STORIA ROMANA


ECONOMIA DI CONSUMO E DI SCAMBIO NELL'ANTICA ROMA

Le origini agrarie di Roma - Sviluppi territoriali e sviluppi commerciali
- L'affermarsi di un'economia 'mista' - Il declino dei commerci

1. Fase arcaica: le origini agrarie di Roma

Nella fase arcaica (quella gentilizia), coincidente all'incirca con il periodo monarchico e con i primi secoli della Repubblica, non sono presenti - quantomeno in misura sensibile - attività di carattere commerciale.

L'economia e la produttività sono quasi esclusivamente agricole (pure con qualche sporadica attività di tipo artigianale, sia nelle città che nelle campagne).

2. Sviluppi territoriali e sviluppi commerciali

E' il processo di crescita dei territori - dovuto allo scontro, spesso non volontario, con altri popoli o con altre potenze, quale quella mediterranea cartaginese - ad innescare, assieme ad altri aspetti, anche la crescita delle attività commerciali e mercantili.

Ed è il ceto alto-plebeo o equestre a farsi promotore di molte delle nuove attività economiche, connesse peraltro all'accrescimento territoriale di Roma, ovvero al nuovo assetto sociale determinato da una tale situazione.

Tali ceti, assieme ai liberti, assumono almeno tendenzialmente il controllo delle attività finanziarie, commerciali, degli appalti pubblici (legati alle opere pubbliche e al finanziamento delle guerre di conquista)… ma anche, in buona parte, di altri aspetti della vita sociale romana, quali quelli giuridici e politici.

D'altra parte - in contrapposizione a questi ceti e alle loro attività - le classi patrizie o nobiliari rimarranno maggiormente attaccate alle attività agricole e alle proprietà fondiarie: fonte primaria (anche a livello ufficiale) delle loro ricchezze.

3. L'affermarsi di un'economia 'mista'

Ma l'estensione dei commerci e dei mercati non può non costituire un potente richiamo (date le facili prospettive di arricchimento che fornisce) anche per i ceti agrari e latifondistici, ovvero per la nobilitas senatoria.

A partire soprattutto dagli anni della tarda Repubblica e in quelli successivi dell'Impero (soprattutto nei momenti di maggiore fioritura economica), si assiste così a un'evoluzione delle proprietà fondiarie (dette "villae") in vere e proprie 'industrie capitalistiche', finalizzate a un incremento della produttività - a sua volta finalizzata al commercio -, sia attraverso una notevole specializzazione produttiva che con un'intensificazione delle colture.

Fenomeno interessante, però, è anche il fatto che in esse permangano anche delle attività produttive finalizzate al mero consumo, il cui fine è cioè il semplice mantenimento della stessa proprietà fondiaria e dei suoi abitanti (la nobiltas e i suoi 'familii').

Accanto a una produzione di carattere industriale (se così si può dire) e a sfondo capitalistico, rimane dunque in vigore anche un altro tipo di produzione, di natura decisamente più arcaica, il cui fine da una parte è l'autoconsumo e dall'altra la conservazione di una 'via d'uscita' potenziale dalle eventuali strettoie dei commerci.

Ma, oltre a essere uno strumento di tutela sul piano economico per i latifondi e i loro possessori (si ricordi a tale riguardo l'estrema instabilità delle attività commerciali antiche, instabilità le cui cause risiedono in una miriade di fattori: da quelli monetari alle incerte vie di traffico…), una tale conduzione di natura "autarchica" è anche il prodotto del perdurare di un tipo di mentalità che vede nel "bastare a se stessi" - possibile proprio soltanto attraverso una rendita fondiaria - la linea di demarcazione tra nobili e plebei, tra ceti alti e non.

Si parla, a tale proposito, di una "economia a doppia strategia", nella quale, accanto e nonostante gli investimenti di natura commerciale, è lasciata aperta una porta anche a un'economia di natura autarchica, secondo un modello di vita più antico (incentrato sui valori nobiliari dell'otium e della libertas - ovvero del vivere senza lavorare, ma soprattutto senza preoccupazioni di carattere economico).

Ma anche i ceti economicamente e socialmente emergenti, ovvero gli equestri e i liberti, pur molto legati all'Impero e alle attività che in esso si svolgono - che stanno peraltro alla base della loro stessa ricchezza -, hanno la tendenza a investire i propri patrimoni monetari in capitali di tipo immobiliare, ovvero nelle terre, e a vivere - secondo uno stile aristocratico - dei proventi di queste ultime: un doppio movimento, insomma, dal latifondo (ovvero da un'economia 'di consumo') verso il commercio e gli affari, e da questi verso il latifondo!

Si può quindi dire che, tutto sommato, le attività capitalistiche - almeno nel pieno del fiorire delle attività commerciali e dello sviluppo delle vie di comunicazione - si diffondano in senso "trasversale", coinvolgendo così un po’ tutti i ceti (non solo quelli più abbienti) della società romana.

D'altra parte, però, l'insicurezza congenita di un tale tipo di attività, porterà anche a un movimento inverso: un po’ tutti coloro che abbiano soldi da investire, infatti, tenderanno a cercare un rifugio economico più solido nel possedimento di terre e di beni immobili.

Nei periodi di maggiore splendore dell'Impero, quindi (ma anche in quelli immediatamente precedenti e seguenti) la tendenza dominante sarà quella verso un'economia mista, rivolta in parte ai commerci e in parte, al contrario, all'autoconsumo - secondo l'antico mito dell'autarchia tipico delle classi alte.

4. Il declino dei traffici

Con il declinare dei traffici - parallelo, peraltro, a quello degli stessi apparati imperiali - si verificherà un'inversione di tendenza sul piano della produttività e dell'economia.

Le classi tipicamente agrarie difatti - tanto quella senatoria (ovvero quella non solo più ricca, ma anche maggiormente vincolata alla terra) quanto gli altri proprietari fondiari (essenzialmente i cavalieri e i liberti) - ripiegheranno sempre di più verso la pratica di un'economia di autoconsumo, e ciò ovviamente a scapito ulteriore dei traffici e delle attività di scambio.

Se i primi poi (de sempre - per tradizione politica e culturale consolidata - ostili o comunque critici nei confronti delle forze e degli apparati dell'Impero) avranno buon gioco a prendere le distanze dallo Stato imperiale, oramai in evidente declino, e a rifugiarsi all'interno dei loro stessi domini fondiari (divenenti sempre più veri e propri centri di autosussistenza, estranei alla vita che si svolge al loro esterno), gli altri (molto più legati agli apparati dell'Impero, a partire dai quali hanno costruito gran parte della loro ricchezza e della loro fortuna) subiranno invece le conseguenze di una tale situazione, rimanendo imprigionati in quelle stesse maglie di potere che li avevano precedentemente sostenuti e aiutati a emergere socialmente.

In ogni caso, la tendenza economica dominante di questo periodo sarà quella a chiudersi all'interno dei propri possedimenti, quella cioè verso l'autosussistenza (o comunque la tesaurizzazione delle proprie ricchezze) - non certo quella verso il commercio e il reinvestimento dei beni.

D'altra parte, un'economia di scambio quale quella antica (che poggia su basi produttive - schiavili e agrarie -, finanziarie - si pensi solo alla costante carenza di moneta circolante e alle banche - e su un sistema di trasporti - come per esempio le antiche vie di transito - estremamente fragili) non potrà resistere a lungo ad alcuni fattori critici, quali le invasioni di popoli ostili o il calo improvviso della produttività (dovuto in gran parte alla mancanza di manodopera schiavile), che difatti ne decreteranno la fine praticamente in soli due o tre secoli.

Concludendo, possiamo dire che la parabola dell'economia romana antica inizi sotto il segno della produzione finalizzata al consumo e si concluda di nuovo sotto di essa, conoscendo però - nei periodo di maggior splendore dell'Impero - una parentesi 'mista', basata tanto sui commerci quanto sull'autoconsumo.


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Adriano Torricelli

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 11/09/2014