STORIA ROMANA


Eventi e personaggi

12. LA CONDIZIONE FEMMINILE

DONNE E DIRITTO

Nella Roma arcaica, quella in cui cominciano a imporsi i rapporti antagonistici, il pater familias (con la sua patria potestà, col suo potere assoluto, natura et iure) aveva dei privilegi relativi al fatto ch'era titolare dei propri beni, a differenza della donna, che, come i figli, non poteva possedere qualcosa di proprio.

Nei primi secoli della sua storia il diritto romano rifletteva le regole di una società in cui capo indiscusso era l'uomo, con un potere di vita e di morte ("ius vitae ac necis"), padrone della casa e della familia, comprensiva anche dell'intera servitù.

Soltanto l'uomo godeva dei diritti politici (votare, eleggere e farsi eleggere, percorrere la carriera politica, il corsus honorum). La donna ne era del tutto esclusa; anche per esercitare i diritti civili (sposarsi, ereditare, fare testamento) aveva bisogno del consenso di un tutore, di un uomo che esercitasse su di lei la tutela: questi era il padre, poi il marito e, all'eventuale morte del marito, il parente maschio più prossimo.

Da una legge che figura nelle XII Tavole si può ricavare la posizione giuridica della donna nell'antica Roma: "Feminas, etsi perfectae aetatis sint, in tutela esse, exceptis virginibus Vestalibus". E cioè: "(E' stabilito che), sebbene siano di età adulta, le donne devono essere sotto tutela, eccettuate le vergini Vestali" (che però erano sotto la tutela del pontefice massimo).

La donna romana era costantemente sotto tutela, cioè in manu: dalla manus protettiva e imperativa del padre passava, anche senza il suo consenso, a quella del marito. Tuttavia, è documentata la presenza di un matrimonio senza manus, cioè senza potere del marito, in epoca precedente alle Dodici Tavole.

E' con la legislazione attribuita a Romolo che si sancisce definitivamente una situazione iniqua nel rapporto tra i sessi (la stessa leggenda sul ratto delle Sabine fa capire in quale considerazione tenessero i romani le donne).

Le limitazioni alla capacità giuridica della donna romana vengono spiegate dai giuristi latini con pretese qualità negative come l'ignorantia iuris (ignoranza della legge), imbecillitas mentis (inferiorità naturale), infirmitas sexus (debolezza sessuale), levitatem animi (leggerezza d'animo) ecc. La rivendicazione di questa radicale diversità tra uomo e donna rifletteva una netta contrapposizione già esistente tra uomo e uomo, tipica delle società antagonistiche.

Al pari degli impotenti o degli eunuchi, la donna romana, nel periodo arcaico, non poteva adottare; non poteva neppure rappresentare interessi altrui, né in giudizio, né in contrattazioni private; non poteva fare testamento o testimoniare, né garantire per debiti di terzi, né fare operazioni finanziarie; non poteva neppure essere tutrice dei suoi figli minori.

Le veniva preclusa la facoltà d'intervenire nella sfera giuridica di terzi semplicemente perché (e con questo in pratica si chiudeva il cerchio della discriminazione) non aveva mai ufficialmente gestito alcun tipo di potere su altri.

Sotto questo aspetto la società maschilista romana non faceva molta differenza tra donne ignobili e donne rispettabili, come p.es. le matrone. Le differenze erano di carattere etico-sociale, non certo politico.

Tra le prime, spesso indicate come non romane, sono coloro che provengono dal mondo del teatro, del circo, della prostituzione. Queste donne appartengono ad uno status sociale inferiore, riconoscibile ad esempio nel fatto che era loro consentito di non coprirsi il capo o nel divieto di portare la stola, quel manto che è considerato proprio della rispettabile matrona. Queste donne di rango inferiore, come pure quella ufficialmente dichiarate adultere, vengono private a scopo punitivo del diritto di contrarre un legittimo matrimonio e della facoltà di trasmettere pieni diritti civili.

A differenza delle donne egiziane le romane non avevano diritto al nome proprio. Nel caso avesse un nome proprio, questo non doveva essere conosciuto se non dai più stretti familiari e non doveva mai essere pronunciato in pubblico. (1)

Alla nascita infatti venivano assegnati tre nomi al maschio: il praenomen (p.es. Marco; in tutto erano circa una ventina), il nomen (p.es. Tullio) e il cognomen (p.es. Cicerone); e uno solo alla femmina, quello della gens a cui apparteneva, usato al femminile. La donna veniva considerata non come individuo, ma come parte di un nucleo familiare. Cicerone, p.es., chiamerà la figlia col nome di Tullia.

Se le figlie erano più di una, accanto al nome della gens portavano il nome generico di Prima, Secunda, ecc. Ma questo era la plebe a farlo, i patrizi preferivano attingere alle antenate illustri. Per distinguere due sorelle oppure madre e figlia si usavano l'aggettivo senior o junior.

I liberti, maschi o femmine, assumevano il nome del patrono. A volte, ma solo per i maschi, si aggiungeva un soprannome per meriti civili o militari: p.es. l'Uticense, il Censore, l'Africano...

D'altra parte avere un nome proprio contava relativamente: nella Roma repubblicana venivano censite solo le donne che, in quanto ereditiere, avevano l'obbligo di contribuire a mantenere l'esercito.


[1] Si noti che a differenza di quella romana, la donna etrusca poteva essere identificata anche col nome della madre, poteva partecipare ai banchetti sdraiandosi sui letti con gli uomini (mentre a Roma le donne dovevano stare sedute), si occupava di affari pubblici, discutendo di politica (anche se non poteva votare né essere eletta), usciva di casa quando voleva, talvolta era libera di scegliersi lo sposo e in genere aveva una libertà che scandalizzava molto gli scrittori greci e romani, che descrissero gli etruschi come un popolo privo di moralità.


DONNE E ISTRUZIONE

Le bambine romane imparavano a leggere, scrivere e far di conto se i genitori potevano permettersi di pagare un maestro privato.

Quando arrivavano a dodici anni ed erano già in età da marito, potevano continuare con lo studio, sempre a pagamento, delle lettere, della danza e della musica.

L'istruzione dei ricchi è sempre stata privata: i primi precettori delle grandi famiglie provengono dall'Italia stessa, e parlano latino, greco, osco. Mentre le legioni romane portano il latino ovunque, nell'Urbe diventa di moda il greco. Si considerava chic per le ragazze conversare in greco e leggere Menandro. E gli intellettuali greci, la cui superiore cultura era apprezzata a Roma, emigravano volentieri in questa città. Ma sono anche gli schiavi e le schiave greche che insegnano la loro lingua ai bambini delle famiglie patrizie.

Col tempo però i romani cercano di favorire anche la scuola pubblica, pagandola di tasca propria, in quanto lo Stato, restio a interferire nel potere del "pater familias", comincerà a provvedere solo a tardo impero. Da Cesare a Costantino verranno accordati regolarmente compensi e privilegi agli educatori pubblici, poiché si riteneva fosse un dovere sociale imparare a leggere e scrivere, senza differenze di sesso.

Spesso alle lezioni della scuola pubblica assistono nutrici e custodi degli stessi studenti, ma è possibile anche per genitori, parenti, amici: la scuola è aperta a tutti.

L'istruzione pubblica è suddivisa in primaria (fatta col maestro elementare), secondaria (fatta col grammatico) e superiore (fatta col retore). Alla secondaria accedono in maggior numero ragazzi e ragazze delle famiglie più agiate. Si studiano lingua e letteratura latina e greca, fisica, astronomia, mitologia e storia.

Alla scuola del retore vanno solo i figli destinati all'attività forense o politica, quindi solo i maschi, anche se si conoscono casi di donne istruite che si difendono da sole in tribunale o tengono discorsi pubblici. (1)

Gli studenti maschi a scuola apprendono soprattutto la retorica, cioè l'arte di persuadere e di commuovere, così come è stata elaborata in Grecia. Gli aristocratici furono sempre contrari all'apprendimento pubblico di quest'arte, perché la vedevano come una minaccia ai loro interessi.

Poi vi sono scuole specializzate, professionali, come quelle per l'edilizia e l'agrimensura, ma anche quelle, prevalentemente femminili, ove s'impara il canto, la musica e la danza.

Nella storia della letteratura latina sono comunque assai scarse le figure di donne colte; è conosciuta una sola poetessa di elegie, vissuta nell'età di Augusto, Sulpicia, che mise in versi il suo amore per Cerinto.

Quintiliano, il retore spagnolo vissuto a Roma nell'età degli imperatori Flavi, a cui Vespasiano aveva dato l'incarico di professore di retorica retribuito dallo stato, nel suo trattato sulla formazione dell'oratore enumera alcune donne dell'antica Roma, celebri per la loro cultura: Cornelia, madre dei Gracchi, alla quale attribuisce personali capacità e la presenta come ispiratrice e formatrice dell'eloquenza dei figli; Lelia, figlia di Lelio l'amico degli Scipioni, e Ortensia, figlia dell'oratore Ortensio, alle quali sembra dare importanza in rapporto ai padri.


(1) Ortensia, figlia di un grande oratore romano, fu scelta dalle altre matrone come loro portavoce perché in tribunale si opponesse all'imposizione di pesanti tasse sulle donne, in occasione delle guerre civili. La ebbe vinta.


DONNE E LAVORO

Premesso che lavorare per i romani non era considerato né un privilegio né un diritto, ma una pesante necessità di cui non essere fieri, va detto che le donne delle classi medie e basse sono poco note alla storiografia e la vita delle donne contadine cambiò poco nel corso del millennio.

Le donne svolgono prevalentemente lavori domestici. Nelle iscrizioni romane di Roma troviamo solo quattro donne mediche, una segretaria, una stenografa e poi sarte, pettinatrici, levatrici, balie, pescivendole, erbivendole. Nella città di Ostia troviamo anche nutrici, tessitrici, lavandaie, massaggiatrici.

Ci sono poi, spesso legate al mondo della prostituzione: attrici, albergatrici, cameriere, danzatrici, proprietarie di taverne.

Alla donna era affidata la prima educazione del bambino, il primissimo insegnamento orale. Era la donna che formava i figli sul piano morale e comportamentale, affiancata, in questo, dai comites, cioè dai parenti, nonni e nonne, zie e zii.

Scopo della sua vita era quello di diventare un'esperta amministratrice della casa, circondata, se possibile, da ancillae e famulae che ne eseguivano gli ordini. Infatti la stessa etimologia della parola "donna" ci avvicina ad una domus (casa) oppure ad una domina (padrona).

In casa essa ha diritti non scritti ma reali sulla famiglia, sui figli, sulle dispense. Era lei che aveva tutte le chiavi e controllava ogni cosa: solo l'accesso alla cantina le era vietato. Il vino resterà proibito alle donne sino alla fine del periodo repubblicano.

In casa essa si dedica ad acu pingere, cioè al ricamo. Una famosa epigrafe funebre del II sec. a.C. elogia le virtù domestiche di una defunta: "casta fuit, domum servavit, lanam fecit" ("fu casta, governò la casa, lavorò la lana"). (1)

Le donne potevano anche gestire il commercio dei tessuti.

Il latifondista si serviva in genere di due fattori: un uomo e una donna, per gestire le sue tenute rurali e i suoi schiavi.


(1) "Straniero, ho poco da dirti: fermati e leggi. Questo è il sepolcro non bello di una donna che fu bella. I genitori la chiamarono Claudia. Amò il marito con tutto il cuore. Mise al mondo due figli: uno lo lascia sulla terra, l'altro l'ha deposto sotto terra. Amabile nel parlare, onesta nel portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho finito, va' pure".


DONNE E MATRIMONIO

A differenza che nell'antico Egitto, nella Roma arcaica una figlia, ancora giovanissima (puella, che è diminutivo di puera, ragazza), poteva essere promessa in sposa o fidanzata (sponsalia) a un giovane anche contro la propria volontà e questo rito era giuridicamente valido; consisteva in un vero e proprio impegno, perseguibile in caso di inadempimento, che vincolava la donna ad una sorta di fedeltà pre-matrimoniale nei confronti del futuro sposo. Il matrimonio si perfezionava con il trasferimento della donna dalla famiglia paterna a quella del marito.

Il fidanzato consegnava alla ragazza un pegno per garantire l'adempimento della sua promessa di matrimonio, un anello che lei si metteva all'anulare della mano sinistra. Sembra che tra il dono e quel dito esista una certa relazione. Aulo Gellio afferma che anatomicamente questo è l'unico dito a presentare un sottilissimo nervo che lo collega direttamente con il cuore.

I matrimoni insomma venivano decisi dai parenti dei due giovani e i motivi erano sempre di natura economica. Questo soprattutto in età repubblicana.

La forma più completa del matrimonio è quella detta perconfarreationem, dal panis farreus, un pane preparato con l’antico cereale, il farro, che viene mangiato dagli sposi, appena entrati nella nuova casa. Accanto a questo rito di matrimonio, sempre seguito dal patriziato, si hanno altre due forme meno solenni: la coemptio, una vendita simbolica con la quale il padre cede la figlia allo sposo mediante un compenso pecuniario, e l’usus, una specie di sanatoria di una condizione di fatto, per cui diventa moglie la donna che abbia abitato con un uomo per un anno intero senza interruzione di tre notti consecutive. Con questi due ultimi modi si raggiungono le iustae nuptiae, dando al marito quel diritto di protezione e di tutela, ma spesso non di padronanza assoluta, che si dice manus.

Una donna romana può essere ceduta dal padre al marito già a 12 anni, laddove i greci non mandano spose le loro fanciulle se non tra i 16 e i 18 anni. In ogni caso troviamo iscrizioni funerarie che citano fanciulle sposate a 10 ed 11 anni. E' chiaro che il matrimonio tra i Romani era pienamente valido anche se non consumato.

Poiché la donna dipendeva totalmente dal padre e dal marito e poiché si mirava all’indissolubilità del vincolo matrimoniale, l'assenza di un vero amore reciproco non rendeva l'istituto del matrimonio meno stabile.

D'altra parte i romani si sposavano soprattutto per garantirsi una discendenza, mentre sul piano della sessualità avevano atteggiamenti piuttosto liberi, almeno da parte degli uomini (la cosa sarà reciproca solo in epoca imperiale).

Al matrimonio comunque la donna pensa come a qualcosa che cambierà la sua vita, anche se nel periodo più antico si tratta semplicemente di passare dal dominio del padre alla potestà del marito.

Nella formula più arcaica l'uomo chiede alla donna "se vuole essere la sua mater familias", cioè "moglie". E' interessante notare che l'avvenimento che fa accedere una donna al rango di mater familias non è il parto, ma appunto il matrimonio.

In tutt'altro senso la donna indirizza al futuro sposo la domanda "e tu vuoi essere il mio pater familias?" Con ciò desidera che l'uomo diventi per lei, anche giuridicamente, un nuovo padre, alla cui potestà lei coi suoi figli vuole sottomettersi loco filiae, come una figlia, il che la proteggerà finanziariamente. Ma può accadere che il marito sia ancora un filius familias, poiché la patria potestà paterna non cessa, ma dura finché il padre è in vita. In questo caso la donna che entra nella famiglia del marito è sottoposta alla potestà del suocero.

In ogni caso il pater familias, marito o suocero, ha su di lei un potere, manus, che per un'antica legge dei tempi di Romolo comporta almeno in due casi un diritto di vita o di morte: quando la moglie è sorpresa in flagrante adulterio e quando si scopre che ha bevuto vino. 

Le lodi rivolte alle donne, nelle epigrafi, raramente riguardano la donna in se stessa; le sue virtù sono quelle che le hanno permesso di servire ed amare il marito, i figli e di accudire la casa. Non c'è dovere di reciprocità nell'amore, non c'è obbligo alla reciproca fedeltà coniugale.

In famiglia la moglie sta vicino al marito in ogni occasione, pur essendone subordinata (p.es. è a cena nei banchetti e nei ricevimenti). Valerio Massimo ci dice che "feminae, cum viris cubantibus, sedentes cenitabant", le donne cenavano stando sedute, mentre gli uomini erano sdraiati.

La decimazione bellica degli uomini, causata dalle guerre puniche e dalle guerre civili, squilibra il rapporto numerico tra i due sessi. L'iniziativa per la celebrazione delle nozze non viene assunta dal futuro marito, ma più di frequente dal padre della donna. E' questi in definitiva che acquista alla figlia un marito, offrendogli una congrua dote da amministrare. La nuova usanza attecchisce bene, ma stravolge completamente l'antico ordine familiare basato sull'indiscussa potestas maritale.

Anche dopo sposata la donna continua ad appartenere alla famiglia paterna, resta cioè sotto la potestas di suo padre. Alla base di questo nuovo tipo di matrimonio (detto sine manu, senza potere maritale) ci sono solo due condizioni: la materiale convivenza degli sposi e l'affectio maritalis, il reciproco consenso a considerarsi marito e moglie, che compare accanto alla semplice traditio da una famiglia all'altra.

Nel 18 a.C., per far fronte al crollo delle nascite e ai divorzi facili, Ottaviano presenta la famosa Lex Iulia de maritandis ordinibus, diretta a ricostruire la società secondo i più rigidi principi morali. Infatti la legge sanciva l’obbligo al matrimonio, vietava l’unione dei senatori con liberte (schiave affrancate) e prevedeva una serie di misure allo scopo di aumentare il tasso demografico: si stabilivano premi per i cittadini con famiglie numerose e pene pecuniarie per i celibi e i coniugi senza figli. I celibi restavano esclusi da vari diritti.

Il decreto assegna inoltre un termine agli eterni fidanzamenti e stabilisce severe sanzioni per quei furbi che con continue rotture di fidanzamento eludono le leggi fiscali a carico degli scapoli, emanate per fronteggiare il preoccupante fenomeno della diminuzione delle nascite. Sarà forse un effetto delle leggi augustee, ma sta di fatto che prima del cristianesimo sono rarissime le testimonianze di donne rimaste nubili.

Le donne, in particolare, dovevano dimostrare d'aver voluto almeno tre figli, nel qual caso ricevevano parità di diritti con gli uomini. Ottaviano promulgò, inoltre, la Lex Iulia de pudicitia et de coercendis adulteriis, che riguardava il libertinaggio ed il lusso licenzioso. Contro gli adulteri e le adultere erano sancite gravissime pene economiche. Alla base vi era la volontà di rinsaldare l’istituto familiare e la società uscita disfatta dalle guerre civili.

Dopo Augusto le mezzane, le prostitute e le attrici vengono private di vari diritti legali.


RITI NUZIALI

Le componenti simboliche

Gli antropologi interpretano l'episodio del ratto quale trasposizione in chiave storico-narrativa di un rito di fertilità che doveva svolgersi, probabilmente, al tempo della mietitura e che prevedeva la reciproca cessione delle donne da parte degli uomini. Una trasmissione del rito sarebbe peraltro attestata anche in età moderna dalle celebrazioni coincidenti con il solstizio d'estate che, in Sardegna e in Sicilia ad esempio, combinano insieme i festeggiamenti per la raccolta delle messi e quelli nuziali; e ancora dalla festa toscana dei Tralli, durante la quale i contadini si scambiano delle bambole.

La cessione di un oggetto simbolico, a garanzia del patto matrimoniale, è del resto attestata, secondo Georges Dumézil dal cosiddetto vaso di Duenus, un kérnos di foggia greca a tre scomparti, destinati alle diverse offerte votive. Il vaso reca incisa una iscrizione, databile alla fine del VI sec. a.C., e decifrabile, ad opinione dello studioso, in chiave di vero e proprio contratto: "Colui che mi invia giura, in nome degli dei, che, se la ragazza non avrà con te facili rapporti e non si dimostrerà docile, farà in modo che tra voi si ristabilisca l'accordo".

Cerimonie matrimoniali: la condizione della donna nell'ambito familiare

"Olim itaque tribus modis in manum conveniebant: usu, farreo, coemptione" (Gaio, Institutiones Iuris Civilis, I, 110). Confarreatio è una vera e propria cerimonia ufficiale, celebrata alla presenza del flamine di Giove; coemptio e usus sono invece ufficiati medianti rituali privati e posti sotto la protezione di Giunone Lucina.

Nel corso dei secoli, il momento delle nozze si svolge secondo un rituale drammatizzato, cui vanno riconosciuti alcuni elementi spettacolari: vestita di bianco, con il flammeum, un velo arancione posto sulla acconciatura ripartita in sei ampie ciocche, al calar della sera, la futura mater familias finge di aggrapparsi alle braccia della propria madre, dalle quali è strappata a forza, mentre musici, suonatori e portatori di torce formano un corteo, per accompagnarla alla casa dello sposo. Lungo il tragitto sarà scortata da Domiduca e Iterduca, divinità preposte a condurla verso la nuova dimora; appena giunta, Domitius la tratterrà e Manturna e altri numi la renderanno docile nei confronti del marito. Lo stesso flammeum ha una valenza simbolica, perché rappresenta la rinuncia alla libertà e la reclusione fra le pareti domestiche.

Il dato testuale, che colpisce l'attenzione degli allievi, è la ricorrenza della tematica riguardante il possesso maschile in riferimento alla femmina, sempre stigmatizzata, soprattutto nelle massime, dalla paura di insidiosi rivali. "Maximo periculo custoditur quod multis placet" (Publilio Siro, Sententiae, 18).

Si tratta di una suggestione latente anche nell'immaginazione delle giovanissime alunne che suscita fantasie riposte e accende emozioni improvvise, curiosità legate alla rievocazione della civiltà antica, recepita secondo una possibile chiave di lettura consonante.

Le ragioni del divorzio

Un altro aspetto delle consuetudini romane che colpisce l'attenzione delle studentesse è relativo alle motivazioni che riguardano il ripudio della donna, un comportamento diffusosi tardivamente in età repubblicana e assai spesso biasimato, anche quando la motivazione addotta dall'uomo concerne la sterilità della donna e dunque un pur legittimo desiderio di prole: "Repudium inter uxorem et virum a condita Urbe usque ad vicesimo et quingentesimum annum nullum intercessit.Primus autem Sp. Carvilius uxorem sterilitatis causa dimisit. Qui, quamquam tolerabili ratione motus videbatur, reprehensione tamen non caruit, quia ne cupiditate quidem liberorum coniugali fidei praeponi debuisse arbitrabantur" (Valerio Massimo, Factorum ac dictorum memorabilium, II).

Spesso la donna viene ripudiata prima ancora che abbia commesso un vero e proprio adulterio: è sufficiente che compaia in pubblico a capo scoperto, evidentemente, secondo il rigoroso punto di vista del marito, per attrarre gli sguardi maschili: "Horridum C. Sulpicii Galli maritale supercilium. Nam uxorem dimisit quod eam capite aperto foris versatam cognoverat". Oppure basta che la consorte sia colta in flagrante, mentre parla con una liberta di dubbia morale: "ut potius caveret iniuriam quam vindicaret"... meglio prevenire l'offesa che vendicarla, commenta Valerio Massimo!

Sottrazione delle chiavi di cantina: anche questa manchevolezza, valevole affinché un uomo pretenda e ottenga un immediato divorzio, implica alcune osservazioni e ampliamenti, alla scoperta delle motivazioni che riguardano norme di comportamento e principi morali. Infatti, nel mondo antico, l'ebbrezza femminile è demonizzata non solo in quanto indice di corruttela dei costumi, ma altresì perché l'assunzione del temetum, vino puro, è collegabile alle pratiche sacrificali in onore degli dei. In tal senso il divieto si sposta dal piano antropologico quotidiano all'ambito della emarginazione religiosa.

"Ecastor lege dura vivont mulieres / multoque iniquiore miserae quam viri" (Plauto, Mercator, 817-818). La battuta pronunciata da Sira, nella commedia Plautina, sottolinea la disparità della legge a tutto vantaggio dell'uomo che, peraltro, può tradire impunemente la moglie.

L'eventualità che la normativa giuridica stabilisca regole uguali per tutti è ritenuta una speranza irrealizzabile, come evidenzia il ricorso al congiuntivo imperfetto proferito da Sira in un'altra battuta: "Utinam lex esset eadem quae uxori est viro" (Plauto, Mercator, 823).

D'altra parte, lo stereotipo della moglie invadente e assillante, delineato secondo il punto di vista maschile, ricorre in molte scene teatrali e nelle satire, pertanto nei generi testuali che accolgono le istanze dell'iperrealismo quotidiano. Ad esempio, Giovenale dissuade gli amici dal contrarre matrimonio, fornisce una casistica dettagliata relativa ai fastidi procurati dalle consorti e mette in risalto le molestie derivanti specialmente da una moglie intellettuale, saccente e verbosa al punto da zittire persino i professionisti della parola: "Cedunt grammatici vincuntur rhetores omnis / turba tacet..."(Satirae,VI, 438-439). E l'opinione non sembra essere isolata, se anche Marziale si augura di incontrare come compagna di vita una "...non doctissima coniux" (Epigrammata, II, 90).

Una donna chiamata moglie

Dalla parola aulica coniux, alla più usuale uxor, l'asse paradigmatico, riferito all' Io femminile in rapporto al Tu maschile, si presta alla varietà dei registri comunicativi e delle sfumature semantiche: coniuga, nupta, nuptula, sponsa...

Esaminando i testi latini, gli allievi prendono nota dei termini, ne studiano l'evoluzione in senso diacronico, grazie alla consultazione di alcuni repertori etimologici, e stabiliscono campi lessicali fra i vocaboli stessi.

Analizzando, ad esempio, il significato delle due parole comprese nel nome Viriplaca, la dea che ricomponeva le liti fra coniugi, inferiscono la supremazia dell'uomo sulla donna, indubitabilmente sanzionato anche durante una cerimonia di riappacificazione come quella descritta da Valerio Massimo: "Quotiens vero inter virum et uxorem aliquid iurgi intercesserat, in sacellum deae Viriplacae, quod est in Palatio, veniebant, et ibi invicem locuti quae voluerant contentione animorum deposita concordes revertebantur. Dea nomen hoc a placandis viris fertur adsecuta, veneranda quidem et nescio an praecipuis et exquisitis sacrificiis colenda utpote cotidianae et domesticae pacis custos, in pari iugo caritatis ipsa sui appellatione virorum maiestati debitum a feminis reddens honorem" (Factorum et dictorum memorabilium, II, 1, 6).

Il vagheggiamento di una donna dotata di obbedienza, obsequio raro, fedele ad un solo uomo, univira, e al contempo operosa, poiché "domum servavit lanam fecit", si coglie nelle rievocazioni muliebri descritte dalle epigrafi sepolcrali. La ricorrenza delle parole, selezionate secondo un intendimento celebrativo, descrive l'immagine femminile in base a un canone ideale, perciò consono alle aspettative maschili. Peraltro l'esistenza terrena di queste mogli esemplari si esaurisce nel giro di pochi lustri: giudicate idonee all'unione a partire dai dodici anni, raggiungono infatti eccezionalmente i quarant'anni di vita.

Il Corpus Inscriptionum latinarum (C.I.L.) ci riporta, tra le altre, la memoria di Claudia, una signora vissuta nel I sec. a.C. e appartenente alla classe aristocratica:

Hospes quod dico paulum est adsta ac perlege.
Hic est sepulcrum haud pulchrum pulchrae feminae.
Nomen parentes nominarunt Claudiam.
Suum maritum corde dilexit suo.
Natos duos creavit. Horum alterum
in terra liquit alium sub terra locat.
Sermone lepido tam autem incessu commodo.
Domum servavit lanam fecit. Dixi. Abi.

Nel caso di Claudia, si possono riscontrare due indizi di segno antropologico che forniscono alla sua caratterizzazione una evidenza meno convenzionale rispetto ai molti altri ritratti stereotipati dell'epigrafia usuale: la conversazione brillante e l'incedere dignitoso.

L'epitaffio di Rusticeia ricostruisce invece l'arco di una esistenza brevissima, conclusasi a 25 anni nel momento del parto:

Causa meae mortis partus fatumque malignum.
Sed tu desine flere mihi carissime coniux
et fili nostri serva communis amorem.
Nam meus ad caeli transivit spiritus astra.

In modo struggente si rivela una premurosa tensione affettiva, quale proiezione del dolore del marito che ha dedicato alla giovane defunta l'epigrafe e che immagina un estremo colloquio con la propria amata.

Le altre donne: paelices e scorta

L'avveduta morigeratezza delle coniugate lascia comunque spazio ad un'altra figura femminile: la paelex, ossia la donna che convive abitualmente con un uomo il quale, a sua volta, ha giuridicamente dominio sulla propria sposa in virtù del vincolo matrimoniale.

La parola paelex, come ci informa Aulo Gellio, possiede una connotazione infamante. Dato il suo ruolo di concubina, le sono preclusi i luoghi sacri, infatti, in base ad una legge tradizionalmente attribuita al re Numa, ella non può toccare il tempio di Giunone e, nel caso l'abbia fatto, deve sacrificare un'agnella alla dea: "Paelex aedem Iunonis ne tangito si tangit Iunoni crinibus demissis agnum feminam caedito" (Aulo Gellio, Noctes Atticae, IV,3,3).

Tra le fonti che stigmatizzano il comportamento femminile, si ricontra anche una testimonianza che fornisce una riflessione adatta agli uomini che dissipano il loro tempo nei piaceri carnali in compagnia di scorta, ossia di prostitute. "Omnis illis speratae rei longa dilatio est" per tali uomini il tempo che intercorre tra un piacere e l'altro è una lunga dilazione, commenta Seneca, e invece il tempo dell'amore è brevissimo, perché non sanno gioire di nulla "at illud tempus quod amant breve est et praeceps breviusque multo suo vitio; aliunde enim alio transfugiunt et consistere in una cupiditate non possunt. Non sunt illis longi dies sed invisi; at contra quam exiguae noctes videntur, quas in complexu scortorum aut vino exigunt!"(De brevitate vitae, XVI, 4).


DONNE E DIVORZIO

Secondo Plutarco, Romolo praticamente non permetteva mai alle donne di divorziare, mentre lo permetteva ai mariti in taluni casi: tentato avvelenamento, uso di chiavi false, adulterio. Chi la ripudiava per altri motivi, avrebbe perduto i suoi beni, dei quali la metà sarebbero stati assegnati alla donna e metà al tempio di Cerere.

Quanto a colui che avesse venduto la propria consorte, gli si augurava di finire all'inferno (sic!).

Fin dall'epoca repubblicana la fanciulla poteva uscire a capo scoperto, ma gli uomini potevano divorziare da una donna sposata che non copriva il capo con un velo o con un lembo del mantello: lo fece p.es. Gaio Sulpicio Galba.

Anche se partecipava ai giochi del circo poteva essere cacciata e costretta al divorzio (lo racconta Valerio Massimo nelle sue Storie).

Plinio il Vecchio racconta, nella sua Storia naturale, che la moglie di Egnazio Metenno fu uccisa a frustate dal marito semplicemente perché aveva bevuto del vino dalla botte, mentre un'altra fu lasciata morire di fame perché aveva forzato la cassetta ove erano le chiavi della cantina. La legge non puniva questo tipo di omicidi. Di regola un marito che sorprendeva la donna a bere, la cacciava di casa tenendosi la dote ricevuta all'atto del matrimonio.

Il ripudio, che sotto il tardo impero cristiano verrà ammesso solo nei casi di adulterio, omicidio, maleficio e avvelenamento del coniuge, in tutta l'epoca classica era invece possibile in ogni momento. Bastava recapitare al coniuge un biglietto con su scritto tuas res tibi habeto ("riprenditi quello che è tuo") ed è tutto finito.

Se il divorzio era la possibilità di sciogliere il matrimonio per potersi risposare, il ripudio invece poteva avvenire per ragioni molto meno gravi, che passavano sotto la vaga formula di "comportamento perverso e disgustoso". Lo Stato cercherà tuttavia, col tempo, di porre un freno minacciando la perdita dei beni.

Le seconde nozze comunque non incontrano, in epoca repubblicana, il favore dell'opinione pubblica e sulle epigrafi sepolcrali si legge per lungo tempo il titolo di onore di univira, donna che ha avuto un solo marito, ad evidenziare una vera virtù femminile.

In epoca imperiale le cose cambiano notevolmente. Se viene a mancare uno soltanto di questi due elementi: la materiale convivenza degli sposi e l'affectio maritalis, il reciproco consenso a considerarsi marito e moglie, che compare accanto alla semplice traditio da una famiglia all'altra, il matrimonio si scioglie, specie se vi è la cessazione della volontà di convivere da parte di entrambi i coniugi. Le pene pecuniarie introdotte dal regime augusteo per arginare il fenomeno del "divorzio facile" servirono a ben poco.

Il fatto che in epoca imperiale fosse diventato più facile divorziare non incentivava affatto i matrimoni, anzi aumentava i motivi per non sposarsi e per non avere figli.

Augusto consentì addirittura a tutti i romani di famiglia non senatoria di sposare le liberte, e i matrimoni de facto dei soldati vennero legalizzati e ai loro figli concessi i diritti civili.


DONNE E PROCREAZIONE

Nella civiltà romana, dove la patria potestas era più che altrove illimitata, abbastanza facilmente gli uomini potevano liberarsi dei figli indesiderati. Era sufficiente non riconoscerli e abbandonarli.

A tale proposito, lo storico Dionigi di Alicarnasso cita una legge secondo cui il padre deve riconoscere "almeno" la figlia primogenita. Ciò ad evitare l'eccessivo abbandono (esposizione) di neonate di sesso femminile (come d'altronde quello dei neonati illegittimi) presso la pubblica via, dove potevano morire di fame e di freddo, a meno che non venissero raccolti da qualche mano pietosa, se non interessata (il neonato esposto non può essere adottato, ma un mercante di schiavi può venderlo). Quest'uso, praticato da ricchi e poveri, durerà più di mille anni.

La sterilità era comunque considerata una grave disgrazia. Ma il parto rappresentava un rischio mortale per tutte le classi sociali. Muore di parto o per le sue conseguenze il 5-10% delle partorienti. Levatrici e medici non hanno mai la certezza di poter risolvere il parto positivamente.

Si sa che l'ampiezza del bacino di donne, spesso giunte ancora impuberi alle nozze, influisce sull'esito del parto. Nelle famiglie agiate, su consiglio del medico Sorano, la nutrice o la madre fasciano spalle e petto alle spose-bambine e lasciano libere le anche per ottenere un bacino più ampio. Per le conseguenze negative del parto Cicerone vede morire sua figlia Tullia.

La donna romana, specialmente quella di classe sociale più elevata, comincia a rifiutare la prole a fine repubblica. Cicerone chiederà addirittura di proibire il celibato. E Augusto, alla fine del primo secolo, constatata una forte contrazione nelle nascite, incentiva nozze e natalità e promette alle donne maritate la liberazione da ogni tipo di tutela alla morte del padre, purché siano portate a termine almeno tre gravidanze. Al contrario la donna che tra i 18 ed i 50 anni risultasse ancora nubile non potrà ricevere eredità.

Bisogna dunque tentare almeno tre gravidanze, altrimenti, in forza delle leggi augustee, ogni lascito ereditario finisce in mano ai parenti paterni o allo Stato e si resta per tutta la vita sotto l'amministrazione di un tutore.

Limitare le nascite, specie nelle classi più elevate, diventa il principale obiettivo della ricca matrona, che è riuscita a portare a termine le tre gravidanze. La matrona può fare anche uso di pozioni contraccettive ed abortive, che impiegano ingredienti rischiosi come la ruta, l'ellèboro, l'artemisia (in epoca repubblicana s'ingerivano sostanze, anch'esse nocive alla salute, nella speranza di ottenere più facilmente la gravidanza).

Se la matrona vuole abortire in segreto deve fare attenzione perché, sin dall'epoca delle XII Tavole, la decisione sull'aborto spetta al futuro padre, che la può anche ripudiare per avergli sottratto il partum.

I medici si rifiutano di assistere aborti, che possono nascondere un adulterio, di cui essi diverrebbero complici, subendo le stesse pene previste per gli amanti.

Può accadere che la donna muoia per effetto della pratica abortiva. Se ciò avviene per un intervento chirurgico fallito, contro il medico c'è l'accusa di omicidio, se è per una pozione l'accusa è di avvelenamento. In ogni caso l'aborto non è punito in sé, ma solo se procura la morte della donna.

Le classi superiori provvedono a limitare le nascite anche con la continenza. La matrona che vive nella continenza viene ammirata ed approvata.

La limitazione delle nascite dipese anche dal fatto che si faceva coincidere, sulla scia di Platone e Aristotele, la miseria con la sovrappopolazione. Il primo proponeva di non nutrire i bambini deboli o i figli di genitori troppo vecchi o malsani o di scarso valore morale. Non ammetteva il diritto di procreare prima dei 37 anni e dopo i 55 per gli uomini; non accettava più di un determinato numero di figli per famiglia, consigliava gli aborti e l'abbandono dei bambini deboli o deformi. Il secondo si era limitato a proporre il matrimonio in tarda età, la volontaria sterilità e la pratica abortiva.


ADULTERIO E CONCUBINATO

Nella Roma arcaica l'adulterio era considerato reato solo se veniva commesso dalla donna, e veniva punito in modo più severo della vicina Grecia. Era addirittura prevista la pena di morte se il pater familias lo riteneva necessario.

Le donne ufficialmente dichiarate adultere, come le donne di rango inferiore (le lavoranti nei circhi, nei teatri, nella prostituzione), vengono private a scopo punitivo del diritto di contrarre un legittimo matrimonio e della facoltà di trasmettere pieni diritti civili.

Eppure nell'antica Roma c'era un notevole permissivismo per le relazioni sessuali con prostitute: un rimedio che lo stesso Cicerone consigliava affinché i giovani non cercassero di "godersi le mogli degli altri". Naturalmente si pretendeva che le ragazze arrivassero vergini al matrimonio.

Una cosiddetta donna di "facili costumi", se non ha solo occasionali rapporti con il marito della matrona (un romano libero non è mai colpevole di adulterio), può ufficialmente convivere in famiglia come concubina.

Il concubinato, importato con molte modifiche da Atene, diviene un istituto tipicamente romano. E' sulle concubine che, ad un certo punto della storia romana, possono essere fatti gravare i rischi del parto, evitati alle spose ufficiali, protette dal sistema sociale.

La matrona non ha difficoltà ad accettare le relazioni del marito con schiave o donne non rispettabili. Secondo quanto riferisce Svetonio, era la stessa moglie che forniva ad Augusto donne del genere.

Quando le orde dei barbari, sfondati i confini, dilagheranno in tutto il mondo romano occidentale, troveranno già molto diffusa la pia donna cristiana, una donna che forse somiglia di più alla donna-domus dei tempi arcaici.


LA PROSTITUZIONE A POMPEI

  • La prostituzione a Pompei è una delle poche occupazioni pubbliche riservate alle donne, le quali sono, in questo caso, quasi sempre schiave di origine orientale.
  • Il lavoro si svolge in postriboli (lupanares) che a Pompei sono oltre la ventina, posti preferibilmente presso i crocicchi di strade secondarie.
  • Essi sono caraterizzati da piccole celle munite di un letto in muratura e di una porticina di legno sopra la quale è spesso dipinta una scenetta erotica, indicativa del tipo di prestazione offerta.
  • La tariffa media (10-15 assi), che va tutta al tenutario (il quale paga una tassa giornaliera pari a una tariffa) corrisponde al prezzo di due porzioni di vino.
  • Le ragazze, che i proprietari acquistano per un prezzo pari a circa 750 volte la tariffa media di una prestazione, hanno nomi d'arte.
  • I clienti sono generalmente affezionati e grafomani (hic ego puellas multas futui).

EMANCIPAZIONE

La sicurezza, la stabilità e l'ordine interno della società civile, che si verificano dopo la fine delle guerre puniche e civili, rendono il ruolo protettivo del marito romano largamente superfluo. Nel più sicuro ed opulento ambiente sociale, già ben visibile nell’età ciceroniana (85 – 31 a.C.), di protettivo è rimasto solo il materno ed insostituibile ruolo femminile.

Il ruolo della materfamilias tende inevitabilmente a rafforzarsi e la donna comincia a partecipare alla vita sociale e intellettuale.

In epoca imperiale, attraverso l'istituto della coemptio fiduciae causa, le donne potevano sostituire il tutor legittimo con uno di loro fiducia: questi era un semplice prestanome e permetteva loro di disporre dei propri beni e di se stesse come meglio credevano.

Altra conquista giuridicamente rilevante, già presente in epoca repubblicana, fu il riconoscimento della parentela anche in linea femminile. Se in un primo tempo il rapporto fra madre e figlio non aveva alcuna rilevanza giuridica, in seguito a questo intervento fu concesso ad alcune donne di avere persino la tutela dei propri figli, nel caso di padre indegno.

Ora, se è benestante, per governare la domus le basta dare poche direttive alla servitù. Quanto ai figli la matrona ricca ne affida l'educazione al pedagogo di casa; la povera invece li manda alla scuola pubblica, dove vengono formati da magistri sottopagati.

A volte sole, a volte con il marito o con un'amica vanno alle terme, dove prendono il bagno in piena promiscuità con gli uomini, finché nel II sec. d.C. l'imperatore Adriano interviene a frenare comportamenti eccessivamente disinvolti e separa ambienti ed orari di donne e uomini.

Nelle immagini pervenute e nelle fonti letterarie non si vede mai una donna tra quelli che a prima mattina devono correre a porgere l'obsequium, il deferente saluto ai potenti, né tra la povera gente che, tessera annonaria alla mano, si presenta nei luoghi di distribuzione gratuita di generi alimentari. Sono cose che fanno gli uomini, i quali fanno anche la spesa. Si vedono invece donne alla fullonica (tintoria), che si fanno restituire la biancheria, dal calzolaio, dal sarto.

Quanto all'impegno politico bisogna considerare che l'unico imperatore che permise a una donna, sua madre, di entrare in senato per svolgere mansioni tradizionalmente riservate agli uomini, fu Eliogabalo.

Questo ovviamente non significa che importanti donne romane non parteciparono, seppure indirettamente, alla politica: sono ben note le vicende legate ai nomi di Valeria Messalina, Agrippina Maggiore, Giulia Agrippina, Sabina Poppea, Pompea Plotina, ecc. (leggi la scheda su Livia Drusilla Claudia).

L'emancipazione sociale, morale e politica d'altra parte è direttamente collegata a quella economica: solo tardivamente la legislazione autorizza la donna romana a trattenere per sé tutta la sua proprietà (a eccezione della dote che passa al coniuge), a essere padrona dei beni ereditati e a conservarli in caso di divorzio.

Tutto ciò però non le permetterà mai di acquisire dei veri diritti politici.

Nell'epoca di massima conquista delle libertà femminili a Roma era forte l'influsso delle religioni egiziane, e venivano largamente praticati riti sacri ad Iside e ad altre divinità importate dall'antico Egitto. Nella religione egiziana, infatti, la figura della donna appare sempre e costantemente collegata a quella di grande madre di tutti gli esseri viventi e di grande sposa. Alla natura femminile si riconosceva l'origine della vita, la sua tutela ed il suo armonioso sviluppo.

Molti storici, di allora e di oggi, fanno coincidere il decadere dell'istituto familiare, la crisi dei valori sociali e familiari con l'emancipazione femminile e con l'istituto del divorzio, senza rendersi conto che con questa emancipazione le donne chiedevano semplicemente di poter avere gli stessi diritti degli uomini.


BIBLIOGRAFIA

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Enrico Galavotti - Fabia Zanasi


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 11/09/2014