Grecia classica. Storia delle piante medicinali

HERBIS NON VERBIS
STORIA DELLE PIANTE MEDICINALI


GRECIA CLASSICA

Se, parlando della Grecia classica, si parte dal mito, bisogna risalire a circa il 1400 a.C., allorché troviamo la figura di Melampo, vate famoso e intenditore di medicina, i cui discepoli furono Chirone (capo dei Centauri) ed Esculapio (Asclepio), al primo dei quali si attribuisce il merito di aver coltivato le piante medicinali (la centaurea curava le ferite), e al secondo la conoscenza di un'erba talmente miracolosa da far resuscitare Ippolito, figlio di Teseo, cosa per la quale fu fulminato da Zeus. La moglie di Asclepio si chiamava Salute e la sua sacerdotessa era Panacea, "colei che tutto guarisce".

A Esculapio si attribuisce la teoria dell'adattamento dei farmaci ai diversi organismi: farmaci forti ai forti e deboli ai deboli.

Nel V sec. a.C. la medicina greca che andava per la maggiore pare fosse la naturopatica, basata su digiuni e diete alimentari, esercizi ginnici, balneazioni, unzioni, purghe e cura del sonno. Le ricette dei profumi e delle medicine erano incise su lastre di marmo, presso i templi, affinché tutti potessero disporne.

A parte il mito, indubbiamente la Grecia classica è debitrice della cultura egizia e mesopotamica. Lo stesso Ippocrate di Coo (460-377 a. C.), il più celebre medico dell'antichità greca e padre della medicina occidentale, che, con le sue ricette, i suoi metodi di dosaggio e le sue diete, influenzò il mondo romano e parte di quello medievale, si servì di fonti egizie depurandole dagli elementi magici e attribuendo alle malattie cause naturali. Fu lui a classificare per la prima volta in modo organico 400 specie di piante medicinali.

Ai tempi di Ippocrate sorsero le prime botteghe con ampia porta in cui il medico preparava i farmaci, dei quali conservava gelosamente la formula, e li vendeva. In origine erano i rizotomisti a cercare radici e piante officinali in luoghi noti solo a loro, che poi rivendevano a farmacisti ambulanti.

La dottrina ippocratica fondamentale (influenzata dalle teorie di Empedocle e Zenone) era quella relativa ai quattro temperamenti o umori - sanguigno, flemmatico, melanconico, collerico - le cui cattive funzioni andavano contrastate con degli antidoti. La malattia era una sorta di squilibrio dei rapporti tra gli umori, che andavano considerati in sintonia con gli elementi primordiali dell'universo (terra, acqua, aria, fuoco), con le qualità elementari dell'esistenza terrena (freddo, caldo, umido, secco), con le stagioni dell'anno (primavera, estate, autunno, inverno), con le età della vita (puerizia, giovinezza, maturità, vecchiaia).

I quattro umori o fluidi devono stare in equilibrio attraverso le erbe, la dieta e l'attività fisica, attraverso un gioco complesso di rimandi tra qualità delle sostanze prescelte e temperamenti umorali dell'organismo malato.

Le strade indicate da Ippocrate erano in sostanza due: la prima consisteva nel curare i sintomi con il loro contrario (contraria contrariis curantur), la seconda nel curare i sintomi con il loro simile (similia similibus curantur). Egli infatti, osservando la natura, aveva notato che molti dei fenomeni (sintomi) della malattia non erano altro che tentativi di guarigione; dunque perché non imitarli? Le basi della moderna omeopatia in fondo sono qui.

Le piante medicinali dovevano dunque servire allo scopo e siccome il loro numero era elevatissimo e il loro utilizzo molto complicato, si decise per la prima volta di esporre in modo sistematico le regole per raccogliere i semplici vegetali, le norme per preparare i medicamenti (suddivisi in purganti, narcotici, diaforetici, diuretici, emetici), e le modalità del loro impiego terapico.

Il primo erbario greco, stando alle fonti, fu scritto da Diocle di Caristo (IV sec. a.C.), grande studioso di anatomia. Egli studiò il regime di vita più salutare per l'uomo e una dieta capace di ricostituire le condizioni ideali per i processi naturali.

Il primo trattato sistematico di botanica farmaceutica, giuntoci integralmente, il De historia plantarum, fu scritto da Teofrasto (372-287 a.C.), filosofo peripatetico successore di Aristotele nella direzione della scuola. Un testo fitoterapico di difficile lettura, in quanto i nomi delle 500 piante sono spesso completamente diversi dagli attuali, anche se si basano sul tipo di fusto e sulla possibilità di coltivare o meno la specie vegetale.

Egli comunque cercò di stabilire un metodo scientifico di classificazione delle piante (per categoria), basandosi sugli scritti botanici di Aristotele. Fondamentale resta anche il suo trattato sugli odori, sapori e aromi di piante, fiori, resine e spezie.

Fece inoltre accurate osservazioni sui terreni, sul clima e la vegetazione, con particolare attenzione a tutte le piante importate da Alessandro Magno durante la sua campagna indiana.

Alcune sue pozioni e cataplasmi sono validi ancora oggi. I principi per miscelare le sostanze aromatiche sono rimasti in auge fino alla comparsa della chimica moderna.

Tra i più antichi orti o giardini botanici del mondo si ricordano quelli di Alessandria d'Egitto sotto i Tolomei (dal IV secolo a.C.) e quello istituito ad Atene, intorno al 340 a.C., a scopo di studio e per volontà di Aristotele, che ne affidò la gestione al discepolo Teofrasto. Ad Alessandria, la cui biblioteca, bruciata nel VII sec. d.C., disponeva di circa 700.000 volumi, la scuola aristotelica raccolse attorno a sé gli scienziati e i botanici più preparati del Medioriente.

I risultati della scuola alessandrina suscitarono grande interesse in Mitridate VI (132-63 a.C.), re del Ponto, sulle rive meridionali del Mar Nero, che scrisse una monografia sui veleni, essendo particolarmente versato, anche per motivi personali, negli studi di botanica e tossicologia. Produsse un famoso antidoto di 54 ingredienti, presi dal mondo animale e vegetale, che porta il suo nome. La formula base di questo composto fu usata per più di un millennio.

Egli chiese al proprio medico Crateva (Crateuas) di redigere un trattato sulle piante medicinali corredato di illustrazioni (probabilmente il primo della storia). Purtroppo andarono perdute sia la sua monografia, pur essendo stata fatta tradurre in latino da Pompeo, che l'erbario, di cui però si conservano degli estratti nel codice dedicato alla principessa imperiale bizantina Anicia Giuliana, scritto a Costantinopoli intorno al 512 e acquistato nel 1569 per conto dell'imperatore asburgico Massimiliano II. E' questo il più antico erbario illustrato giunto fino a noi e anche la più antica testimonianza della Farmacopea di Dioscoride. Oggi si trova presso la Biblioteca Nazionale di Vienna.

Il più grande maestro di farmacognosia dei suoi tempi, Dioscoride Pedanio, medico greco di Anazarbo (Cilicia) del I sec., poi divenuto cittadino romano, avendo viaggiato molto come medico militare, ebbe occasione di conoscere piante esotiche che descrisse per primo, classificandole non in ordine alfabetico ma secondo le loro affinità e in rapporto ai loro effetti sull'organismo.

L'opera greca in cinque volumi, tradotta in latino col titolo De materia medica (65 d.C.), che utilizzò abbondantemente le ricerche di Ippocrate, Teofrasto e di molti altri scienziati, tratta 650 sostanze medicamentose di origine vegetale, 85 di origine animale e 50 di origine minerale, molte delle quali hanno ancora un posto nella farmacopea moderna (p.es. anice, camomilla, cannella, pepe, rabarbaro, timo, maggiorana, zenzero...). E svelò i luoghi d'origine di molte piante e materie prime tenuti gelosamente segreti dai fenici, che per molto tempo ebbero nel Mediterraneo il monopolio delle commercio delle spezie.

L'opera resterà sino al XVI secolo un classico della farmacologia, tradotta in più lingue e riccamente illustrata, al punto che la maggior parte degli erbari posteriori seguì il suo schema di classificazione e descrizione.

Il più importante commento all'opera di Dioscoride fu quello di Mattioli Pierandrea (1500-1577), medico e naturalista senese, riferimento obbligato per ogni università del tempo.

Da ricordare anche il De Plantis di Nicola di Damasco (II sec.), che godette di grande fortuna. Tradotto dal siriaco all’arabo e poi dall’arabo in latino da Alfredo di Sareshel (Alfredo l’Inglese), fu attribuito erroneamente ad Aristotele.


Le immagini sono state gentilmente offerte da Davide Fagioli

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Scienza
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Aggiornamento: 23/04/2015