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Appendici
11. MILITARISMO
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1. La falange nell'esercito di Roma
L'antico cittadino romano in origine era un contadino e/o un allevatore
(la stessa contesa tra il contadino Romolo e il pastore Remo
rappresentò, in chiave figurata, il punto di arrivo di una progressiva
differenziazione di ruoli: non più contadino "e" allevatore ma o l'uno o
l'altro, fino alla maturazione di quell'antagonismo - in relazione
all'uso della terra - che a un certo punto divenne irriducibile,
esattamente come in altre zone geografiche caratterizzate dal sorgere
delle civiltà, e che si può sintetizzare nel conflitto tra il nomadismo
degli allevatori e la sedentarietà degli agricoltori).
Quando la rottura (che nel caso della leggenda di Romolo fu tragica)
trovò il suo compimento, prese l'avvio la progressiva trasformazione del
contadino romano in soldato. Tale trasformazione sarà accompagnata, come
in parallelo, da quella del possidente agrario in comandante militare e
quindi in uomo politico e amministratore di città.
Il primitivo esercito romano era formato da gruppi di combattenti che
appartenevano alle grandi famiglie aristocratiche (gentes), in grado di
pagarsi carri, cavalli, armi di ferro, nonché di disporre di un certo
seguito di clienti, bisognosi di protezione ma anche capaci di seguire
quelle famiglie nel corso delle guerre per conquistare terre e città.
I combattimenti non si svolgevano a cavallo ma a piedi: i cavalli
servivano per spostarsi velocemente sul luogo dello scontro. Questo
ovviamente non vuol dire che non esistesse nel primitivo esercito la
cavalleria, ma semplicemente che lo scontro decisivo avveniva tra fanti,
che rappresentavano il cosiddetto "esercito degli opliti schierati a
falange" (1). L'uso intelligente della cavalleria avverrà solo nel corso
delle guerre puniche.
Il comandante dell'esercito era il re, coadiuvato da un generale (magister
populi), il quale nominava un proprio sottoposto: il magister equitum.
Intorno al VI sec. a.C., sotto il regno di Servio Tullio, l'esercito
di Roma e di altre città sotto la sua influenza si organizza in modo
rigoroso: tutti gli uomini (quindi non solo gli aristocratici di
nascita) in grado di pagarsi un armamento completo di metallo (scudo,
corazza, schinieri, elmo, lancia e spada) e disposti a combattere
insieme con disciplina, potevano aspirare non solo a una spartizione del
bottino ma anche a un controllo politico della città. Era nato
l'esercito su base censitaria e nel contempo una strategia di tipo
politico-militare.
Quelli che erano inferiori a un certo censo (i cosiddetti proletarii,
perché censiti solo per la prole) potevano combattere solo con armi
rudimentali, fuori dallo schieramento della falange e dalla possibilità
di ottenere ruoli politici di rilievo.
L'ordinamento politico-istituzionale fu una conseguenza di quello
militare. Infatti dall'esercito riunito per combattere si sviluppò il
comizio centuriato, un'assemblea cittadina fondata sulle centurie,
l'unità base della legione. Composta inizialmente di 3.000 e poi di
6.000 uomini, la legione non era più comandata dal re, dopo il crollo
della monarchia, ma da due consoli. La cavalleria che l'affiancava aveva
300 unità per legione.
Una centuria era generalmente composta di 100 uomini, agli ordini di
un ufficiale: il centurione. Forse quando le legioni divennero due, ogni
centuria comprendeva solo 50 uomini.
Nei comizi centuriati i ceti benestanti disponevano sempre di più
voti, coi quali potevano eleggere i magistrati, i comandanti militari e
dichiarare la guerra o la pace. Si votava infatti per centurie, non
individualmente, e i più ricchi erano distribuiti in un maggior numero
di centurie.
Queste assemblee si tenevano fuori dalla linea sacra della città, il
pomerio, al cui interno non si potevano portare armi. Le proposte
venivano presentate dai magistrati e i cittadini si limitavano a
votarle, senza neppure discuterle.
Ecco il diagramma in cui si rappresenta il tipo e il numero di
centurie che ciascuna classe di cittadini doveva fornire in caso di
guerra:
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ORDINAMENTO
CENTURIATO
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1 CLASSE
18 centurie di cavalleria ;
80 centurie di fanteria pesante
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cavalleria
18 centurie
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2 CLASSE
20 centurie
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3 CLASSE
20 centurie
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fanteria pesante
120 centurie
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4 CLASSE
20 centurie
------------------------
5 CLASSE
30 centurie
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fanti armati alla
leggera
50 centurie
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PROLETARII
5 centurie
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operai
5 centurie
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I censimenti venivano fatti ogni cinque anni. I cittadini venivano
divisi in cinque classi, di cui le prime quattro includevano quelli con
patrimoni compresi tra i 100.000 e gli 11.000 assi. Nell'ultima era i
proletarii. A parte venivano censiti i fabri, cioè i tecnici necessari,
e i trombettieri. Ecco una tabella relativa ai cittadini romani censiti
come abili alle armi: |
Anni
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393-392
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340-339
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329
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294-293
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288-287
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280-279
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276-275
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Censiti
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152.573
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165.000
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150.000
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262.321
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272.000
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287.222
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271.224
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Durante la guerra decennale contro Veio, conclusasi nel 396 a.C., fu
introdotto il soldo, un contributo dei cittadini alle spese di vestiario
e di armamento dei soldati.
Ogni romano diventava abile alle armi praticamente a 17 anni, quando
indossava la toga virile ed entrava a far parte degli iuniores, dove vi
restava fino a 46 anni, dopodiché apparteneva ai seniores, cioè alla
riserva, richiamabile per una guerra in casi di particolare pericolo. Ma
esisteva anche una chiamata di emergenza detta tumultus che avveniva a
prescindere totalmente dal censo.
I plebei spesso rifiutavano le continue chiamate alle armi, poiché
dalle conquiste realizzate ricevevano solo le briciole e le famiglie
rimaste in patria facilmente cadevano vittime dei debiti, senza
considerare che, una volta entrato nell'esercito, il plebleo perdeva
automaticamente tutti i diritti faticosamente acquisiti con le lotte di
classe: poteva p.es. essere messo a morte per indisciplina, senza alcun
processo.
La disciplina era un aspetto fondamentale dell'organizzazione
militare. Ogni soldato prestava un solenne giuramento al suo comandante:
la parola sacramentum, con cui si designava questo atto di totale
fiducia e sottomissione, implicava l'idea della punizione severa per chi
trasgrediva le regole. Manlio Torquato nel 340 a.C. mise a morte il
figlio solo perché aveva ingaggiato un duello individuale (vincendolo)
senza la sua autorizzazione. Esempi come questo se ne possono fare tanti
e non a caso già a partire dal II sec. a.C. i giovani romani
cominciavano a manifestare una certa insofferenza per la leva militare.
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[1] In battaglia ogni legione si schierava su tre linee: hastati, che
avevano il compito di scagliare la lancia per scompigliare le file
nemiche; principes, i soldati migliori che intervenivano subito dopo per
lo scontro decisivo; triarii, che costituivano il rinforzo in caso di
necessità.
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2.
La struttura tattica manipolare
Nel corso della guerra contro i sanniti, intorno al 340 a.C., i romani
sostituirono la rigida falange oplitica, di derivazione macedone, capace
solo d'una grande forza d'urto ma tatticamente poco manovrabile, con
l'ordinamento per manipoli, che resterà la struttura fondante
dell'esercito romano per alcuni secoli, fino all'adozione delle coorti.
2 centurie = 1 manipolo
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3 manipoli = 1 coorte
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10 coorti = 1 legione
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Nel
corso della guerra contro i sanniti, intorno al 340 a.C., i romani
sostituirono la rigida falange oplitica, di derivazione macedone, capace
solo d'una grande forza d'urto ma tatticamente poco manovrabile, con
l'ordinamento per manipoli, che resterà la struttura fondante
dell'esercito romano per alcuni secoli, fino all'adozione delle coorti.
L'equipaggiamento
del soldato ora consisteva in una spada da punta e da taglio, una
corazza, l'elmo e gli schinieri, una lancia da getto (pilum), mentre
quella da urto (hasta) viene lasciata solo alla terza fila dello
schieramento (i triarii) e, particolare importante, si sostituisce lo
scudo rotondo di bronzo con uno rettangolare in legno.
Anche l'ordine delle schiere fu modificato: praticamente i manipoli
delle prime due linee (principes e hastati) si schierarono su un fronte
di 12 uomini per una profondità di 10, quindi un totale di 120 uomini.
In combattimento le centurie di ogni legione si disponevano in numero
di 20 per linea, cioè in 10 manipoli di 120 uomini ciascuno. La legione
era composta in genere di circa 4.000 uomini, ma poteva arrivare anche a
6.000.
Il manipolo aveva il vantaggio di poter combattere da solo, a
condizione che vi fosse grande coesione e prontezza. L'armamento era
uguali per tutti.
L'esercito romano era molto forte non solo a motivo della capacità di
risolvere prontamente i limiti tattici e strategici, ma anche perché era
un esercito di cittadini, non di mercenari, ed era anche un esercito di
alleati (latini e italici, almeno sino al II sec. a.C., poi chiunque
poté diventare alleato). Agli alleati spesso venivano assegnati compiti
specifici sulla base delle loro abilità o specialità tradizionali: p.es.
i cretesi venivano impiegati come arcieri, gli spagnoli come frombolieri
ecc.
Gli alleati conservavano un'autonomia formale nella politica interna,
ma dovevano rinunciare a una politica estera indipendente, anche perché
tutto il loro potenziale bellico (auxilia) doveva essere messo a
disposizione di Roma. Il che non sempre veniva accettato
tranquillamente, come p.es. testimonia la rivolta di gran parte degli
alleati nel 90 a.C. Non a caso i romani si guardavano bene dal creare
reparti militari etnicamente omogenei.
Le truppe ausiliarie raddoppiavano gli effettivi di una legione, al
punto che tra romani e alleati il potenziale umano mobilitabile era di
circa 800-900.000 soldati (circa il 6-7% degli arruolabili era
annualmente sotto le armi).
Di regola le legioni, almeno fino al II sec. a.C., non superavano mai
le quattro unità (due per console), ma in alcuni momenti delle guerre
puniche arrivarono oltre 20 (con la promessa della libertà si
arruolarono persino gli schiavi).
I consoli comandarono sulle legioni solo fino al I sec. a.C.,
dopodiché vennero sostituiti dai tribuni, per soddisfare meglio le
esigenze di eserciti divenuti molto più grandi; a loro volta i tribuni
sceglievano i centurioni, responsabili della disciplina,
dell'addestramento e del comando di ogni centuria. Il centurione veniva
scelto sulla base dell'esperienza e della capacità di comando. La sua
origine sociale in genere era modesta.
La lunga permanenza dei militari all'estero ebbe due effetti
inevitabili:
a) l'aumento dell'importanza dei contingenti alleati;
b)la nascita delle prime colonie di veterani, che contribuì alla
romanizzazione delle province.
Durante la fase espansionistica il soldato prendeva un denario al
giorno e partecipava, in misura crescente del suo grado, alla
spartizione del bottino. Un centurione poteva arrivare a più di 100
denari al mese; un tribuno a più di 200.
Quanto più militava nell'esercito, tanto più la terra lavorata in
Italia veniva abbandonata e tra i lavoratori agricoli aumentava la
proletarizzazione dei ceti più deboli.
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3. Le truppe ausiliarie
Le truppe ausiliarie
dell'esercito romano erano costituite da contingenti non in possesso
della cittadinanza romana, almeno nella fase repubblicana. Nel 90-88
a.C., dopo la rivolta di gran parte degli alleati (guerra sociale), la
cittadinanza venne estesa a tutti gli italici, il che dava loro diritto
di prestare servizio nella legione.
Questi contingenti potevano essere costituiti da elementi mercenari
oppure di foederati, provenienti da quei popoli liberi che vi erano
obbligati sulla base di patti di mutua alleanza con Roma. Ma soprattutto
erano genti sconfitte militarmente (quindi in primis le popolazioni
italiche), costrette, a titolo di tributo, a offrire un certo numero di
contingenti armati.
Gli italici (in
qualità di socii) avevano autonomia amministrativa e, sul piano
meramente locale, anche politica, ma la loro politica estera e militare
dipendeva strettamente da quella romana. Essi fornivano soprattutto
reparti di cavalleria: una specialità trascurata nell'ordinamento
militare di Roma. Ma fornivano anche reparti di fanteria leggera, in
quanto quella pesante era tipica della legione.
Gli auxilia svolgevano inoltre funzioni di supporto come ad es.
l'esplorazione, la ricerca, la presa di contatto con l'avversario, la
costruzione di fortilizi difensivi...
Quando l'impero romano raggiunse, verso la fine del periodo
repubblicano, la sua massima espansione, i contingenti alleati furono
tratti prevalentemente dalle popolazioni barbariche.
Dalla fine del I sec. d.C. gli auxilia saranno qualitativamente di
poco inferiori alle legioni. Il primo imperatore a offrire loro, ormai
reclutati in servizio permanente e non più solo in occasione di campagne
militari, una paga mensile e un equipaggiamento uniforme, fu Augusto, il
quale stabilì anche che rimanessero di stanza nella loro regione di
reclutamento, ad eccezione del comando delle singole unità, che veniva
sempre affidato a ufficiali superiori romani (tribuni), scelti
inizialmente tra i giovani figli dei senatori, nell'espletamento del
primo degli incarichi militari tipico della loro carriera politica, e
successivamente, dopo le riforme di Claudio, tra l'ordine equestre.
Ai tempi di Traiano gli auxilia erano divenuti così importanti che
nella guerra in Dacia furono proprio loro a sostenere i principali
scontri col nemico. Nella Colonna Traiana i legionari, essendo
considerati delle truppe specializzate, vengono ritratti non tanto nei
combattimenti (a meno che il loro intervento non fosse assolutamente
necessario), quanto nelle mansioni tecniche o logistiche.
La ferma di un ausiliario durava da 25 a 28 anni. Si prestava servizio
in unità di fanteria, la cui formazione prendeva il nome di coorte, con
effettivi che potevano andare da 500 uomini (le centurie di 82-83 fanti
ciascuna) a 1.000 (dieci centurie di 100 fanti). A dir il vero quando la
coorte fu inventata da Gaio Mario i manipoli erano soltanto tre, per un
totale di 300 uomini.
Le coorti di fanteria potevano essere integrate con elementi di
cavalleria: p.es. sei centurie da 65 fanti e quattro torme da 30
cavalieri, oppure 10 centurie da 76 fanti ciascuna e sei torme di 42
cavalieri ciascuna.
Invece le unità di cavalleria pura (le ali) erano composte, a seconda
dei casi, di 16 torme da 32 cavalieri o da 24 torme da 42 cavalieri.
Le coorti, a seconda della tipologia, erano comandate o da un prefetto
o da un tribuno. I ranghi dell'ufficialità inferiore erano costituiti da
centurioni e decurioni.
Un ausiliario, come paga, prendeva tre volte meno di un legionario, ma
alla fine della sua carriera gli veniva assicurata la cittadinanza
romana, a lui e alla sua discendenza legittima.
Verso gli ultimi del I sec. d.C. si crearono i "numeri", cioè quei
reparti militari la cui consistenza non superava le 500 unità. Questo
permetteva di arruolare facilmente gli elementi barbarici, che
all'interno dell'esercito romano conservavano la propria lingua, la
propria uniforme, le proprie armi, il proprio modo di combattere. Alla
fine diventeranno loro i veri auxilia.
Adriano istituzionalizzò i "numeri" e il loro impiego crebbe tanto che
alle soglie dell'età diocleziana costituirono il fulcro di un esercito
completamente imbarbarito.
Non dimentichiamo inoltre che nel 212 d.C., con la Constitutio
Antoniniana dell'imperatore Caracalla, la cittadinanza romana venne
estesa a tutti i sudditi, rompendo così, definitivamente, quella
differenza di rango tra legioni e auxilia.
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4. Esercito e
Generali
Al tempo dei primi grandi generali romani, come Mario, Silla,
Pompeo e Cesare, l'esercito continuava a essere riservato ai cittadini,
ma, a partire dalla seconda guerra punica, fu abbattuto in misura
consistente il livello minimo di censo necessario per essere arruolati
nelle legioni: da 11.000 a 4.000 assi, praticamente potevano arruolarsi
anche i cittadini quasi poveri.
A dir il vero già Gaio Mario, in occasione della guerra giugurtina
(111-105 a.C.), aveva deciso di arruolare nella legione anche i
volontari di estrazione proletaria.
D'altra parte le continue guerre avevano prodotto una crescente
proletarizzazione dei ceti contadini tradizionali e una loro conseguente
urbanizzazione, senza considerare che i ceti più abbienti tendevano a
sottrarsi alla leva, in quanto le esigenze della politica estera
prevedevano sui campi di battaglia decine di migliaia di uomini per
molti anni di seguito.
Già ai tempi di Mario e Silla era apparso molto chiaro che eserciti di
grandi dimensioni avevano bisogno di comandanti sperimentati, mossi da
ambizioni non solo militari ma anche politiche. E questa esigenza
determinerà, con Cesare e soprattutto con Augusto, la nascita di
istituzioni politiche propriamente imperiali.
Lo stesso soldato, non potendo contare su fortune personali, tendeva
progressivamente a fare della guerra una professione e a considerare
come punto di riferimento il proprio generale e non più il governo
cittadino, ovviamente sempre nella speranza di poter un giorno tornare a
vivere su un pezzo di terra godendosi la meritata pensione.
Gli stessi generali favorirono così tanto i loro veterani da finire
col rompere i rapporti col senato. Cesare arrivò persino a insediarli
stabilmente nelle province e anche Ottaviano sfruttò nella stessa
maniera le terre conquistate in Egitto.
Fu soprattutto la concessione della cittadinanza agli italici dopo la
guerra sociale del 90-88 a.C. che permise di soddisfare tutte le
maggiori esigenze delle grandi compagne militari di Silla, Pompeo,
Cesare, Antonio e Ottaviano. Alla fine delle guerre civili le legioni
erano diventate più di 50 e ognuna di esse disponeva di circa 6.000
uomini (praticamente il 10% della popolazione italiana, al tempo di
Augusto, era sotto le armi).
A partire da Augusto l'imperatore era diventato il capo supremo di
tutti gli eserciti e ben difficilmente un generale vittorioso avrebbe
potuto aspirare a un dominio anche politico.
Senonché proprio sotto Augusto si abbandonò la politica di conquista,
preferendo fare dell'impero un organismo chiuso da frontiere, diviso dal
mondo esterno.
Quanto, in questa decisione di Augusto, di limitarsi a consolidare le
conquiste già realizzate, contribuì la disfatta di alcune sue legioni
nelle campagne germaniche, è facile capirlo, e la storia
politico-militare dell'impero, d'altra parte, gli dette ragione, visto
che il suo ordinamento rimase in vigore sino al III secolo.
Egli, nello stesso tempo, ridusse le legioni a 28 (divenute poi 25
dopo la disfatta di Teutoburgo), le stanziò stabilmente nelle province e
istituì un tesoro militare con cui pagare, in denaro o in terre, i premi
di congedo.
L'area geografica di reclutamento delle legioni si era estesa alle
stesse province, tanto che alla fine del II sec. solo una minoranza di
legionari proveniva dall'Italia.
E il legionario, considerando la precarietà in cui vivevano tanti
strati sociali nell'Italia imperiale, non se la passava male: è vero che
doveva restare sotto le armi per un periodo molto lungo (anche fino a 28
anni), ma è pur vero che percepiva una paga annuale di 200 denari,
godeva di un prestigio sociale indiscusso e di una sicurezza che andava
ben oltre il periodo di leva.
Di regola non poteva sposarsi, però poteva vivere con una o più donne
(almeno a partire da Settimio Severo), da cui poteva avere dei figli,
benché solo il legionario fruiva della cittadinanza romana. I figli di
queste unioni di fatto potevano essere legittimati secondo il "diritto
delle genti", per cui potevano anche ereditare, se pagavano una tassa
del 5% sull'eredità.
In ogni caso, una volta andato in congedo, al legionario veniva data
facoltà di legittimare una delle unioni contratte durante il servizio
militare. In tal caso i figli ricevevano la cittadinanza romana, ma solo
se nati dopo il riconoscimento. Gli stessi soldati, privi di tale
cittadinanza, l'acquistavano in automatico al momento del congedo.
Nei primi secoli dell'impero i legionari erano almeno 160.000, e
altrettanti gli ausiliari, su una popolazione di circa 50 milioni di
abitanti.
Ogni soldato, a qualunque grado appartenesse, era libero di venerare i
propri dèi, specie a partire dal momento in cui il reclutamento avveniva
su base locale, per aree geografiche (da Adriano in poi), e il soldato
poteva vivere, di regola, là dove era stato arruolato.
Tuttavia, ogni soldato era tenuto a prestare un certo culto anche
all'imperatore, il che era un ostacolo insormontabile a quanti
professavano religioni ebraico-cristiane. Solo nel 314 il concilio di
Arles tolse ufficialmente ai cristiani il divieto di servizio
nell'esercito pagano.
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5. Accampamento
militare romano
L'accampamento militare (castrum) era di pianta rettangolare o quadrata
con lati lunghi circa 500 m., circondata da un fossato (fossa) profondo
circa 2 m. e da un terrapieno sormontato da una palizzata (vallum),
tagliati da due strade perpendicolari, il decumanus (da est a ovest) e
il cardo (da nord a sud), al cui incrocio vi era il pretorium, la tenda
del comando.
La via praetoria (dalla porta pretoria D sino alla porta decumana B)
portava al quartiere del comandante. Invece la via principalis (che
andava dalla porta A sino alla B) portava agli uffici del tribuno e del
prefetto.
Il terreno veniva scelto possibilmente nei pressi di un fiume e si
faceva in modo che ogni campo disponesse di bagni, magazzini, stalle,
spazi aperti per parate e addestramenti; fuori del campo si potevano
costruire anche anfiteatri. Le tende erano in genere per otto militari;
ovviamente per gli ufficiali e i sottoufficiali erano previsti alloggi
più ampi.
All'esterno i fossati erano difesi da pali acuminati conficcati verso
l'alto e inclinati in avanti. Alcune porte erano protette da torri di
guardia.
Quando l'accampamento era fisso, le tende venivano sostituite da case in
muratura e il terrapieno da mura robuste (moenia). Il soldato passava in
questi accampamenti anche fino a 28 anni della propria vita.
Poiché una legione contava circa seimila uomini, questi campi facilmente
si trasformavano in piccole città, attorno alle quali si creava una vita
collaterale, fatta di mercanti, artigiani, donne. Proprio da questi
insediamenti nacquero importanti città come p.es. Torino, Verona, ma
anche Chester, York in Inghilterra, ecc. |
6. L'esercito
barbarico
L'esercito imperiale, tranne i rari casi di Traiano e Settimio Severo,
non condusse mai campagne di conquista, ma si limitò a svolgere compiti
di difesa, di romanizzazione e urbanizzazione delle aree provinciali, di
promozione dei ceti meno abbienti, in quanto diede ai soldati la
possibilità di una certa emancipazione sociale e ai generali la
possibilità di diventare imperatori.
Gli eserciti stanziati nelle province per lunghi anni si legarono molto
strettamente ai loro generali, tant'è che la presa del potere attraverso
l'esercito, dopo l'esempio di Settimio Severo, fu una prassi costante
del III secolo.
Quando le risorse economiche imperiali diminuivano, l'esercito cercava
di garantire per sé una parte cospicua: di qui i frequenti e abbondanti
donativi da parte degli imperatori, i saccheggi di ricche città (come
p.es. Aquileia nel 238) e le continue vessazioni ai danni delle
campagne.
L'esercito era diventato una struttura privilegiata, costosa (lo
stipendio dei militari era di tutto rispetto), pur con una base
demografica modesta rispetto alle esigenze di sicurezza, tant'è che le
invasioni di Quadi e Marcomanni, sotto Marco Aurelio, mostrarono che lo
sfondamento delle frontiere non era cosa impossibile.
Come noto, ai tempi della fase repubblicana il politico era a un tempo
soldato e magistrato (e spesso anche sacerdote). Viceversa, con la
nascita dell'impero il principe si serviva dei senatori per governare le
province dove erano stanziate le legioni. Un senatore era il comandante
di ogni legione. I comandi militari servivano ai senatori per acquisire
ancora più potere, prestigio, ricchezze.
Col passare del tempo, soprattutto in virtù della professionalizzazione
della carriera militare, i comandi delle legioni venivano sempre più
affidati all'ordine equestre, e proprio da questo ordine, non più quindi
dal rango senatorio, finiva coll'emergere il nuovo imperatore.
Sul piano militare gli equites avevano più esperienza dei senatori e
spesso erano favorevoli a processi politici assolutistici, che
permettessero di aumentare il loro potere.
Viceversa, la classe senatoria non amava mettere in discussione i
privilegi acquisiti secoli prima. Difficilmente un senatore avrebbe
accettato l'idea che un governo imperiale potesse essere conquistato e
mantenuto con il solo aiuto dell'esercito.
Di fatto però la tendenza era proprio questa, al punto che divenne una
prassi consueta quella di arruolare, nelle file dell'esercito, gruppi di
barbari stanziati entro i confini in virtù di specifiche intese o
addirittura esterni all'impero.
Questo scollamento tra aspetti militari e politici fece sì che durante
la crisi del III secolo i grandi comandanti provinciali si
trasformassero facilmente in usurpatori.
Diocleziano (284-305), che ovviamente non poteva più mettere in
discussione né l'autonomia dell'apparato militare né il suo carattere
professionalizzante, escogitò l'idea di suddividere le province in
piccole unità amministrative, onde evitare la concentrazione del potere
nelle mani di un solo governatore.
Nello stesso tempo decise di affidare il potere civile delle province a
uomini di varia provenienza, ma sempre più funzionari imperiali che
grandi notabili: il che non faceva certo piacere alla vecchia
aristocrazia senatoria.
Questo in sostanza significava che all'esercito, i cui effettivi erano
stati raddoppiati, giungendo a mezzo milione (il 10% di tutta la
popolazione dell'impero), veniva sì riconosciuta ampia autonomia, ma a
condizione che non si mettesse in discussione quella politica e
amministrativa dei funzionari.
In un certo senso le legioni, nella loro organizzazione classica, furono
smantellate. I reparti, generalmente di mille uomini, chiamati limitanei
(da limes, confine), dovevano distinguersi sulla base dell'armamento e
dei compiti: p.es. i cavalieri mori, gli arcieri africani, i cavalieri
catafratti di derivazione partica... I limitanei potevano essere di
cavalleria o di fanteria, o reparti specializzati di estrazione
provinciale o barbarica (i cosiddetti numeri).
Esisteva anche un nucleo di soldati che formava l'esercito a
disposizione dell'imperatore, una sorta di protezione personale: i
comitatenses, anch'essi divisi per mille.
Moltissimi di questi soldati erano di origine barbara, anche perché la
leva era molto dura e spesso lontana dai centri urbani più significativi
dell'impero, per cui la renitenza tendeva ad aumentare, incoraggiata
altresì dai grandi proprietari terrieri, che avevano continuamente
bisogno di manodopera e che preferivano pagare un tributo monetario pur
di tenersela.
Gli elementi barbarici dell'impero o comunque quelli meno romanizzati
divennero una parte così significativa dell'esercito che giunsero anche
a posizioni di comando, come p.es. Stilicone (1), un generale vandalo di
Teodosio.
Costantino fece crescere i comitatenses al punto che arrivarono ad
essere quasi la metà degli effettivi dell'intero esercito imperiale. I
reparti non solo erano specializzati ma venivano anche reclutati tra gli
elementi migliori sul piano fisico e sociale, erano inoltre pagati
meglio dei limitanei e avevano particolari privilegi (p.es. l'esenzione
fiscale), senza considerare che potevano alloggiare in prossimità dei
centri urbani e naturalmente potevano essere comandati da generali di
origine barbara.
Le tribù barbare assunsero un'importanza così grande che dopo la
battaglia di Adrianopoli (378), in cui cadde lo stesso imperatore
Valente, i Goti vincitori ottennero di essere stanziati tutti
all'interno dei confini imperiali e qui iniziarono a romanizzarsi.
Ormai qualunque tendenza aristocratica di opporsi all'integrazione coi
barbari andava ritenuta del tutto antistorica, e infatti questa politica
senatoria subì uno smacco clamoroso proprio col sacco di Roma, compiuto
dai Visigoti di Alarico nel 410. L'occidente era destinato a veder
nascere i regni romano-barbarici.
Viceversa in oriente i bizantini riuscirono a tener lontane dai confini
le tribù barbariche o comunque a conviverci più o meno pacificamente per
un altro millennio, conservando le strutture romane, soggette agli
influssi del mondo ellenico e a quello culturale del cristianesimo.
Costantino aveva perfettamente capito che se si voleva continuare la
civiltà greco-romana in nome del cristianesimo bisognava anzitutto
spostare la capitale a Bisanzio (cosa che fece già nel 330), e la storia
s'incaricò di dargli ragione.
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[1] Stilicho
Flavius (360-5 ca-408), vandalo di origine ma romano di educazione, fu
l'ultimo grande difensore dell'impero romano d'occidente dalle grandi
invasioni barbariche.
Grazie a una fortunata missione alla corte persiana, acquistò grande
favore presso l'imperatore Teodosio, raggiungendo una posizione
preminente a corte, tanto che Teodosio verso il 392 gli affidò il
comando supremo delle armate imperiali.
Quando Teodosio morì a Milano nel 395, Stilicone divenne tutore del
figlio di lui, Onorio, cui era stato affidato il governo della parte
occidentale dell'impero, mentre ad Arcadio quella orientale.
Stilicone si trovò costretto a fronteggiare varie tribù barbariche,
tra cui i visigoti che, scontenti della Tracia (loro assegnata da
Teodosio dopo la sconfitta di Adrianopoli), avevano preso a saccheggiare
e occupare alcuni territori della Grecia, dell'Epiro e persino del nord
Italia.
Stilicone ebbe la meglio, costringendo i visigoti a ripiegare oltre le
Alpi e promettendo loro la conquista dell'Illiria, oggetto di disputa
tra le due parti dell'impero.
Quando nel 407 i visigoti tornarono a minacciare nuovamente l'Italia,
in quanto non avevano ottenuto l'Illiria, Stilicone indusse l'imperatore
Onorio ad accettare il tributo, ma così facendo si attirò l'odio
dell'intera amministrazione romana e soprattutto del senato di Roma, che
lo accusò di complicità col nemico.
Stilicone fu eliminato in una rivolta militare a Ravenna, dopo un
processo sommario, e i visigoti ne approfittarono immediatamente per
scendere in Italia e saccheggiare la stessa Roma nel 410. Col bottino
trafugato cercarono d'imbarcarsi per l'Africa, ma le loro navi furono
travolte in una tempesta nello stretto di Messina, e il loro capo,
Alarico, morì presso Cosenza. Gli ultimi visigoti finirono a cavallo dei
Pirenei. La capitale dell'impero d'occidente fu trasferita a Ravenna.
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Enrico Galavotti
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