LE COMUNITA' BIOLOGICHE

BIOLOGIA E CULTURA


LE COMUNITA' BIOLOGICHE

Foto Mulazzani

Un borgo medioevale, un castello, un antico convento rimandano alla mente l’immagine lontana di altrettante comunità umane, che condividevano, all’interno di uno spazio definito e per un particolare arco di tempo, le risorse che si rendevano allora disponibili; ciascuno di tali complessi può avere avuto origini differenti, che trovano oggi la loro spiegazione storica sul piano di fatti contingenti, della tradizione o di scelte ponderate.

Generalmente tendiamo a raffigurarci tali comunità all’interno di un paesaggio fortemente antropico, in cui l’elemento animale, o vegetale, assume un ruolo di cornice: immaginiamo che nel borgo poteva esservi un cane che si ristorava al calore proveniente dal selciato, che nel torrione del castello nidificavano i falchi, che nel chiostro del convento le cinciarelle si attardavano sugli arbusti alla ricerca di frutti succosi.

Nonostante questi ambienti fossero pertanto essenzialmente luoghi di aggregazione di uomini, ad un’analisi più attenta essi dovevano avere i requisiti di comunità biologiche: in essi probabilmente convivevano differenti specie animali, meno appariscenti, che potevano andare dai vari parassiti interni ed esterni (vermi, pidocchi, zecche) ai differenti rettili, piccoli mammiferi, e soprattutto insetti, che trovavano protezione e ristoro all’interno di quelle costruzioni.

Sotto questo aspetto dunque le comunità biologiche sono rappresentate dall’insieme delle specie presenti in un dato luogo ed in un determinato momento; ma se è pur vero che ciascuna comunità presenta caratteristiche che tendono a ripetersi nel tempo (pattern), tanto è che si riesce a contraddistinguerle in termini astratti (così come riusciamo a individuare elementi caratteristici della vita che si svolge in un borgo o in un convento), concretamente ogni singola associazione ha elementi specifici che la rendono unica ed irripetibile; in ogni caso così come non è possibile immergersi nella stessa acqua di un fiume poiché essa scorre continuamente, ugualmente non possiamo trovarci una seconda volta davanti alla stessa comunità.

Ma da dove deriva questa unicità? Proviamo ad immaginare che in una radura sia imbandita una tavola con tanti cibi dai sapori forti e dai profumi intensi (nella realtà essa potrebbe essere data da un campo di grano, da un orto, da un frutteto ricavati da un lembo di boscaglia recisa); e che ciascun cibo sia disposto in contenitori poco accessibili a causa dei loro colli lunghi e stretti; molti organismi che si troveranno a passare per puro caso da un tale ameno posto saranno tentati di fermarsi e di godere di simile abbondanza.

Solo alcuni di essi, tuttavia, finiranno con lo stazionare concretamente dando luogo ad una comunità, vuoi perché sono talmente piccoli, da potersi infilare nei contenitori, vuoi perché un lungo becco gli permette di arrivare al cibo, vuoi infine perché una notevole manualità gli consente di afferrare il contenitore, rovesciarlo e farne uscire il cibo.

In questa nascente associazione di specie le condizioni abiotiche dell’habitat (la radura) offrono le risorse (i cibi) in maniera che esse siano usufruibili solo a certe condizioni (i contenitori dei cibi): per tale modo condizionano la formazione di un definito pattern di comunità (determinismo ambientale). D’altronde solo alcune specie, in base a caratteristiche morfologiche preesistenti , sono in grado di accedere a tali risorse, contribuendo per tale strada a caratterizzare il pattern di comunità (determinismo biotico).

Un ulteriore elemento di complicazione deriva dal fatto che ciascuna specie occupa lo spazio disponibile (la tavola imbandita) in periodi di tempo differenti; la comunità va dunque intesa in senso funzionale, non solo quale somma delle specie che occupano uno spazio definito, ma come il complesso delle interazione interspecifiche che vi si svolgono in un arco di tempo. Così possono fare parte della stessa comunità biologica soggetti diversi, alcuni stanziali, cioè presenti tutto l’anno, altri migratori, altri ancora opportunisti.

Cosa conferisce allora stabilità ad una comunità? Si può supporre quanto essa sia ricca di specie, tanto più sia stabile; in realtà tale relazione non pare sufficientemente suffragata, in quanto si è osservato che comunità ricche di specie come quelle presenti ai tropici, adattate a condizioni ambientali relativamente stabili, con deboli variazioni stagionali, hanno maggiori difficoltà a riprendersi dopo una perturbazione non naturale, come un massiccio intervento antropico (con terminologia specifica sono molto resistenti, ma poco resilienti).

Comunità meno ricche di diversità biologica, come quelle delle zone temperate, sono più avvezze a riprendersi dalle perturbazioni, probabilmente perché sono adattate ad un ambiente che è più soggetto a forti variazioni stagionali (sono cioè meno resistenti, ma molto resilienti).

In genere le perturbazioni, se non assumono l’aspetto di eventi disastrosi o catastrofici, possono svolgere una funzione positiva nel mantenimento delle comunità e contribuiscono a conferire loro stabilità: infatti la formazione delle lacune, come può essere una radura creata in seguito ad un incendio in una porzione di un bosco, o a delle onde burrascose in una scogliera occupata da mitili, dà l’opportunità ad altre specie di occupare i nuovi spazi che si sono resi disponibili.

Tornando all’esempio della tavola imbandita possiamo immaginare che l’arrivo di specie predatrici o parassite eserciti nei confronti dei commensali, in genere rappresentati da consumatori primari (come gli erbivori), un’azione di perturbazione che ne riduce la densità, in maniera che nessuna delle specie presenti prenda il sopravvento a scapito delle altre.

I predatori possono agire come generalisti, così come può fare un tagliaerba in un prato quando falcia qualsiasi erba che venga a portata delle sue lame: in questo caso il predatore facilita la coesistenza tra le specie predate perché riporta i valori di densità delle varie popolazioni predate a tassi rispetto ai quali la competizione per la stessa risorsa (esclusione competitiva) assume poca importanza (con termini tecnici si parla di coesistenza mediata dallo sfruttatore).

Nei casi in cui il predatore sia selettivo nei confronti di uno o pochi tipi di prede, la stabilità della comunità può essere avvantaggiata, e così la diversità biologica, se le prede preferite hanno un ruolo dominante nella comunità di appartenenza: la riduzione della loro densità favorisce un equilibrio più prolungato tra le varie specie presenti.

In genere si ritiene che all’interno delle comunità il numero dei differenti commensali non sia tale da escludere qualche membro dalla possibilità di accedere al cibo. Secondo questo modo di pensare la competizione tra specie all’interno delle comunità gioca un ruolo non fondamentale nel conferire loro stabilità; solo quando la densità aumenta oltre misura si possono avere situazioni di competizione, soprattutto tra membri appartenenti alla stessa corporazione, cioè tra gruppi di specie che sfruttano in modo simile lo stesso tipo di risorse ambientali; soltanto in tali casi si possono avere processi selettivi che tendono a favorire le specializzazioni verso determinate risorse (in termini tecnici si parla di differenziamento delle nicchie).

Per alcuni studiosi le comunità andrebbero pensate come una sorta di organismo superiore i cui membri, cioè le varie specie componenti, sono legati insieme da una stessa storia evolutiva. Tuttavia oggi si tende a ritenere che le comunità si originano spesso per caso (nell’esempio precedente è l’aggregazione casuale di specie intorno alla tavola imbandita), e le varie specie componenti si evolvono indipendentemente verso differenti gradi di specializzazione.

I processi che sembrano avere una funzione caratterizzante nelle comunità sono connessi a quelle somiglianze, anche morfologiche, che tendono a realizzarsi sotto la spinta della selezione naturale: nell’esempio della tavola imbandita si determinerebbe una spinta selettiva che spingerebbe i vari commensali a perfezionare i loro adattamenti (come becchi più fini per gli aironi, mani più abili per le scimmie, dimensioni più piccole per gli insetti), in maniera da sfruttare meglio le risorse disponibili (i cibi confezionati): questo tipo di processo viene indicato come convergenza evolutiva.

Questo meccanismo, che si ritiene prioritario, non esclude che all’interno delle comunità possano avere luogo altri fenomeni, di tipo coevolutivo, in cui un ristretto numero di specie, in genere una coppia, o si associano insieme per meglio utilizzare le risorse, dando vita ad una evoluzione che comporta forti specializzazioni (si possono ricordare i licheni, che sono frutto di un’associazione tra un fungo e un’alga), oppure si avviluppano in processi di trasformazione galoppante come quelli che si hanno tra il predatore e la sua preda preferita, o tra il parassita ed il suo ospite.

In ogni comunità spesso si inseriscono strategie di conservazione tra tutti i suoi membri che tendono a rinforzare strategie di sopravvivenza simili, non favorendo quelle alternative: in una comunità di piante boschive la strategia che si afferma è quella dell’ombreggiatura; manipolando gli ambienti soleggiati le piante boschive escludono dalla loro comunità le piante di prateria, e si affermano come comunità di piante adattate ad accrescersi in ambienti ombreggiati.

Una perturbazione, come il taglio di una porzione di bosco, può mettere localmente in discussione tale strategia ed offrire l’opportunità che in quella determinata zona, e per un periodo di tempo particolare, una strategia differente si affermi: una comunità amante di zone soleggiate può sostituirsi a quella dell’ombra.

Questo fatto mostra come ciascuna comunità va percepita in una sorta di equilibrio dinamico in cui non c’è un modello unico di riferimento verso cui tendere (modello della successione), ma dove ogni strategia si afferma sul piano delle opportunità e delle occasioni da cogliere. Non si prospettano dunque modelli ideali di comunità, ma una molteplicità di situazioni associative aperte a differenti destini.

In questo quadro l’elemento di stabilità delle comunità biologiche è dato soprattutto dal modo in cui esse sono distribuite nel paesaggio ecologico: le connessioni tra le varie chiazze, in cui sono presenti le comunità, rende queste meno esposte al rischio di estinzione, in quanto la scomparsa di una popolazione in una comunità può essere controbilanciata dall’arrivo di un’altra appartenente alla stessa specie o almeno alla medesima corporazione.

Centro D’Italia (luglio-agosto 2004, anno II)


a cura diAntonio De Marco - Parco Abatino

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Scienza
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Aggiornamento: 23/04/2015