CONTRO ULISSE
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LA GRANDE SIGNORA CIRCE
L'approdo sull'isola e l'incontro dei compagni di Ulisse con Circe Dopo essere riusciti a evitare il primitivismo dei sardi Lestrigoni, Ulisse e i suoi 46 compagni approdano all'isola Eea, presso il capo Circeo o in un promontorio del Lazio, un tempo lagunoso. (1) L'isola era abitata da Circe, figlia, secondo alcuni, del Giorno e della Notte; secondo altri, del Sole e della Luna (Ecate) o della ninfa Perse, "sorella germana di Aiete pericoloso"(137), "dea tremenda con voce umana"(136). Aiete o Eeta fu padre di Medea e traditore degli Argonauti. Secondo una leggenda Circe sarebbe stata innamorata di Glauco, senza esserne corrisposta, perché egli amava Scilla, che Circe, per gelosia, cambiò in un mostro marino, dopo avere avvelenato la fonte presso la quale i due amanti erano abituati a ritrovarsi insieme. Gran carattere, questa Circe "dai bei riccioli"(136, 220), che Omero e tutte le leggende qualificano come "maga", perché così appariva, ad una società non più "naturalistica", come appunto quella omerica, chiunque avesse grandi conoscenze delle proprietà terapiche o venefiche di erbe e radici, di cui l'isola peraltro era ricca. Circe viveva in luoghi remoti, non civilizzati, "tra la fitta macchia e la selva"(150), in un'economia basata sull'autoconsumo di prodotti della terra, del mare, della cacciagione (156-186), anche se i suoi "bei riccioli" fanno pensare a una donna dell'alta società, ma che in realtà nel contesto indicano soltanto una simbologia standardizzata di "bellezza femminile". Quando i compagni di Ulisse la incontrano scoprono che sapeva anche "tessere" perfettamente (222), come Penelope, Calipso..., e che aveva una "voce bella" quando cantava (221). Altrove si dirà che aveva conoscenze anche nel campo della marineria, in quanto insegnò un nodo a Ulisse (VIII, 447-8). Ulisse e i suoi compagni approdano casualmente nell'isola, essendosi perduti in mezzo al Tirreno, e quando la comitiva di 23 uomini, andata in perlustrazione, s'accorge delle abitazioni costruite "con pietre squadrate"(211) e "porte lucenti"(230) in cui viveva Circe (2), subito rimane colpita da un fatto molto strano: i lupi e i leoni che vi fanno la guardia sono del tutto mansueti. Euriloco, che comandava la spedizione, s'insospettisce di questo ma anche del fatto che, abituato a distinguere il sacro dal profano, abituato a considerare la religione come qualcosa di specifico, di oggettivamente determinabile e di sicuramente contestualizzabile in uno spazio urbano, le "porte lucenti", tali perché rivestite di bronzo, gli sembrano essere l'ingresso non di un palazzo residenziale ma di un tempio sacro, cioè di un contenitore il cui contenuto non gli è familiare. Avendo perso la memoria di una religione i cui misteri altro non erano che conoscenze naturalistiche, e non riuscendo a spiegarsi il contrasto tra ferocia innata e mansuetudine acquisita da parte degli animali di guardia, decide di rifiutare l'invito ad entrare fatto loro da Circe. Successivamente verremo a sapere dallo stesso Euriloco che non erano animali feroci fatti diventare mansueti dalla maga, ma uomini trasformati in docili bestie (433). Dalla paura del confronto al pregiudizio: il passo, come si vede, è breve. Lupi e leoni erano stati messi lì per scoraggiare i pavidi, per tenere alla larga i curiosi. Sono mansueti a causa dei "filtri maligni" di Circe (213) - scrive il misogino Omero -, ma a lei servono semplicemente come forma di allarme: il fatto che si comportino esplicitamente come animali domestici è indicativo della presenza di un carattere non ingenuo da parte dei marinai, che avrebbero dovuto andarsene, vinti dalla paura, ma che invece, abituati alle mille difficoltà di una vita travagliata, non si lasciano intimorire più di tanto. Il superamento di questa prova, unitamente al vociare roboante e corale con cui chiamano Circe, è motivo sufficiente per farla agire nel modo come vedremo. "Diamole una voce"(228) non vuol dire semplicemente "chiamiamola", ma "facciamoci sentire", ed è frase detta da Polite, che qui stranamente Ulisse definisce "il più caro e fidato tra i compagni"(225), pur avendo egli affidato la missione a Euriloco, il quale non rimase fuori per paura ma perché sospettoso di trame e inganni, proprio come Ulisse. Polite invece qui rappresenta, in quanto "capo di forti"(224), il tipo spaccone, lo smargiasso, che non si lascia impressionare né dalle belve che in teoria avrebbero dovuto essere feroci, né dalla lucentezza di un portone che avrebbe dovuto indicare la riservatezza di un luogo sacro (forse dedicato ad Atena). E' Circe che, vedendo questo, ha già capito con chi ha a che fare, memore di amare esperienze passate: se quegli uomini vogliono entrare solo perché vedendo una donna sola in un palazzo del genere pensano di poterla circuire come vogliono, fare di lei oggetto del loro arbitrio, avranno - secondo una felice legge del contrappasso, visibile anche laddove viene usato lo strumento della "verga" - ciò che meritano. Poiché sa cosa piace agli uomini: avere potere e godere, Circe offre loro di sedersi su "troni e seggi"(233) e di cibarsi a sazietà con "formaggio, farina d'orzo, pallido miele, vino di pramno"(234-5), cioè in sostanza una dolce torta accompagnata con vino rosso e asprigno, facendo loro credere che il "bello" deve ancora venire. Circe sa di non potersi difendere in altro modo che con l'inganno: è troppo grande la sproporzione tra la sua cultura, le sue forze, la civiltà ch'essa rappresenta e il mondo del nemico che la circonda; l'uso stesso della verga appare come un tentativo un po' puerile di dimostrare che dietro gli effetti dell'infuso di bromuro si celava una sorta di magia. Curioso che come conseguenza della trasformazione in porci, Omero ponga la dimenticanza della "patria" (qui del tutto fuori contesto) e non la perdita della virilità maschile, il che poi lo fa cadere in palese contraddizione quando da un lato dice che dovevano "obliare del tutto la patria"(235-6) e dall'altro che avevano "la mente ben salda"(240). La condanna in realtà era proprio questa, ch'essi dovevano sentirsi uomini solo nella mente, mentre nel corpo erano diventati come eunuchi, anche se simbolicamente trasformati in maiali. (3) Euriloco, rimasto fuori, non può aver visto la metamorfosi ferina dei suoi compagni; al massimo si era impensierito del fatto che non erano più tornati indietro, e per questo s'era convinto che fossero tutti misteriosamente morti. Qui ci sono due versetti che cozzano tra loro: il 244, ove si dice che "in fretta tornò alla nave", col che il lettore può anche pensare ch'egli avesse visto la suddetta trasformazione, e il 260, in cui al contrario è scritto che "rimase a lungo a spiare" (con le porte serrate "spiare" qui vuol dire semplicemente "attendere"). Sia come sia, è qui interessante il fatto che l'intrepido Euriloco, "simile a un dio"(205), una volta ritornato alla nave, appaia come un codardo: Circe l'aveva talmente terrorizzato, senza peraltro fargli nulla, ch'egli non ha neppure la forza di riferire i fatti, e quando Ulisse gli chiede di accompagnarlo sul posto, egli declina immediatamente l'invito temendo di fare la stessa fine. Non si tratta solo di un escamotage dell'autore di far risaltare l'eroismo di Ulisse, nel confronto coi suoi compagni (sotto questo aspetto la cosa, pur avendo un contenuto drammatico, appare quasi divertente), ma si tratta anche del fatto che qui Euriloco rappresenta la coscienza moderna che teme il passato o un presente non facilmente decifrabile e lo fugge senza soluzione di continuità. Egli ha paura che il passato prenda il sopravvento sul suo presente e supplica Ulisse di lasciarlo sulla nave, cioè di non riportarlo in un luogo e in un tempo le cui coordinate semantiche gli sfuggono completamente. Ulisse insomma se la deve veder da solo con Circe. L'incontro di Ermes con Ulisse Il "fermo" o "duro dovere"(273) che impone a Ulisse di andare - da solo - a recuperare i compagni, non è che un mix di responsabilità nei confronti dei suoi subordinati e di spirito d'avventura, la ricerca di emozioni forti, la curiosità di misurarsi con un nuovo pericolo, di mettersi alla prova. (4) L'incontro con Ermes (Mercurio), protettore dei ladri e dei mercanti, servo fedele e anzi figlio di Zeus, è significativo, perché qui Ermes rappresenta il rivale n. 1 di Circe, colui che le ha già prospettato la fine sicura dei suoi poteri, l'inutilità della sua resistenza (331). Ulisse sa avvalersi dei nemici di Circe, specie di quelli che conoscono bene il territorio in cui essa opera: una conoscenza che è scienza delle cose evolute, opposta alla magia, all'animismo o alla conoscenza del mondo naturale data da tradizioni secolari. (5) Ermes non ha paura di Circe perché conosce l'antidoto alle sue erbe paralizzanti e nel contempo presume di possedere una visione religiosa superiore a quella naturalistica di lei, sebbene sia, la sua, una visione "di primo pelo, la cui giovinezza è leggiadra"(279), cioè una visione per così dire "neonata", che ha bisogno di tempo per imporsi e che comunque sa riconoscere in Ulisse un validissimo supporto. L'eloquente Ermes, colui che conduce le anime dei morti sino alla barca di Caronte, non ha una spada ma una "verga d'oro": egli infatti è la neovisione intellettuale e individuale che, per imporsi, ha qui bisogno della volontà forte di un eroe. Ed è proprio lui che, per primo, svela a Ulisse che i suoi compagni sono stati narcotizzati, metaforicamente trasformati in maiali. Mentre con la vicenda di Polifemo si era in presenza di uno scontro globale di civiltà: mercantile-schiavistica da un lato, agricolo-pastorale dall'altro, qui invece lo scontro è di un solo elemento di quelle civiltà: la religione, impersonata da una donna, che è antica, ancestrale, primordiale, la cui cultura deve essere superata da una nuova religione, più astratta, più ambigua, più moderna, in quanto ha come scopo la legittimazione di rapporti sociali fortemente antagonistici. Ulisse, non essendo ateo coerente, dichiarato (come Prometeo che, guarda caso, fu incatenato proprio da Ermes), non può vincere da solo la forza di Circe; essendo un uomo formalmente religioso, cioè devoto alla religione dei potenti, anche se nella pratica è artefice di inganni, ha necessariamente bisogno di un alleato, che, quanto a scaltrezza, simbolicamente gli somiglia. Pur essendo un giovincello, Ermes è già abbastanza smaliziato, com'è giusto che sia nelle civiltà più avanzate; pertanto non ha difficoltà, conoscendo le umane debolezze, a mettere in guardia Ulisse dalle provocazioni erotiche di Circe, che si difenderà invitandolo a giacere con lei (296). Potrà sì accettare il suo letto (297), ma a certe condizioni, quelle per cui riuscirà ad ottenere i compagni sani e salvi. Tuttavia questo, di coricarsi con lei, era stato il desiderio anche dei suoi compagni: dunque perché lui sì e loro no? Per il semplice motivo che qui il "saggio" Omero insegna che il passato va superato rispettandolo formalmente: non ci può essere rottura violenta. I compagni d'Ulisse s'erano comportati in maniera precipitosa, irruente; lui invece, che è astuzia per antonomasia, non avrà bisogno che del proprio self-control, non gli servirà neppure di sguainare la spada, gli basterà minacciare di farlo: gli argomenti per vincere saranno altri. Da notare che esistono interessanti sfumature tra ciò che gli chiede di fare Ermes e quanto Ulisse effettivamente farà. Ermes dice testualmente: "lei impaurita t'inviterà a coricarti; tu non rifiutare, né allora né dopo, il letto della dea, perché i compagni ti liberi e aiuti anche te. Ma imponile di giurare il gran giuramento dei beati, che non ti ordirà nessun altro malanno: che appena nudo non ti faccia vile e impotente"(296-301). Ora, posto che per un tipo come Ulisse la fedeltà coniugale doveva essere un valore alquanto relativo, indubbiamente gli sarà apparsa con un certo favore la prospettiva di potere ottenere da Circe quanto desiderato semplicemente andandoci a letto. Tuttavia, ciò che più stupisce, ma sino a un certo punto, è che qui Ermes fa passare Circe per una ninfomane o, se si preferisce, per una prostituta di lusso (e c'è chi l'ha scambiata per la tenutaria di un bordello da marinai), anticipando per così dire il fatto ch'essa deciderà di liberare i compagni solo dopo aver soddisfatto la propria libido. E siccome Ermes presume di conoscere le debolezze dell'uomo "civilizzato" e di Ulisse in particolare, lo invita a chiedere a Circe il solenne giuramento. Vedremo però che Ulisse si comporterà diversamente. Il farmaco-antidoto che Ermes suggerisce a Ulisse di mangiare non era che una pianta officinale del Circeo, già conosciuta dagli antichi romani: il suo nome, "moly", indica semplicemente un'erba dalla radice nera e dal fiore color latte. Era chiamata così dagli dèi (305), perché qui deve apparire chiaro che se Circe possiede la conoscenza dei poteri della natura, non può però competere con la nuova civiltà che avanza, basata sulle scienze e le arti e soprattutto sull'astuzia e sull'inganno. Ulisse sa più cose di quanto lei possa immaginare e può persino ucciderla. Anche Circe è dea, ma limitata nei suoi poteri: "gli dèi invece possono tutto"(306). L'incontro di Ulisse con Circe Circe, al vedere Ulisse superare l'inganno grazie all'aiuto di Ermes, chiede di congiungersi con lui perché spera di poterlo "raggirare" con l'ultima chance che le è rimasta: "saliamo sul letto, perché congiunti nel letto e in amore ci si possa l'un l'altro fidare"(334-5). Ma Ulisse non cede al ricatto sessuale, poiché egli sa dominare i sensi con l'astuzia dell'uomo che prima do tutto deve salvaguardare l'interesse: "Come puoi chiedermi d'essere mite con te, che nella casa m'hai fatto maiali i compagni, e qui tenendomi adeschi anche me, insidiosa, a venire nel talamo sopra il tuo letto, perché, appena nudo, mi faccia vile e impotente? Sul tuo letto io non voglio salire, se non acconsenti a giurarmi, o dea, il gran giuramento che non mediti un'altra azione cattiva a mio danno"(337-44). Nella seconda sequenza abbiamo creduto di ravvisare una sottile differenza tra quanto richiesto da Ermes e quanto invece messo in pratica da Ulisse. Alla richiesta di Ermes di cedere, previo giuramento, al ricatto sessuale per la liberazione dei compagni, Ulisse darà un'interpretazione leggermente diversa: "Lei giurò subito come volevo... allora io salii sul bellissimo letto di Circe"(345-7). In pratica Ulisse accetta l'invito di giacere con Circe prima ancora che i compagni siano stati liberati, semplicemente con la promessa, sotto giuramento, che lei non avrebbe tramato altri inganni a suo danno. Nel consiglio di Ermes vi era invece la liberazione dei compagni, anzitutto, come motivazione dell'amplesso. Qui, a proposito del giuramento, delle due l'una: o Ulisse impone a Circe un giuramento che non appartiene alla cultura di lei, sacerdotessa sicuramente più "laica" del "servo fedele" Ermes, per farle capire che se l'avesse trasgredito la vendetta sarebbe stata terribile; oppure le chiede un giuramento antico, che per Circe aveva un valore assai maggiore di quelli che si facevano ai tempi di Ulisse. Il giuramento in questione veniva comunque pronunciato chiamando a testimone il Cielo, la Terra e lo Stige, cioè valori in cui, a parte l'ultimo, anche Circe avrebbe potuto credere. In effetti lo Stige, il fiume infernale, nel nome del quale gli dèi pronunciavano i loro giuramenti, sembra essere una categoria appartenente più alla cultura di Ermes, con cui questi chiede a Ulisse di sottomettere Circe. Uno spergiuro faceva decadere gli dèi, per un periodo di cento anni, dal dono privilegiato della divinità. Sulle rive di questo fiume, Caronte prendeva in consegna dalle mani di Mercurio le ombre ch'egli, poi, dallo Stige sospingeva, sulla sua barca, nell'altro fiume infernale, l'Acheronte. Si può quindi supporre che in quel giuramento vi fosse in realtà un'ammissione di sconfitta culturale di Circe non solo nei confronti di Ulisse ma anche nei confronti di Ermes, suo principale rivale. Comunque nella letteratura antica troviamo molti esempi che ci testimoniano l’importanza della pratica del giuramento. Il fatto stesso che garanti del giuramento fossero gli dèi, la dice lunga sulla difficoltà che una cultura naturalistica e agro-pastorale come quella rappresentata da Circe potesse sopravvivere nel confronto, anche violento, con la nuova cultura emergente di Ermes e, qui, del suo emissario, Ulisse, entrambi esponenti di una cultura urbana, mercantile, individualistica... Non dimentichiamo che anche Ermes faceva addormentare o risvegliare gli uomini con la sua verga e che conduceva le anime nell'Ade, cioè in un inferno non meno avvilente del porcile della maga. La religione di Circe è indubbiamente più primitiva: la sua magia è legata ai segreti della natura e non a una rappresentazione intellettuale dell'oltretomba, con cui i sacerdoti del mondo ellenico potevano spaventare gli sprovveduti o illudersi di tenere a freno i potenti. Ma la cosa più interessante di questa sequenza è che Ermes ha avuto bisogno di Ulisse per imporsi su Circe, non avendo le sue qualità fondamentali, a testimonianza che nell'area geografica in cui è ambientata la vicenda, i valori culturali non erano stati ancora così profondamente alterati dai rapporti schiavistici e mercantili tipici della società ellenica. Ulisse infatti è il "multiforme", il "versatile"(330), l'uomo rotto a ogni esperienza, disposto a tutto pur di primeggiare, ma capace di farlo con astuzia, lungimiranza... A lui non basterà neppure fidarsi della parola data, come vedremo nella sequenza successiva. Il bagno di Ulisse Circe dispone di quattro ancelle che qui, invece di apparire come "schiave", vengono definite come "ninfe", in quanto nate da "boschi, fonti, fiumi". Le loro funzioni sono tipiche della servitù domestica. Non sono a disposizione come frutto di un bottino di guerra, e Omero, per il quale una qualunque forma di servizio domestico è necessariamente legata all'istituto della schiavitù, preferisce rendere misteriosa la provenienza di queste ancelle, piuttosto che ammettere una società diversa da quella in cui lui era vissuto. A parte questo, ciò che qui non si riesce a comprendere è se il rito del bagno purificatore e il pranzo precedano l'atto sessuale o lo seguano, considerato che al v. 347 Ulisse ricorda d'essere salito "sul bellissimo letto di Circe" appena questa fece la solenne promessa di non macchinare contro di lui. La domanda è legittima, perché nel primo caso Ulisse apparirebbe più vicino all'uomo comune, con le sue debolezze, mentre nel secondo caso, visto che il bagno prosegue col rifiuto del pranzo, Ulisse apparirebbe come un uomo integerrimo, preoccupato anzitutto del dovere di liberare i compagni dalla schiavitù. Ha dei risvolti quasi comico-erotici tale questione, in quanto, ad un certo punto viene detto che il bagno ristoratore tolse all'eroe "la snervante fatica"(363), che pare sia quella di un amplesso con una donna da troppo tempo digiuna. L'erotismo sta nel fatto che non sembrano essere le quattro ancelle a lavare Ulisse, ma la stessa Circe, almeno stando a quanto si deduce dal v. 361: "mi fece sedere nella vasca e me la [l'acqua] versò dal gran tripode... m'ebbe lavato e unto con olio copiosamente, mi gettò un bel manto e una tunica indosso, mi guidò e fece sedere su un trono..."(361-6). E' solo a questo punto che Ulisse di nuovo parla esplicitamente di un'ancella (368) che "gli versa dell'acqua da una brocca... perché mi lavassi" - come se un uomo appena uscito dalla vasca avesse bisogno di lavarsi le mani per sedersi a tavola... Questo rimescolio ambiguo di atti e funzioni, su cui si insiste compiaciuti, con particolari osé, è strumentale all'ideazione di un'atmosfera magica, per la quale l'ascoltatore o il lettore di questi versi doveva sicuramente provare piacere. Un costrutto ammiccante del genere sarebbe stato impensabile in un testo cristianamente ispirato. Forse si può presumere che i versetti relativi all'ancella che gli versa l'acqua invitandolo a lavarsi siano stati aggiunti proprio per attenuare il livello piccante di una descrizione in cui la protagonista è la stessa Circe. Questi versi infatti sono contraddittori a quello (364) in cui viene detto che l'eroe fu "lavato e unto con olio copiosamente", avverbio, quest'ultimo, che lascia immaginare più di quanto dica. La liberazione dei compagni di Ulisse E' difficile dire se la richiesta di liberare i compagni dalla schiavitù sia precedente o successiva al rapporto sessuale di Ulisse con Circe. Qui i tempi, ovvero la sequenza delle azioni, potrebbero anche avere un certo peso nel determinare la psicologia dell'eroe, la sua scala di valori. Non sarebbe infatti stata la stessa cosa vederlo chiedere quella liberazione dopo un certo tempo passato tra le braccia della maga, e vederlo invece porre come condizione dell'amplesso proprio quella liberazione. E' intanto possibile anticipare che Ulisse e i suoi compagni rimasero con Circe per più di un anno e, secondo una leggenda, egli ebbe da lei un figlio, chiamato Telegono. Costui, successivamente, sarebbe stato mandato da Circe alla ricerca del padre, che, dopo l'approdo a Itaca, non s'era fatto più vedere nell'isola di Eea (a parte il breve soggiorno di XII,1-141); e, senza saperlo, Telegono sarebbe sbarcato proprio a Itaca, dove avrebbe saccheggiato l'isola insieme ai suoi compagni, imitando, in questo, le gesta di chi l'aveva generato. Assalito ad un certo punto da Ulisse e da Telemaco, egli avrebbe ucciso lo stesso Ulisse, dopodiché, per ordine di Atena, avrebbe sposato Penelope, da cui avrebbe avuto Itaco, fondatore di Tuscolo e di Preneste (ma altre leggende sostengono che non ci fu alcun matrimonio e che il fondatore di Tuscolo fu lo stesso Telegono). Una versione, questa, che viene per così dire incontro alla tesi di un ennesimo risentimento, peraltro giustificato, che Circe provò nel momento in cui, dopo essersi concessa nonostante le numerose delusioni, dovette nuovamente subire l'amarezza dell'abbandono. Amarezza tanto più grande quanto più si considera che le parole che lei dice a Odisseo (378-381), con "soave voce" o "alate parole", standogli a fianco, sono indubbiamente qualcosa di molto poetico, che lascia presumere un'intesa forte di coppia, come se le due rispettive intelligenze e sensibilità non avessero avuto bisogno di molto tempo prima di intendersi. Circe parla come se Ulisse fosse già divenuto il padrone di casa, l'amante fedele, l'amico fidato, il partner da lei sempre desiderato. In realtà Ulisse è troppo pieno di sé per potersi fermare in un medesimo luogo ed amare chi gli sta vicino. La richiesta di ritrovare la patria nasce in realtà dall'insoddisfazione di una vita non abbastanza movimentata. Non a caso quando tornerà a Itaca, il suo volto, il suo stesso corpo saranno talmente sfigurati che stenteranno a riconoscerlo. Sarà il ritorno di un uomo senza pace, sconfitto dalla sua stessa ansia di vivere, dalle sue insondabili contraddizioni. Ulisse non può amare nessuno, proprio perché ama solo se stesso, che è un sé vuoto di vero contenuto umano. La richiesta di liberare i compagni s'interseca, qui come altrove, con la sua insoddisfazione per la vita in generale, con la sua incapacità a vivere relazioni stabili, normali. Egli sembra già essere stanco di Circe, al punto che non vede l'ora di andarsene. Il fatto è però che le esigenze narrative dell'episodio impongono coerenza con la trama apologetica di questo eroe (di carta). Quando Circe ritrasforma i porci in esseri umani vien detto, stranamente, che gli animali erano di "nove anni"(390), cioè piuttosto anzianotti, e che i marinai tornarono "più giovani di come erano prima, e molto più belli e più grandi a vedersi"(395-6). Evidentemente avevano riacquistato la virilità perduta. E' comunque da escludere che dal primo amplesso con Circe alla richiesta di liberare i compagni sia passato molto tempo, poiché l'altra metà della ciurma lo attendeva al largo. E quando lo vedrà ritornare saranno tutti così contenti - scrive Omero - come se fossero già arrivati a Itaca (415 ss.). Il che fa appunto pensare che un certo tempo dovette essere trascorso. Non solo, ma è evidente che se Ulisse ha preteso la liberazione dei compagni come condizione per restare sull'isola per non più di un certo tempo, il suo scopo era quello di far innamorare Circe di lui, o comunque quello di far credere che lui lo era di lei, e anche questo, naturalmente, per essere dimostrato, avrebbe richiesto del tempo. Interessante è notare che Circe per la prima volta qualifica con l'appellativo di "astutissimo"(401) il laerziade solo dopo che questi le aveva chiesto di liberare i compagni, i quali, in seguito, gli moriranno tutti, a testimonianza che Ulisse non nutriva nei loro confronti una stima superiore o anche solo uguale a quella che nutriva nei confronti di se stesso. I suoi compagni d'avventura sono tutte comparse mediocri, scarsamente caratterizzate sul piano psicologico e che nel complesso hanno una funzione strumentale all'esaltazione delle sue virtù individuali. In questo libro X l'unico vero compagno di Ulisse è Circe, nei cui confronti egli si deve sforzare di trovare delle giustificazioni almeno formalmente etiche, per potersi "liberare" di lei e riaffermare così il proprio egocentrismo. Circe, che qui rappresenta il rifiuto di una civiltà più "moderna" della sua, vive in una sorta di riserva naturale, lontana dal mondo cosiddetto "civilizzato", arroccata in una specie di fortilizio, in cui cerca di portare avanti un'ultima disperata difesa. Tutto sommato Omero è piuttosto indulgente nei confronti di questa "amica-nemica" del protagonista, che presenta molti lati affascinanti, capaci di giustificare l'atteggiamento remissivo di Ulisse e che, se fosse stata di sesso maschile, probabilmente avrebbe ricevuto un trattamento meno riguardoso. In effetti Circe non è una figura come le altre, è un personaggio centrale del poema (più di 700 versi le vengono dedicati), in quanto rappresenta la possibilità di una sintesi, di una mediazione, nello scontro tra le due civiltà rivali. E' lei che spiegherà a Ulisse come comportarsi nell'Ade, per interrogare Tiresia, come agire con le Sirene, come difendersi da Scilla e Cariddi, come comportarsi nell'isola di Trinacria dove pascolano le mandrie eterne del Sole, che lei conosce bene, essendo figlia stessa del Sole. Circe toglie a Ulisse gli atteggiamenti violenti, vendicativi, maschilisti e Ulisse fa uscire Circe dall'isolamento, riconciliandola con la nuova realtà ch'egli stesso, insieme ad Ermes, rappresenta. Tuttavia, e su questo Omero difficilmente avrebbe potuto transigere, Circe non ha la forza di trattenere Ulisse, perché Ulisse non può essere trattenuto da nessuno, essendo egli l'archetipo di una civiltà senza pace, che insegue la pace come appagamento della sete di dominio, di conoscenza, di avventure, in cui poter misurare le proprie risorse, fisiche intellettuali morali. Ulisse è colui che sospetta la presenza di "inganni"(380): Circe lo conosce di fama ed ora ha la conferma di quanto egli sia incredibilmente "astuto"(401). Lo è talmente tanto ch'egli non si fida neppure del giuramento che da lei ha preteso, la quale, proprio per questo, non può che rimproverarlo; al che Ulisse ribatte dicendo d'essere sì convinto che lei non voglia più raggirarlo, ma al tempo stesso di non essere del tutto persuaso che il giuramento abbia un effetto positivo sui compagni che languiscono nel porcile. Cioè in sostanza Ulisse non riesce a dare per scontata l'efficacia estensiva del patto con la maga e vuole per così dire mettere nero su bianco. Volendo restare fedele al suo clichè di uomo accorto sino all'inverosimile, Ulisse deve continuare a sospettare, perché il "sospetto" e non tanto l'astuzia è il leit-motiv del poema. E' proprio questa caratteristica psicologica dominante che rende Ulisse un personaggio modernissimo. Essendo abituato a vedere il prossimo come un potenziale nemico, Ulisse era diventato un maestro nel tendere tranelli, nel tramare complotti e terribili vendette. Il suo atteggiamento ha fatto ricche le classi mercantili e le strategie politico-militari di ogni epoca e latitudine. Anche Circe è una donna sospettosa, ma perché vorrebbe rimanere quel che è, strettamente legata al proprio passato. A differenza di Ulisse, che è sempre in "posizione di attacco" e tutto quello che tocca subisce spesso radicali trasformazioni, Circe si pone invece sulla "difensiva", anche se qui gli eventi la portano a un ripensamento notevole della propria concezione di vita. La liberazione dei compagni di Ulisse dalla schiavitù (dei sensi) comporta infatti una grande metamorfosi, che non riguarda soltanto il loro aspetto fisico, di nuovo umano e ringiovanito, ma anche la coscienza morale della maga, poiché se nei compagni il pianto liberatore ha la funzione di esprimere chiaramente gioia per il "corpo" ritrovato, in lei invece ha come una funzione catartica, di liberazione dal pregiudizio anti-maschile, di riconciliazione morale col sesso opposto, che va oltre l'attrazione fisica, che pur essa provava per Ulisse, intenzionata com'era a volerlo sposare (IX, 31-32). Tant'è che appena liberati i compagni, propone a Ulisse di andare a prendere gli altri e di restare tutti ospiti della sua reggia. E' evidente ch'essa può aver pensato alla porcilaia come arma di ricatto contro eventuali ripensamenti da parte di Ulisse a suo danno. Ed è altresì evidente il suo timore di perderlo, ora che ha voluto soddisfare quello che per lui era il desiderio principale. Ma Circe è una "gran signora"(394), sia nei poteri della conoscenza che nella profondità d'animo, qui testimoniata dalla commozione interiore. E' capace di rischiare una soluzione a lei sconveniente, proprio perché in fondo sa come rispettare la libertà umana. Il diverbio tra Euriloco e Ulisse Dopo la liberazione dei compagni, Ulisse avrebbe anche potuto rifiutare l'ospitalità e la sostanza del racconto sarebbe rimasta inalterata. Egli non aveva un debito di riconoscenza nei confronti di Circe, benché qui l'accettazione dell'ospitalità, e per così tanti mesi, lasci supporre ch'egli provasse nei suoi confronti una certa attrazione. Circe era riuscita a "persuadere il cuore superbo"(406) di Ulisse, a raddolcire, coi suoi modi gentili, il suo "animo altero", fiero d'aver ottenuto tutto quanto s'era promesso. Una qualche trasformazione morale era avvenuta anche in lui. Ed Euriloco, che qui rappresenta la coscienza intransigente, schematica, lo mette sull'avviso, ma inutilmente: Ulisse aveva già deciso di restare ospite di Circe. Il diverbio tra Euriloco e Ulisse è particolarmente significativo, poiché forse per la prima volta qualcuno dell'equipaggio ha il coraggio di dire quello che pensa dell'"impavido Ulisse"(436), il temerario irresponsabile che aveva portato a morte alcuni compagni nell'antro di Polifemo. Praticamente Euriloco, qui suo rivale, stava minacciando un ammutinamento. Tuttavia Omero - ovviamente per non smentire la tesi che il suo eroe è intoccabile, in quanto al di sopra di ogni critica - dirà che sarà proprio Euriloco a dare ai suoi compagni il consiglio più funesto di tutta la spedizione: quello di uccidere le vacche sacre (XII, 340 ss.), che in pratica vorrà dire violare delle tradizioni religiose consolidate usando lo strumento della forza. Un consiglio che porterà tutti inesorabilmente a morire. Qui intanto il permaloso Ulisse, che non tollera osservazioni sul proprio operato (specie se fatte in pubblico), sarebbe pronto a far fuori il suo stretto parente se le "dolci parole"(442) dei compagni non lo facessero desistere e accettare l'idea che Euriloco resti a guardia della nave. Ma Euriloco, che ben conosceva lo spirito vendicativo di Ulisse, la sua "terribile furia"(448), alla fine cede e prende a seguirli. La richiesta di andarsene Le parole di Circe, alla vista del secondo pianto dei compagni di Ulisse, testimonia una grande saggezza e sobrietà: standogli vicino, chiede al suo amato che la si smetta di lasciarsi così tanto condizionare dagli affanni patiti e dalle offese subite, e si provveda a rifocillarsi, a rinfrancarsi con cibo e vino, per guardare avanti e tornare a vivere una nuova vita. E' così persuasiva che Ulisse non può fare a meno di considerarla come una "dea risplendente"(455), molto "chiara" nel suo parlare. Virgilio provvederà a costruire sulla falsariga di questa donna il personaggio di Didone. Circe mostra d'aver capito molto bene l'origine del dolore di quei guerrieri-marinai: "non avete mai l'animo in pace, perché molto avete sofferto", a causa dell'"aspro mare"(464-5) e degli "uomini ostili"(459). Tuttavia, se tale interpretazione del dolore si addiceva bene alla psicologia di quei navigatori, sinceramente desiderosi di tornare a casa, risultava ancora insufficiente per un personaggio complesso, contraddittorio, psichicamente instabile come Ulisse. Qui è evidente che Circe, pur essendo consapevole che la loro origine è nel Mediterraneo orientale, propone loro di restare per sempre con lei, ricostruendosi una nuova vita. Ora spera che non si ricordino più del loro passato, non come prima, usando droghe soporifere, ma in virtù di una vita sicura, serena, lontana dai pericoli della cosiddetta "moderna civiltà". Circe propone loro di vivere un'esistenza più "naturale" e meno "artificiosa". I marinai e soprattutto Ulisse si lasciano sulle prime convincere: gli uni perché stanchi di peregrinare a vuoto, l'altro perché vuole misurarsi anche in questa esperienza, verificando sino a che punto sarebbe in grado di resistere lontano dall'antagonismo, dai contrasti tipici delle società divise in classi, ceti, stirpi contrapposte. E' singolare che in questo frangente, ad un certo punto, non sia Ulisse a chiedere ai compagni di riprendere il cammino, ma il contrario. Si ha come l'impressione ch'egli si fosse trovato così bene con Circe che forse sarebbe stato anche disposto a dimenticare patria e famiglia. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze. Anzitutto perché quand'egli le chiede di lasciarli andare, fa riferimento a una promessa di lei (483), che non si evince dal contesto del libro, per cui si deve presumere sia stata fatta privatamente. La stessa richiesta di partire dall'isola, per fare ritorno in patria, viene fatta privatamente dal solo Ulisse, mentre tutti i suoi compagni dormono profondamente (479). Ulisse prese una decisione di comune accordo con tutti i compagni, ma per non ferire la sensibilità di Circe, la comunicò a quest'ultima come se fosse stata una sua iniziativa e come se lei dovesse fargli un ultimo piacere. Evidentemente Ulisse si sentiva in colpa, ma voleva far capire a Circe che la decisione era stata presa solo da lui, forse al fine di evitare ogni possibile ritorsione a danno dei compagni. Egli sapeva bene di essere amato da Circe e che questa, per amore, non gli avrebbe negato nulla. La comitiva era consapevole di avere un debito di riconoscenza nei confronti della maga, in quanto li aveva ospitati per più di un anno, e, per tale ragione, nessuno si sarebbe arrischiato di tradire le sue aspettative. La chiusa di questo libro è evidentemente posticcia, in quanto serve per giustificare il comportamento strumentale di Ulisse, che si è servito dell'ospitalità di Circe per rimettersi in sesto e riprendere con maggior vigore il viaggio di ritorno. Una leggenda posteriore allo stesso Omero vuole che Circe lasci andare Ulisse perché quest'ultimo ha un compito molto importante: quello di entrare nel regno dei morti per sapere, dall'indovino Tiresia e dalla madre Anticlea, il futuro che l'attende. Col che egli sembra qui anticipare, vagamente, i racconti non meno mitologici delle apparizioni del Gesù post-pasquale, nonché le sue discese agli inferi. In realtà Ulisse non sa qui che pesci pigliare e visibilmente cerca di arrampicarsi sugli specchi, attribuendo ai suoi compagni un'esigenza che invece è tutta sua. Il fatto che ne voglia parlare a Circe privatim testimonia proprio della sua paura di non poter reggere apertamente il confronto con loro. E Circe, che non è certo stupida, anche questa volta è costretta a rivolgersi a lui con l'epiteto che meglio lo qualifica: "astutissimo"(488), e lo rassicura di nuovo con "chiaro" linguaggio: "non restare più in casa mia contro voglia"(489). Si rivolge a lui direttamente, senza usare il plurale maiestatis, perché sa bene che il "problema" è più del suo amato che non dei suoi compagni. E non è un problema relativo alla patria o alla famiglia, ma alla sua stessa instabile identità, che trova pace solo nel conflitto, soddisfazione solo nel pericolo. A questo punto Omero ha buon gioco nell'attribuire alla stessa Circe l'idea della partenza, come se lei già si aspettasse una richiesta del genere, e sulla base di una motivazione molto impegnativa (il viaggio nell'Ade), toglie Ulisse dall'imbarazzo di dover giustificare il proprio egocentrismo. E' Circe che indica a Ulisse la meta da seguire, come nessun altro personaggio del poema sarà mai capace di fare. Fondamentali sono i versetti 496-98: "a me si spezzò il caro cuore: piangevo seduto sul letto e il mio cuore non voleva più vivere e vedere la luce del sole". Ulisse si trova in questa lacerazione interiore perché da un lato non ha motivazioni plausibili per lasciare Circe (e Telegono), dall'altro non può tergiversare col proprio egoismo da eroe insoddisfatto, insaziabile d'avventure, che gli impone appunto d'andarsene. Qui la psicologia è fine, perché Ulisse non è affatto intimorito dalla prova che l'attende, ma semplicemente imbarazzato dalle pulsioni del proprio individualismo, che devono tener conto in qualche misura del bene ricevuto. Tant'è che ad un certo punto pone una domanda che chiarisce bene il suo vero stato d'animo: "chi lo guiderà questo viaggio?... non arrivò mai nessuno da Ade"(501-2). Cioè Ulisse non si preoccupa più di tanto dei sentimenti di Circe, di ciò ch'essa provava per lui, ma piuttosto di sapere come organizzarsi per intraprendere una nuova avventura, in cui forse avrà il privilegio d'essere il primo in assoluto. La sua sensibilità, la sua psicologia è quella di uno schiacciasassi: i movimenti sono lenti, studiati, calcolati nei particolari, ma inesorabili. Sotto il suo peso, tutti i sassi sono uguali. E quanto sia astuto è ben visibile anche laddove, con fare molto diplomatico, racconta l'atteggiamento ch'ebbe nei confronti dei suoi compagni: "li incitai con dolci parole stando accanto a ciascuno: - Non cogliete più il dolce sonno, dormendo, ma andiamo: me l'ha consigliato Circe possente"(546-9). Il che contraddice visibilmente quanto già affermato prima da Omero, secondo cui furono i suoi compagni a redarguirlo del fatto che presso Circe stava godendosi la vita dimenticando il dovere di tornare in patria (472-4). Ora invece si ha l'impressione che Ulisse debba convincerli di nascosto, uno per uno, e che riesca ad ottenere il loro consenso dopo non poche difficoltà. Tant'è che mentre questi vengono presentati come disposti a tornare a casa, Ulisse invece brama una nuova avventura: incontrare Tiresia nell'Ade. Sarebbe forse un'ipotesi inverosimile sostenere che intorno all'improvvisa morte di Elpenore, che, stando alla versione ufficiale, sarebbe caduto dal tetto perché ubriaco vi era andato a riposare, vi è la mano di Ulisse? Il dissidio tra lui e i compagni non poteva forse aver raggiunto livelli insostenibili, specie in considerazione del fatto che ogniqualvolta Ulisse voleva intraprendere una nuova missione, il rischio per i suoi compagni era sempre quello di morire? Il testo dice, ad un certo punto, che i compagni cominciarono a "piangere" e a "strapparsi i capelli"(567-8), proprio come prima Ulisse, solo che Omero, essendo il suo eroe uno che vuol farsi rispettare, non può che affermare perentorio: "nessun vantaggio però gli veniva piangendo"(568). E' l'epilogo di una certa, grave doppiezza. Mentre se ne vanno piangendo verso la nave dalla chiglia nera, Circe, di nascosto, vuol lasciar loro un ricordino: "un montone e una pecora nera"(572), perché non si dimentichino di lei. La chiusa omerica è altamente poetica: "un dio che non voglia, chi potrebbe vederlo con gli occhi mentre va qui o là?"(573-4). Quei due animali non erano che un simbolo della relazione tra i due protagonisti: l'uso religioso che lui avrebbe dovuto farne è un altro discorso (527). [1] Relativamente alla posizione e alle caratteristiche geografiche dell'isola Eea viene detto nel sito www.circei.it/leggenda/maga/maga.htm:
Già all'inizio del VII secolo a.C., in seguito alla navigazione dei Calcidici, l'Isola Eea viene identificata col Circeo. Le affermazioni di Omero sono state avvalorate da altri storici, poeti e scrittori di scienze naturali, come Esiodo nella sua Teogonia, Eschilo, Teofrasto, Presudo-Scylax, Apollonio Rodio nelle Argonautiche. Infine Strabone in età augustea, il quale asserisce che al Circeo i sacerdoti mostravano sia il sepolcro di Elpenore che la coppa di Ulisse e i rostri della nave. Nel libro V° della "Geografia" egli scrive che "a 290 stadi da Antium c'è il monte Circeo, che sorge come un'isola sul mare e sulle paludi. Dicono che sia anche ricco di erbe... Vi è un piccolo insediamento, un santuario di Circe e un altare di Atena; viene anche mostrata una tazza che, a quanto dicono, sarebbe appartenuta ad Odisseo...". Diversa era la conformazione delle dune che oggi dividono il mare dal lago
di acqua salmastra denominato "Lago di Paola". (mappa
grotte) Avvicinarsi troppo alla costa era un problema. Infatti la particolare tecnica di navigazione e la tipologia delle vele delle fragili imbarcazioni di allora, in caso di tempo cattivo, non permettevano di doppiare il Monte Circeo, tanto che molti si schiantavano sulle sue coste. Fu proprio per risolvere questo problema che i Romani costruirono un canale interno che evitava il periplo del promontorio. Il porto di Paola doveva servire come approdo di emergenza da utilizzare per lo stretto necessario. Dopo il cattivo tempo, rimanere a lungo in questo porto poteva essere rischioso per il pericolo dell'occlusione dell'accesso al golfo a causa del depositarsi di sabbie. Esistono inoltre delle strutture, denominate "Ciclopiche", individuate in lunghi muraglioni (in parte ormai scomparsi di cui ne rimane traccia di fondamenta), con spessore di vari metri. Queste strutture discendono dai versanti del promontorio del Circeo per collegarlo al versante marino di Levante e alla pianura Pontina (scavalcando la collina di Monticchio), nonché per unire gli estremi apicali opposti del Promontorio. Ulisse, partendo dalle sponde del lago di Paola, seguirà i larghi muraglioni, attraversando le colline di lecci e sughere per giungere, dopo aver superato il fiume di Mezzo Monte, sul Promontorio del Circeo. Potenzialmente l'antica città dei Circei doveva essere abitata ancora dai
suoi costruttori che periodicamente diminuivano di numero, in quanto dovevano
badare alle greggi che stagionalmente facevano transumare nei vicini monti al di
là della pianura Pontina. Si raccomanda anche la lettura di questo file: Lo spazio marittimo del Mediterraneo occidentale in età romana: geografia storica ed economia (pdf-zip). (torna su) [2] Il palazzo ha fatto pensare alle strutture delle regge micenee, ma anche ad antichi monumenti di tipo religioso (dolmen?). (torna su) [3] Il farmaco narcotizzante o paralizzante di Circe (225-6) è simile a quello usato da Elena (IV, 219-30) e lo si pensa proveniente dall'Egitto. (torna su) [4] Prima di questo episodio Ulisse è sì rammaricato quando perde qualcuno dei suoi compagni, ma certamente non esita a trascinarli con sé nel pericolo, anche quando questo è perfettamente evitabile (come nel caso dell'incontro con Polifemo), proprio allo scopo di dimostrare, come esigenza vitale irresistibile, la sua superiorità sotto ogni aspetto. Tuttavia Ulisse non ha mai avuto occasione di salvare i suoi compagni da una situazione pericolosa ormai compiuta, nella quale lui stesso non sia causa o concausa. In questo episodio non è stato lui ad aver trascinato loro nei guai, ma il contrario, sicché qui viene rappresentato l'eroe che rischia la vita per il bene dei suoi compagni. (torna su) [5] Da notare che quando Ermes scenderà dall’Olimpo per parlare con Calipso avrà prima consultato gli altri dèi e agirà per volere di Zeus; in questo episodio invece troviamo un Ermes assai poco definito e molto irreale. Non è tipico degli dèi omerici, e dell’Odissea in particolare, apparire all'improvviso, apparentemente senza una ragione, per aiutare un personaggio o un eroe. Qui la figura di Ermes è quindi un espediente narrativo per far sì che Ulisse riesca a superare la sua “prova”. Vi è comunque una certa differenza di stile tra l’Ulisse che attribuisce le proprie vittorie al favore degli dèi, anche se in definitiva se la cava con la propria astuzia, e questo Ulisse, un po’ fiabesco, che sarebbe finito richiuso in un porcile se non avesse ricevuto un aiuto privilegiato dal cielo. A dir il vero tutto l’episodio di Circe sembra immerso in un'atmosfera fiabesca, che forse riprende tradizioni secolari di narrazione orale di favole con al centro maghe e incantesimi. Il che non significa che non vi sia un fondo di realtà vera. (torna su) |