STORIA DELLE RELIGIONI |
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LA PENA DI MORTE NELLO STATO DEL VATICANO
La ghigliottina in San Pietro la portarono i francesi di Napoleone nel 1798, quando proclamarono la Repubblica Romana e deportarono Pio VI in Francia. Il primo condannato ad essere sottoposto al taglio della testa tramite il nuovo strumento fu Tommaso Tintori, reo d'omicidio, decapitato il 28 febbraio 1810. Solo dal 1796 al 1864 Giovanni Battista Bugatti (Mastro Titta), boia dello Stato Pontificio, portò a termine 516 esecuzioni, tra impiccagioni, decapitazioni e uso del martello, iniziate col cappio e lo squartamento di Nicola Gentilucci in quel di Foligno, che aveva ucciso un prete e il suo cocchiere, poi, costretto alla macchia, aveva rapinato a mano armata e ucciso due frati. L'ultima ghigliottina fu quella di Agatino Bellomo nel 1870, quando Bugatti fu sostituito da Vincenzo Balducci. Lo stesso Bugatti racconta nelle sue Memorie, quando provvide a eseguire la sentenza a carico del Gentilucci: “con un colpo magistrale lo lanciai nel vuoto e gli saltai sulle spalle, strangolandolo perfettamente e facendo eseguire alla salma del paziente parecchie eleganti piroette. La folla restò ammirata dal contegno severo, coraggioso e forte di Nicola Gentilucci, non meno che della veramente straordinaria destrezza con cui avevo compiuto quella prima esecuzione. Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d'una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un accetta gli spaccai il petto e l'addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo, dando prova così di un sangue freddo veramente eccezionale e quale si richiedeva a un esecutore, perché le sue giustizie riuscissero per davvero esemplari. Avevo allora diciassette anni compiti, e l'animo mio non provò emozione alcuna. Ho sempre creduto che chi pecca deve espiare; e mi è sempre sembrato conforme ai dettami della ragione e ai criteri della giustizia, che chi uccide debba essere ucciso. Un delinquente è un membro guasto della società, la quale andrebbe corrompendosi man mano se non lo sopprimesse. Se abbiamo un piede o una mano piagata e che non si può guarire, per impedire che la cancrena si propaghi per tutto il corpo, non l'amputiamo? Così mi pare s'abbia a fare dei rei. E benché innanzi nell'età e ormai vicino a rendere la mia vita al Creatore e a comparire al suo supremo tribunale, non provo alcuna tema per ciò che ho fatto: se il bisogno lo richiedesse e le forze me lo consentissero, tornerei da capo senza esitanza, perché mi considero come il braccio esecutore della volontà di Dio, emanata dai suoi rappresentanti in terra.” Ancora più cruda è la descrizione dell'esecuzione di Francesco Perelli. “Non era stata agevole la sua impiccagione, un povero diavolo reso becco dalla moglie troppo avvenente. Non appena, infatti, gli ebbi tolto il bavaglio cominciò a urlare, a chiedere grazia e a invocare le celesti legioni perché discendessero a liberarlo; non era svenuto come tanti altri, possedeva ancora tutte le sue forze; ma era mestiere trascinarlo e portarlo su a braccia mentre si dibatteva. Con il laccio al collo, gridava ancora, e fu proprio la corda che gli strozzò la parola di bocca. Impiccato, diventò paonazzo e quasi nero. Aveva gli occhi fuori dall’orbita, i capelli irti come chiodi, la lingua sporgente dalla bocca dura e irrigidita. Quando cominciai a spaccarlo, mi pareva che le sue fibre avessero ancora dei fremiti di vita. Certo non avevano perduto punto del loro colore naturale. La giornata era rigida; soffiava la tramontana, e le sue viscere fumavano, come se fossero state tratte bollenti da una pentola; a contatto dell’aria algida il fumo si condensava in grasso e deponendosi sulle mie mani, me le rendeva scivolose. Prima di tornare a casa mi ci volle una libbra di sapone per ripulirmele”. Scene del genere, in verità, avvenivano in tutte le nazioni europee, nonostante i princìpi di umanizzazione della pena professati dagli Illuministi e affermati nel celebre libro Dei delitti e delle pene da Cesare Beccaria. Fino al 1813 Mastro Titta usò la ghigliottina per ben 56 volte. Nel 1815 il Congresso di Vienna restituì Roma al Papa e, nonostante l'avversione per la "macchina di morte" introdotta dai francesi, già nel 1816 la ghigliottina fu ripristinata, perché ritenuto uno strumento agile e veloce per eseguire le condanne a morte. Tommaso Borzoni, reo di "omicidi appensati e ladrocinii", fu il primo ad essere ghigliottinato sotto il “nuovo” Governo Pontificio, il 2 ottobre 1816, mentre celebre, tanto da essere documentata nel film di Luigi Magni “Nell’anno del signore”. La pena di morte è stata supportata da diversi teologi già della prima cristianità. Sant'Ambrogio incoraggiò diversi membri del clero a pronunciarsi a favore; Sant'Agostino la sponsorizza nella sua opera La città di Dio: "Dal momento che l'autorità agente è una spada nelle mani [di Dio], non vi è contrarietà nei confronti del comandamento "Non uccidere" per quanti rappresentano l'autorità dello Stato e mettono a morte i criminali". Tommaso d'Aquino e Duns Scoto dissero che la pena di morte era supportata dalle scritture. Papa Innocenzo III chiese a Pietro Valdo e ai valdesi di accettare che "il potere secolare possa, senza peccato mortale, esercitare il giudizio del sangue, comminando le pene con giustizia, senza timore, con prudenza e senza precipitazione", come prerequisito per una riconciliazione con la chiesa di Roma. Durante il Medioevo e nell'era moderna l'Inquisizione venne autorizzata dalla Santa Sede a svolgere le funzioni di autorità secolare e a punire con la morte gli eretici, così come lo Stato della Chiesa fece e continuò a fare sino alla sua dissoluzione nel 1870. Il Catechismo romano del 1566 codificava l'insegnamento che Dio ha concesso alle autorità civili potere sulla vita e sulla morte. I dottori della chiesa Roberto Bellarmino e Alfonso Maria de' Liguori, così come i teologi Francisco de Vitoria, Tommaso Moro e Francisco Suárez continuarono questa tradizione di pensiero. Nello Stato della Chiesa la pena di morte fu praticata sino al 1870: l'ultimo giustiziato fu Agatino Bellomo, condannato per omicidio e ghigliottinato a Palestrina due mesi prima della conquista di Roma da parte delle truppe sabaude. Con la conquista dello Stato della Chiesa e la sua annessione al Regno d'Italia, la Santa Sede, non disponendo più di una sovranità temporale, venne de facto privata del diritto di comminare la pena di morte. All'atto della firma dei Patti Lateranensi e dell'istituzione della Città del Vaticano, la Santa Sede tornò a dotarsi di un territorio proprio e questo la costrinse a introdurre delle norme necessariamente di potere temporale. Il codice penale del Regno d'Italia, che aveva reintrodotto la pena di morte nel 1926, estese la pena capitale per il reato di tentato assassinio del papa sul proprio territorio, equiparandolo a quello di tentato assassinio del re. La Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano, emanata nel 1929 da papa Pio XI dopo la firma dei Patti Lateranensi e in sostanziale accordo con quanto presente nel codice penale del Regno d'Italia, previde la pena di morte anche nell'ordinamento della Città del Vaticano. Papa Paolo VI, in ritardo di 20 anni rispetto alla legislazione italiana, rimosse nel 1969 la pena di morte dagli Statuti vaticani, abrogandola per qualsiasi reato, ivi incluso il tentato omicidio del papa. Tuttavia il cambiamento divenne di pubblico dominio solo nel 1971, quando alcuni giornalisti accusarono Paolo VI d'ipocrisia per le sue critiche alle esecuzioni capitali in Spagna e Unione Sovietica. La pena di morte venne rimossa completamente dalla Legge fondamentale con motu proprio il 12 febbraio 2001, su decisione di Giovanni Paolo II. |