria (fatta col maestro elementare),
secondaria (fatta col grammatico) e superiore (fatta col retore). Alla
secondaria accedono in maggior numero ragazzi e ragazze delle famiglie più
agiate. Si studiano lingua e letteratura latina e greca, fisica, astronomia,
mitologia e storia.
Alla scuola del retore vanno solo i figli destinati all'attività forense o
politica, quindi solo i maschi, anche se si conoscono casi di donne istruite che
si difendono da sole in tribunale o tengono discorsi pubblici. (1)
Gli studenti maschi a scuola apprendono soprattutto la retorica, cioè l'arte di persuadere e di
commuovere, così come è stata elaborata in Grecia. Gli aristocratici furono
sempre contrari all'apprendimento pubblico di quest'arte, perché la vedevano
come una minaccia ai loro interessi.
Poi vi sono scuole specializzate, professionali, come quelle per l'edilizia
e l'agrimensura, ma anche quelle, prevalentemente femminili, ove s'impara il canto, la musica
e la danza.
Nella storia della letteratura latina sono comunque assai scarse le figure di donne
colte; è conosciuta una sola poetessa di elegie, vissuta nell'età di Augusto, Sulpicia, che mise in versi il suo amore per Cerinto.
Quintiliano, il retore spagnolo vissuto a Roma nell'età degli imperatori Flavi,
a cui Vespasiano aveva dato l'incarico di professore di retorica retribuito
dallo stato, nel suo trattato sulla formazione dell'oratore enumera alcune donne
dell'antica Roma, celebri per la loro cultura: Cornelia, madre dei Gracchi, alla
quale attribuisce personali capacità e la presenta come ispiratrice e formatrice
dell'eloquenza dei figli; Lelia, figlia di Lelio l'amico degli Scipioni, e
Ortensia, figlia dell'oratore Ortensio, alle quali sembra dare importanza in
rapporto ai padri.
(1) Ortensia, figlia di un grande oratore romano, fu scelta
dalle altre matrone come loro portavoce perché in tribunale si opponesse
all'imposizione di pesanti tasse sulle donne, in occasione delle guerre civili.
La ebbe vinta.
DONNE E LAVORO
Premesso che lavorare per i romani non era considerato né un privilegio né
un diritto, ma una pesante necessità di cui non essere fieri, va detto che le donne delle classi medie e basse sono poco note
alla storiografia e la vita delle donne
contadine cambiò poco nel corso del millennio.
Le donne svolgono prevalentemente lavori domestici. Nelle iscrizioni romane
di Roma troviamo solo quattro donne mediche, una segretaria, una stenografa e
poi sarte, pettinatrici, levatrici, balie, pescivendole, erbivendole. Nella
città di Ostia troviamo anche nutrici, tessitrici, lavandaie, massaggiatrici.
Ci sono poi, spesso legate al mondo della prostituzione: attrici,
albergatrici, cameriere, danzatrici, proprietarie di taverne.
Alla donna era affidata la prima educazione del bambino, il primissimo
insegnamento orale. Era la donna che formava i figli sul piano morale e
comportamentale, affiancata, in questo, dai comites, cioè dai parenti,
nonni e nonne, zie e zii.
Scopo della sua vita era quello di diventare un'esperta amministratrice
della casa, circondata, se possibile, da ancillae e famulae che ne eseguivano gli
ordini. Infatti la stessa etimologia della parola "donna" ci avvicina ad una
domus (casa) oppure ad una domina (padrona).
In casa essa ha diritti non scritti ma reali sulla famiglia, sui figli,
sulle dispense. Era lei che aveva tutte le chiavi e controllava ogni cosa: solo
l'accesso alla cantina le era vietato. Il vino resterà proibito alle donne sino
alla fine del periodo repubblicano.
In casa essa si dedica ad acu pingere, cioè al ricamo. Una famosa epigrafe
funebre del II sec. a.C. elogia le virtù domestiche di una defunta: "casta fuit, domum servavit,
lanam fecit" ("fu casta, governò la casa, lavorò la lana"). (1)
Le donne potevano anche gestire il commercio dei tessuti.
Il latifondista si serviva in genere di due fattori: un uomo e una donna,
per gestire le sue tenute rurali e i suoi schiavi.
(1) "Straniero, ho poco da dirti: fermati e leggi. Questo è
il sepolcro non bello di una donna che fu bella. I genitori la chiamarono
Claudia. Amò il marito con tutto il cuore. Mise al mondo due figli: uno lo
lascia sulla terra, l'altro l'ha deposto sotto terra. Amabile nel parlare,
onesta nel portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho finito, va' pure".
DONNE E MATRIMONIO
A differenza che nell'antico Egitto, nella Roma arcaica una figlia, ancora
giovanissima (puella, che è diminutivo di puera, ragazza), poteva
essere promessa in sposa o fidanzata (sponsalia) a un giovane anche contro la
propria volontà e questo rito era giuridicamente valido; consisteva in un vero e
proprio impegno, perseguibile in caso di inadempimento, che vincolava la donna
ad una sorta di fedeltà pre-matrimoniale nei confronti del futuro sposo. Il
matrimonio si perfezionava con il trasferimento della donna dalla famiglia
paterna a quella del marito.
Il fidanzato consegnava alla ragazza un pegno per garantire l'adempimento
della sua promessa di matrimonio, un anello che lei si metteva all'anulare
della mano sinistra. Sembra che tra il dono e quel dito esista una certa
relazione. Aulo Gellio afferma che anatomicamente questo è l'unico dito a
presentare un sottilissimo nervo che lo collega direttamente con il cuore.
I matrimoni insomma venivano decisi dai parenti dei due giovani e
i motivi erano sempre di natura economica. Questo soprattutto in età
repubblicana.
La forma più completa del matrimonio è quella detta perconfarreationem,
dal panis farreus, un pane preparato con l’antico cereale, il farro, che
viene mangiato dagli sposi, appena entrati nella nuova casa. Accanto a questo
rito di matrimonio, sempre seguito dal patriziato, si hanno altre due forme meno
solenni: la coemptio, una vendita simbolica con la quale il padre cede la
figlia allo sposo mediante un compenso pecuniario, e l’usus, una specie
di sanatoria di una condizione di fatto, per cui diventa moglie la donna che
abbia abitato con un uomo per un anno intero senza interruzione di tre notti
consecutive. Con questi due ultimi modi si raggiungono le iustae nuptiae,
dando al marito quel diritto di protezione e di tutela, ma spesso non di
padronanza assoluta, che si dice manus.
Una donna romana può essere ceduta dal padre al marito già a 12 anni,
laddove i greci non mandano spose le loro fanciulle se non tra i 16 e i 18 anni.
In ogni caso troviamo iscrizioni funerarie che citano fanciulle sposate a 10 ed
11 anni. E' chiaro che il matrimonio tra i Romani era pienamente valido anche se
non consumato.
Poiché la donna dipendeva totalmente
dal padre e dal marito e poiché si mirava all’indissolubilità del vincolo
matrimoniale, l'assenza di un vero amore reciproco non rendeva l'istituto del
matrimonio meno stabile.
D'altra parte i romani si sposavano soprattutto per garantirsi una discendenza, mentre sul
piano della sessualità avevano atteggiamenti piuttosto liberi, almeno da
parte degli uomini (la cosa sarà reciproca solo in epoca imperiale).
Al matrimonio comunque la donna pensa come a qualcosa che cambierà la
sua vita, anche se nel periodo più antico si tratta semplicemente di passare dal
dominio del padre alla potestà del marito.
Nella formula più arcaica l'uomo chiede alla donna "se vuole essere la sua
mater familias", cioè "moglie". E' interessante notare che l'avvenimento
che fa accedere una donna al rango di mater familias non è il parto, ma
appunto il matrimonio.
In tutt'altro senso la donna indirizza al futuro sposo la domanda "e tu vuoi
essere il mio pater familias?" Con ciò desidera che l'uomo diventi per
lei, anche giuridicamente, un nuovo padre, alla cui potestà lei coi suoi figli
vuole sottomettersi loco filiae, come una figlia, il che la proteggerà
finanziariamente. Ma può accadere che il marito sia ancora un filius familias,
poiché la patria potestà paterna non cessa, ma dura finché il padre è in vita.
In questo caso la donna che entra nella famiglia del marito è sottoposta alla
potestà del suocero.
In ogni caso il pater familias, marito o suocero, ha su di lei un potere,
manus, che per un'antica legge dei tempi di Romolo comporta almeno in due
casi un diritto di vita o di morte: quando la moglie è sorpresa in flagrante
adulterio e quando si scopre che ha bevuto vino.
Le lodi rivolte alle donne, nelle epigrafi, raramente riguardano la donna in
se stessa; le sue virtù sono quelle che le hanno permesso di servire ed amare il
marito, i figli e di accudire la casa. Non c'è dovere di reciprocità nell'amore,
non c'è obbligo alla reciproca fedeltà coniugale.
In famiglia la moglie sta vicino al marito in ogni occasione, pur essendone
subordinata (p.es. è a cena nei banchetti e nei ricevimenti). Valerio Massimo ci
dice che "feminae, cum viris cubantibus, sedentes cenitabant", le donne cenavano
stando sedute, mentre gli uomini erano sdraiati.
La decimazione bellica degli uomini, causata dalle guerre puniche e dalle
guerre civili, squilibra il rapporto numerico tra i due sessi. L'iniziativa per
la celebrazione delle nozze non viene assunta dal futuro marito, ma più di
frequente dal padre della donna. E' questi in definitiva che acquista alla
figlia un marito, offrendogli una congrua dote da amministrare. La nuova usanza
attecchisce bene, ma stravolge completamente l'antico ordine familiare basato
sull'indiscussa potestas maritale.
Anche dopo sposata la donna continua ad appartenere alla famiglia paterna,
resta cioè sotto la potestas di suo padre. Alla base di questo nuovo tipo
di matrimonio (detto sine manu, senza potere maritale) ci sono solo due
condizioni: la materiale convivenza degli sposi e l'affectio maritalis,
il reciproco consenso a considerarsi marito e moglie, che compare accanto alla
semplice traditio da una famiglia all'altra.
Nel 18 a.C., per far fronte al crollo delle nascite e ai divorzi facili, Ottaviano presenta la famosa Lex Iulia de maritandis
ordinibus, diretta a ricostruire la società secondo i più rigidi principi
morali. Infatti la legge sanciva l’obbligo al matrimonio, vietava l’unione dei
senatori con liberte (schiave affrancate) e prevedeva una serie di misure allo
scopo di aumentare il tasso demografico: si stabilivano premi per i cittadini
con famiglie numerose e pene pecuniarie per i celibi e i coniugi senza figli. I
celibi restavano esclusi da vari diritti.
Il decreto assegna inoltre un termine agli eterni fidanzamenti e
stabilisce severe sanzioni per quei furbi che con continue rotture di
fidanzamento eludono le leggi fiscali a carico degli scapoli, emanate per
fronteggiare il preoccupante fenomeno della diminuzione delle nascite. Sarà
forse un effetto delle leggi augustee, ma sta di fatto che prima del
cristianesimo sono rarissime le testimonianze di donne rimaste nubili.
Le donne, in particolare, dovevano dimostrare d'aver voluto almeno tre
figli, nel qual caso ricevevano parità di diritti con gli uomini.
Ottaviano promulgò, inoltre, la Lex Iulia de pudicitia et de coercendis
adulteriis, che riguardava il libertinaggio ed il lusso licenzioso. Contro
gli adulteri e le adultere erano sancite gravissime pene economiche. Alla base
vi era la volontà di rinsaldare l’istituto familiare e la società uscita
disfatta dalle guerre civili.
Dopo Augusto le mezzane, le prostitute e le attrici vengono private di vari
diritti legali.
RITI NUZIALI
Le componenti simboliche
Gli antropologi interpretano l'episodio del ratto
quale trasposizione in chiave storico-narrativa di un rito di fertilità che
doveva svolgersi, probabilmente, al tempo della mietitura e che prevedeva la
reciproca cessione delle donne da parte degli uomini. Una trasmissione del rito
sarebbe peraltro attestata anche in età moderna dalle celebrazioni coincidenti
con il solstizio d'estate che, in Sardegna e in Sicilia ad esempio, combinano
insieme i festeggiamenti per la raccolta delle messi e quelli nuziali; e ancora
dalla festa toscana dei Tralli, durante la quale i contadini si scambiano delle
bambole.
La cessione di un oggetto simbolico, a garanzia
del patto matrimoniale, è del resto attestata, secondo Georges Dumézil dal
cosiddetto vaso di Duenus, un kérnos di foggia greca a tre scomparti,
destinati alle diverse offerte votive. Il vaso reca incisa una iscrizione,
databile alla fine del VI sec. a.C., e decifrabile, ad opinione dello studioso,
in chiave di vero e proprio contratto: "Colui che mi invia giura, in nome degli
dei, che, se la ragazza non avrà con te facili rapporti e non si dimostrerà
docile, farà in modo che tra voi si ristabilisca l'accordo".
Cerimonie matrimoniali: la condizione della
donna nell'ambito familiare
"Olim itaque tribus modis in manum
conveniebant: usu, farreo, coemptione" (Gaio, Institutiones Iuris Civilis,
I, 110). Confarreatio è una vera e propria cerimonia ufficiale, celebrata
alla presenza del flamine di Giove; coemptio e usus sono invece
ufficiati medianti rituali privati e posti sotto la protezione di Giunone
Lucina.
Nel corso dei secoli, il momento delle nozze si
svolge secondo un rituale drammatizzato, cui vanno riconosciuti alcuni elementi
spettacolari: vestita di bianco, con il flammeum, un velo arancione posto
sulla acconciatura ripartita in sei ampie ciocche, al calar della sera, la
futura mater familias finge di aggrapparsi alle braccia della propria
madre, dalle quali è strappata a forza, mentre musici, suonatori e portatori di
torce formano un corteo, per accompagnarla alla casa dello sposo. Lungo il
tragitto sarà scortata da Domiduca e Iterduca, divinità preposte a condurla
verso la nuova dimora; appena giunta, Domitius la tratterrà e Manturna e altri
numi la renderanno docile nei confronti del marito. Lo stesso flammeum ha
una valenza simbolica, perché rappresenta la rinuncia alla libertà e la
reclusione fra le pareti domestiche.
Il dato testuale, che colpisce l'attenzione degli
allievi, è la ricorrenza della tematica riguardante il possesso maschile in
riferimento alla femmina, sempre stigmatizzata, soprattutto nelle massime, dalla
paura di insidiosi rivali. "Maximo periculo custoditur quod multis placet"
(Publilio Siro, Sententiae, 18).
Si tratta di una suggestione latente anche
nell'immaginazione delle giovanissime alunne che suscita fantasie riposte e
accende emozioni improvvise, curiosità legate alla rievocazione della civiltà
antica, recepita secondo una possibile chiave di lettura consonante.
Le ragioni del divorzio
Un altro aspetto delle consuetudini romane che
colpisce l'attenzione delle studentesse è relativo alle motivazioni che
riguardano il ripudio della donna, un comportamento diffusosi tardivamente in
età repubblicana e assai spesso biasimato, anche quando la motivazione addotta
dall'uomo concerne la sterilità della donna e dunque un pur legittimo desiderio
di prole: "Repudium inter uxorem et virum a condita Urbe usque ad vicesimo et
quingentesimum annum nullum intercessit.Primus autem Sp. Carvilius uxorem
sterilitatis causa dimisit. Qui, quamquam tolerabili ratione motus videbatur,
reprehensione tamen non caruit, quia ne cupiditate quidem liberorum coniugali
fidei praeponi debuisse arbitrabantur" (Valerio Massimo, Factorum ac
dictorum memorabilium, II).
Spesso la donna viene ripudiata prima ancora che
abbia commesso un vero e proprio adulterio: è sufficiente che compaia in
pubblico a capo scoperto, evidentemente, secondo il rigoroso punto di vista del
marito, per attrarre gli sguardi maschili: "Horridum C. Sulpicii Galli
maritale supercilium. Nam uxorem dimisit quod eam capite aperto foris versatam
cognoverat". Oppure basta che la consorte sia colta in flagrante, mentre
parla con una liberta di dubbia morale: "ut potius caveret iniuriam quam
vindicaret"... meglio prevenire l'offesa che vendicarla, commenta Valerio
Massimo!
Sottrazione delle chiavi di cantina: anche questa
manchevolezza, valevole affinché un uomo pretenda e ottenga un immediato
divorzio, implica alcune osservazioni e ampliamenti, alla scoperta delle
motivazioni che riguardano norme di comportamento e principi morali. Infatti,
nel mondo antico, l'ebbrezza femminile è demonizzata non solo in quanto indice
di corruttela dei costumi, ma altresì perché l'assunzione del temetum,
vino puro, è collegabile alle pratiche sacrificali in onore degli dei. In tal
senso il divieto si sposta dal piano antropologico quotidiano all'ambito della
emarginazione religiosa.
"Ecastor lege dura vivont mulieres / multoque
iniquiore miserae quam viri" (Plauto, Mercator, 817-818). La battuta
pronunciata da Sira, nella commedia Plautina, sottolinea la disparità della
legge a tutto vantaggio dell'uomo che, peraltro, può tradire impunemente la
moglie.
L'eventualità che la normativa giuridica
stabilisca regole uguali per tutti è ritenuta una speranza irrealizzabile, come
evidenzia il ricorso al congiuntivo imperfetto proferito da Sira in un'altra
battuta: "Utinam lex esset eadem quae uxori est viro" (Plauto,
Mercator, 823).
D'altra parte, lo stereotipo della moglie
invadente e assillante, delineato secondo il punto di vista maschile, ricorre in
molte scene teatrali e nelle satire, pertanto nei generi testuali che accolgono
le istanze dell'iperrealismo quotidiano. Ad esempio, Giovenale dissuade gli
amici dal contrarre matrimonio, fornisce una casistica dettagliata relativa ai
fastidi procurati dalle consorti e mette in risalto le molestie derivanti
specialmente da una moglie intellettuale, saccente e verbosa al punto da zittire
persino i professionisti della parola: "Cedunt grammatici vincuntur rhetores
omnis / turba tacet..."(Satirae,VI, 438-439). E l'opinione non sembra
essere isolata, se anche Marziale si augura di incontrare come compagna di vita
una "...non doctissima coniux" (Epigrammata, II, 90).
Una donna chiamata moglie
Dalla parola aulica coniux, alla più
usuale uxor, l'asse paradigmatico, riferito all' Io femminile in rapporto
al Tu maschile, si presta alla varietà dei registri comunicativi e delle
sfumature semantiche: coniuga, nupta, nuptula, sponsa...
Esaminando i testi latini, gli allievi prendono
nota dei termini, ne studiano l'evoluzione in senso diacronico, grazie alla
consultazione di alcuni repertori etimologici, e stabiliscono campi lessicali
fra i vocaboli stessi.
Analizzando, ad esempio, il significato delle due
parole comprese nel nome Viriplaca, la dea che ricomponeva le liti fra coniugi,
inferiscono la supremazia dell'uomo sulla donna, indubitabilmente sanzionato
anche durante una cerimonia di riappacificazione come quella descritta da
Valerio Massimo: "Quotiens vero inter virum et uxorem aliquid iurgi
intercesserat, in sacellum deae Viriplacae, quod est in Palatio, veniebant, et
ibi invicem locuti quae voluerant contentione animorum deposita concordes
revertebantur. Dea nomen hoc a placandis viris fertur adsecuta, veneranda quidem
et nescio an praecipuis et exquisitis sacrificiis colenda utpote cotidianae et
domesticae pacis custos, in pari iugo caritatis ipsa sui appellatione virorum
maiestati debitum a feminis reddens honorem" (Factorum et dictorum
memorabilium, II, 1, 6).
Il vagheggiamento di una donna dotata di
obbedienza, obsequio raro, fedele ad un solo uomo, univira, e al
contempo operosa, poiché "domum servavit lanam fecit", si coglie nelle
rievocazioni muliebri descritte dalle epigrafi sepolcrali. La ricorrenza delle
parole, selezionate secondo un intendimento celebrativo, descrive l'immagine
femminile in base a un canone ideale, perciò consono alle aspettative maschili.
Peraltro l'esistenza terrena di queste mogli esemplari si esaurisce nel giro di
pochi lustri: giudicate idonee all'unione a partire dai dodici anni, raggiungono
infatti eccezionalmente i quarant'anni di vita.
Il Corpus Inscriptionum latinarum (C.I.L.)
ci riporta, tra le altre, la memoria di Claudia, una signora vissuta nel I sec.
a.C. e appartenente alla classe aristocratica:
Hospes quod dico paulum est adsta ac perlege.
Hic est sepulcrum haud pulchrum pulchrae feminae.
Nomen parentes nominarunt Claudiam.
Suum maritum corde dilexit suo.
Natos duos creavit. Horum alterum
in terra liquit alium sub terra locat.
Sermone lepido tam autem incessu commodo.
Domum servavit lanam fecit. Dixi. Abi.
Nel caso di Claudia, si possono riscontrare due
indizi di segno antropologico che forniscono alla sua caratterizzazione una
evidenza meno convenzionale rispetto ai molti altri ritratti stereotipati
dell'epigrafia usuale: la conversazione brillante e l'incedere dignitoso.
L'epitaffio di Rusticeia ricostruisce invece
l'arco di una esistenza brevissima, conclusasi a 25 anni nel momento del parto:
Causa meae mortis partus fatumque malignum.
Sed tu desine flere mihi carissime coniux
et fili nostri serva communis amorem.
Nam meus ad caeli transivit spiritus astra.
In modo struggente si rivela una premurosa
tensione affettiva, quale proiezione del dolore del marito che ha dedicato alla
giovane defunta l'epigrafe e che immagina un estremo colloquio con la propria
amata.
Le altre donne: paelices e scorta
L'avveduta morigeratezza delle coniugate lascia
comunque spazio ad un'altra figura femminile: la paelex, ossia la donna
che convive abitualmente con un uomo il quale, a sua volta, ha giuridicamente
dominio sulla propria sposa in virtù del vincolo matrimoniale.
La parola paelex, come ci informa Aulo
Gellio, possiede una connotazione infamante. Dato il suo ruolo di concubina, le
sono preclusi i luoghi sacri, infatti, in base ad una legge tradizionalmente
attribuita al re Numa, ella non può toccare il tempio di Giunone e, nel caso
l'abbia fatto, deve sacrificare un'agnella alla dea: "Paelex aedem Iunonis ne
tangito si tangit Iunoni crinibus demissis agnum feminam caedito" (Aulo
Gellio, Noctes Atticae, IV,3,3).
Tra le fonti che stigmatizzano il comportamento
femminile, si ricontra anche una testimonianza che fornisce una riflessione
adatta agli uomini che dissipano il loro tempo nei piaceri carnali in compagnia
di scorta, ossia di prostitute. "Omnis illis speratae rei longa
dilatio est" per tali uomini il tempo che intercorre tra un piacere e
l'altro è una lunga dilazione, commenta Seneca, e invece il tempo dell'amore è
brevissimo, perché non sanno gioire di nulla "at illud tempus quod amant
breve est et praeceps breviusque multo suo vitio; aliunde enim alio transfugiunt
et consistere in una cupiditate non possunt. Non sunt illis longi dies sed
invisi; at contra quam exiguae noctes videntur, quas in complexu scortorum aut
vino exigunt!"(De brevitate vitae, XVI, 4).
DONNE E DIVORZIO
Secondo Plutarco, Romolo praticamente non permetteva mai alle donne di divorziare, mentre lo permetteva ai mariti in taluni casi: tentato
avvelenamento, uso di chiavi false, adulterio. Chi la ripudiava per altri
motivi, avrebbe perduto i suoi beni, dei quali la metà sarebbero stati assegnati
alla donna e metà al tempio di Cerere.
Quanto a colui che avesse venduto la propria consorte, gli si augurava di
finire all'inferno (sic!).
Fin dall'epoca repubblicana la fanciulla poteva uscire a capo scoperto, ma gli uomini potevano
divorziare da una donna sposata che non copriva il capo con un velo o con un
lembo del mantello: lo fece p.es. Gaio Sulpicio Galba.
Anche se partecipava ai giochi del circo poteva essere cacciata e costretta
al divorzio (lo racconta Valerio Massimo nelle sue Storie).
Plinio il Vecchio racconta, nella sua Storia naturale, che la moglie di
Egnazio Metenno fu uccisa a frustate dal marito semplicemente perché aveva
bevuto del vino dalla botte, mentre un'altra fu lasciata morire di fame perché
aveva forzato la cassetta ove erano le chiavi della cantina. La legge non puniva
questo tipo di omicidi. Di regola un marito che sorprendeva
la donna a bere, la cacciava di casa tenendosi la dote ricevuta all'atto del
matrimonio.
Il ripudio, che sotto il tardo impero cristiano verrà ammesso solo nei casi
di adulterio, omicidio, maleficio e avvelenamento del coniuge, in tutta l'epoca
classica era invece possibile in ogni momento. Bastava recapitare al coniuge un
biglietto con su scritto tuas res tibi habeto ("riprenditi quello che è
tuo") ed è tutto finito.
Se il divorzio era la possibilità di sciogliere il matrimonio per potersi
risposare, il ripudio invece poteva avvenire per ragioni molto meno gravi, che
passavano sotto la vaga formula di "comportamento perverso e disgustoso". Lo Stato
cercherà tuttavia, col tempo, di porre un freno minacciando la perdita dei beni.
Le seconde nozze comunque non incontrano, in epoca repubblicana, il favore
dell'opinione pubblica e sulle epigrafi sepolcrali si legge per lungo tempo il
titolo di onore di
univira, donna che ha avuto un solo marito, ad evidenziare una vera virtù
femminile.
In epoca imperiale le cose cambiano notevolmente. Se viene a mancare uno
soltanto di questi due elementi: la materiale convivenza degli sposi e l'affectio maritalis,
il reciproco consenso a considerarsi marito e moglie, che compare accanto alla
semplice traditio da una famiglia all'altra, il matrimonio si scioglie,
specie se vi è la cessazione della volontà di convivere da parte di entrambi i
coniugi. Le pene pecuniarie introdotte dal regime augusteo per arginare il
fenomeno del "divorzio facile" servirono a ben poco.
Il fatto che in epoca imperiale fosse diventato più facile divorziare non incentivava
affatto i
matrimoni, anzi aumentava i motivi per non sposarsi e per non avere figli.
Augusto consentì addirittura a tutti i romani di famiglia non senatoria di sposare le
liberte, e i matrimoni de facto dei soldati vennero legalizzati e ai loro
figli concessi i diritti civili.
DONNE E PROCREAZIONE
Nella civiltà romana, dove la patria potestas era più che altrove
illimitata, abbastanza facilmente gli uomini potevano liberarsi dei figli
indesiderati. Era sufficiente non riconoscerli e abbandonarli.
A tale proposito, lo storico Dionigi di Alicarnasso cita una legge
secondo cui il padre deve riconoscere "almeno" la figlia primogenita. Ciò ad
evitare l'eccessivo abbandono (esposizione) di neonate di sesso femminile (come
d'altronde quello dei neonati illegittimi) presso la pubblica via, dove potevano morire di
fame e di freddo, a meno che non venissero raccolti da qualche mano pietosa, se
non interessata (il neonato esposto non può essere adottato, ma un mercante di
schiavi può venderlo). Quest'uso, praticato da ricchi e poveri, durerà più di
mille anni.
La sterilità era comunque considerata una grave disgrazia. Ma il parto rappresentava un rischio mortale per tutte le classi sociali. Muore
di parto o per le sue conseguenze il 5-10% delle partorienti. Levatrici e medici
non hanno mai la certezza di poter risolvere il parto positivamente.
Si sa che
l'ampiezza del bacino di donne, spesso giunte ancora impuberi alle nozze,
influisce sull'esito del parto. Nelle famiglie agiate, su consiglio del medico Sorano, la nutrice o la madre fasciano spalle e petto alle spose-bambine e
lasciano libere le anche per ottenere un bacino più ampio. Per le conseguenze
negative del parto Cicerone vede morire sua figlia Tullia.
La donna romana, specialmente quella di classe sociale più elevata, comincia
a rifiutare la prole a fine repubblica. Cicerone chiederà addirittura di
proibire il celibato. E Augusto, alla fine del primo secolo, constatata una forte
contrazione nelle nascite, incentiva nozze e natalità e promette alle donne
maritate la liberazione da ogni tipo di tutela alla morte del padre, purché
siano portate a termine almeno tre gravidanze. Al contrario la donna che tra i
18 ed i 50 anni risultasse ancora nubile non potrà ricevere eredità.
Bisogna dunque tentare almeno tre gravidanze, altrimenti, in forza delle
leggi augustee, ogni lascito ereditario finisce in mano ai parenti paterni o
allo Stato e si resta per tutta la vita sotto l'amministrazione di un tutore.
Limitare le nascite, specie nelle classi più elevate, diventa
il principale obiettivo della ricca matrona, che è riuscita a portare a termine le tre
gravidanze. La matrona può fare anche uso di pozioni contraccettive ed abortive, che
impiegano ingredienti rischiosi come la ruta, l'ellèboro, l'artemisia (in epoca
repubblicana s'ingerivano sostanze, anch'esse nocive alla salute, nella speranza
di ottenere più facilmente la gravidanza).
Se la matrona vuole
abortire in segreto deve fare attenzione perché, sin dall'epoca delle XII Tavole,
la decisione sull'aborto spetta al futuro padre, che la può anche ripudiare per avergli
sottratto il partum.
I medici si rifiutano di assistere aborti, che possono nascondere un
adulterio, di cui essi diverrebbero complici, subendo le stesse pene previste
per gli amanti.
Può accadere che la donna muoia per effetto della pratica abortiva. Se ciò
avviene per un intervento chirurgico fallito, contro il medico c'è l'accusa di
omicidio, se è per una pozione l'accusa è di avvelenamento. In ogni caso
l'aborto non è punito in sé, ma solo se procura la morte della donna.
Le classi superiori provvedono a limitare le nascite anche con la continenza. La
matrona che vive nella continenza viene ammirata ed approvata.
La limitazione delle nascite dipese anche dal fatto che si faceva coincidere, sulla scia di Platone e Aristotele, la miseria con
la sovrappopolazione. Il primo proponeva di non nutrire i bambini deboli o i
figli di genitori troppo vecchi o malsani o di scarso valore morale. Non
ammetteva il diritto di procreare prima dei 37 anni e dopo i 55 per gli uomini;
non accettava più di un determinato numero di figli per famiglia, consigliava
gli aborti e l'abbandono dei bambini deboli o deformi. Il secondo si era
limitato a proporre il matrimonio in tarda età, la volontaria sterilità e la
pratica abortiva.
ADULTERIO E CONCUBINATO
Nella Roma arcaica l'adulterio era considerato reato solo se veniva commesso
dalla donna, e veniva punito in modo più severo della vicina Grecia. Era
addirittura prevista la pena di morte se il pater familias lo riteneva
necessario.
Le donne ufficialmente dichiarate
adultere, come le donne di rango inferiore (le lavoranti nei circhi, nei teatri,
nella prostituzione), vengono private a scopo punitivo del diritto di contrarre un legittimo
matrimonio e della facoltà di trasmettere pieni diritti civili.
Eppure nell'antica Roma c'era un notevole permissivismo per le relazioni sessuali
con prostitute: un rimedio che lo stesso Cicerone consigliava affinché i giovani
non cercassero di "godersi le mogli degli altri". Naturalmente si pretendeva
che le ragazze arrivassero vergini al matrimonio.
Una cosiddetta donna di "facili costumi", se non ha solo occasionali rapporti con il marito
della matrona (un romano libero non è mai colpevole di adulterio), può
ufficialmente convivere in famiglia come concubina.
Il concubinato, importato con molte modifiche da Atene, diviene un istituto
tipicamente romano. E' sulle concubine che, ad un certo punto della storia
romana, possono essere fatti gravare i rischi del
parto, evitati alle spose ufficiali, protette dal sistema sociale.
La matrona non ha difficoltà ad accettare le relazioni del marito con
schiave o donne non rispettabili. Secondo quanto riferisce Svetonio, era la
stessa moglie che forniva ad Augusto donne del genere.
Quando le orde dei barbari, sfondati i confini, dilagheranno in tutto il
mondo romano occidentale, troveranno già molto diffusa la pia donna cristiana, una donna che forse somiglia di più alla
donna-domus dei tempi arcaici.
LA PROSTITUZIONE A POMPEI
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La prostituzione a Pompei è una delle poche occupazioni pubbliche riservate alle donne, le quali sono,
in questo caso, quasi sempre schiave di origine orientale.
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Il lavoro si svolge in postriboli (lupanares) che a Pompei sono oltre la ventina, posti
preferibilmente presso i crocicchi di strade secondarie.
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Essi sono caraterizzati da piccole celle munite di un letto in muratura e di una
porticina di legno sopra la quale è spesso dipinta una scenetta erotica, indicativa del
tipo di prestazione offerta.
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La tariffa media (10-15 assi), che va tutta al tenutario (il quale paga una tassa giornaliera pari a
una tariffa) corrisponde al prezzo di due porzioni di vino.
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Le ragazze, che i proprietari acquistano per un prezzo pari a circa 750 volte la tariffa
media di una prestazione, hanno nomi d'arte.
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I clienti sono generalmente affezionati e grafomani (hic ego puellas multas futui).
EMANCIPAZIONE
La sicurezza, la stabilità e l'ordine interno della società civile, che si
verificano dopo la fine delle guerre puniche e civili, rendono il ruolo protettivo del
marito romano largamente superfluo. Nel più sicuro ed opulento ambiente sociale,
già ben visibile nell’età ciceroniana (85 – 31 a.C.), di protettivo è rimasto
solo il materno ed insostituibile ruolo femminile.
Il ruolo della
materfamilias tende inevitabilmente a rafforzarsi e la donna comincia a partecipare alla vita
sociale e intellettuale.
In epoca imperiale, attraverso l'istituto della coemptio fiduciae causa, le donne potevano
sostituire il tutor legittimo con uno di loro fiducia: questi era un semplice
prestanome e permetteva loro di disporre dei propri beni e di se stesse come
meglio credevano.
Altra conquista giuridicamente rilevante, già presente in epoca
repubblicana, fu il riconoscimento della parentela anche in linea femminile. Se
in un primo tempo il rapporto fra madre e figlio non aveva alcuna rilevanza
giuridica, in seguito a questo intervento fu concesso ad alcune donne di avere
persino la tutela dei propri figli, nel caso di padre indegno.
Ora, se è benestante, per governare la domus le basta dare poche
direttive alla servitù. Quanto ai figli la matrona ricca ne affida l'educazione
al pedagogo di casa; la povera invece li manda alla scuola pubblica, dove vengono
formati da magistri sottopagati.
A volte sole, a volte con il marito o con un'amica vanno alle terme, dove
prendono il bagno in piena promiscuità con gli uomini, finché nel II
sec. d.C. l'imperatore Adriano interviene a frenare
comportamenti eccessivamente disinvolti e separa ambienti ed orari di donne e
uomini.
Nelle immagini pervenute e nelle fonti letterarie non si vede mai una donna
tra quelli che a prima mattina devono correre a porgere l'obsequium, il
deferente saluto ai potenti, né tra la povera gente che, tessera annonaria alla
mano, si presenta nei luoghi di distribuzione gratuita di generi alimentari.
Sono cose che fanno gli uomini, i quali fanno anche la spesa.
Si vedono invece donne alla fullonica (tintoria), che si fanno restituire la
biancheria, dal calzolaio, dal sarto.
Quanto all'impegno politico bisogna considerare che l'unico imperatore che
permise a una donna, sua madre, di entrare in senato per svolgere mansioni
tradizionalmente riservate agli uomini, fu Eliogabalo.
Questo ovviamente non significa che importanti donne romane non
parteciparono, seppure indirettamente, alla politica: sono ben note le vicende
legate ai nomi di Valeria Messalina, Agrippina Maggiore, Giulia Agrippina,
Sabina Poppea, Pompea Plotina, ecc. (leggi la scheda su
Livia Drusilla Claudia).
L'emancipazione sociale, morale e politica d'altra parte è direttamente collegata a quella economica:
solo tardivamente la legislazione autorizza la donna romana a trattenere per sé
tutta la sua proprietà (a eccezione della dote che passa al coniuge), a essere padrona dei beni ereditati
e a conservarli in caso di
divorzio.
Tutto ciò però non le permetterà mai di acquisire dei veri diritti politici.
Nell'epoca di massima conquista delle libertà femminili a Roma era forte
l'influsso delle religioni egiziane, e venivano largamente praticati riti sacri
ad Iside e ad altre divinità importate dall'antico Egitto. Nella religione
egiziana, infatti, la figura della donna appare sempre e costantemente collegata
a quella di grande madre di tutti gli esseri viventi e di grande sposa. Alla
natura femminile si riconosceva l'origine della vita, la sua tutela ed il suo
armonioso sviluppo.
Molti storici, di allora e di oggi, fanno coincidere il decadere
dell'istituto familiare, la crisi dei valori sociali e familiari con
l'emancipazione femminile e con l'istituto del divorzio, senza rendersi conto
che con questa emancipazione le donne chiedevano semplicemente di poter avere
gli stessi diritti degli uomini.
BIBLIOGRAFIA
- Leo Peppe, Posizione
giuridica e ruolo sociale della donna romana in età repubblicana, Milano 1984
- G. Alfoldy, Storia sociale dell'antica Roma, ed. Il Mulino, Bologna 1987
- A. Giardina, Il mondo degli antichi, ed. Laterza, Roma-Bari 1994
- C. Petrocelli, La stola e il silenzio, ed. Sellerio, Palermo 1989
- E. Cantarella, La vita delle donne, in AA. VV., Storia di Roma, 4. Caratteri
e morfologie, ed. Einaudi, Roma 1989
- E. Cantarella, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, ed.
Feltrinelli, Milano 1996
- D. Tudor, Donne celebri del mondo antico, ed. Mursia. Milano 1980
- Storia delle donne, a c. di G. Duby e M. Perrot, ed. Laterza
- Y. Thomas, La divisione dei sessi nel diritto romano, in AA. VV., Storia
delle donne in Occidente. L'antichità, ed. Laterza, Roma-Bari 1990
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