Le ragioni del federalismo: non solo Cattaneo

LE RAGIONI DEL FEDERALISMO
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NON SOLO CATTANEO

Quando si parla di federalismo il primo nome che viene in mente è Cattaneo (1801-69), cui spesso i manuali scolastici abbinano Ferrari (1811-76), e se si è a digiuno di storia, viene per forza in mente la Lega Nord, il cui teorico principale, in materia di federalismo, è stato l'accademico Gianfranco Miglio (1918-2001).

Eppure vi sono stati tanti altri intellettuali di spicco che han scritto pagine di libri contro lo Stato centralista italiano, nato con l'unificazione nazionale. E' sufficiente p.es. ricordare i nomi di Alberto Mario (1825-83), Arcangelo Ghisleri (1855-1938), Napoleone Colajanni (1847-1921), Gaetano Salvemini (1837-1957). Quest'ultimo, assai noto negli studi risorgimentali, approdò al federalismo studiando Cattaneo, e si convinse che i principali mali del Mezzogiorno erano dovuti anche alla presenza di uno Stato autoritario, che aveva permesso il saccheggio del sud e la sua trasformazione in colonia del nord.

Alla base del suo federalismo, che poi in questo è quello di Cattaneo, vi era il Comune, luogo dell'autogoverno cittadino per eccellenza, il cui diritto al suffragio universale andava considerato imprescindibile. A suo parere le autonomie comunali e regionali avrebbero dovuto gestire tutte le materie dello Stato, ad eccezione della politica estera. Anzi sarebbe stato meglio dire "autogestire", senza delega alcuna e soprattutto senza controlli da parte di quella longa manus statale, rappresentata dal prefetto provinciale.

Semmai dovevano essere dette realtà locali-regionali a delegare allo Stato la funzione di gestire la politica estera e tutto quanto concerne l'intera nazione. Era dunque stato un errore clamoroso aver voluto un paese sul modello francese, quando da noi, a differenza della Francia, le città, le comunità rurali o montane possedevano un'antichissima tradizione, ben consolidata.

Salvemini era un socialista di vecchia data (sin dal 1893): poiché le sue idee non furono accettate dal partito, se ne andò nel 1911, rifiutando, in particolare, la linea di compromesso coi governi giolittiani. Era così fiducioso nell'opzione federalista che non aveva dubbi nel poterla vedere applicata, prima dello scoppio della guerra, all'agonizzante impero austro-ungarico.

Anche questa idea, in realtà, risaliva al Cattaneo, il quale si aspettava dalla rivoluzione viennese del 1848, che, in una prospettiva federalista di quell'impero, il regno Lombardo-Veneto avrebbe potuto giocare un ruolo rilevante. Cosa che non avvenne, proprio perché il federalismo s'impone con più facilità là dove le forze in campo sono in un certo senso equivalenti: vi era più "federalismo" tra austriaci ed ungheresi, che non tra questi due gruppi e tutti gli altri del vecchio impero, il quale, se non fosse stato autoritario e accentratore, la fine del conflitto mondiale probabilmente non avrebbe determinato il suo frantumarsi in una serie non indifferente di piccoli Stati indipendenti.

Solo poco prima dell'imporsi del fascismo italiano, Salvemini cominciò a credere che nella generale immaturità politica delle masse (che permettevano appunto a un dittatore di governarle), forse la soluzione centralista, per realizzare finalmente l'unificazione, era stata l'unica possibile. Come noto, egli fu costretto a lasciare l'Italia nel 1925, ma dagli Stati Uniti continuò a scrivere lettere appassionate a favore del federalismo.

Tuttavia, negli ultimi anni della sua vita, visto lo scarso successo delle idee federaliste in Italia, iniziò a ipotizzare, come obiettivo intermedio, l'istituzione di uno Stato unitario decentrato, all'interno del quale le autonomie locali, su "mandato" dello Stato, avrebbero avuto facoltà di esercitare tutte quelle funzioni che servono per aumentare progressivamente la democrazia. E sarà questa in sostanza l'idea che passerà nel dettato costituzionale (per quanto Salvemini fosse contrario all'istituto della Regione), idea poi tradita dal voltafaccia della Democrazia cristiana che, prona ai desiderata del governo Truman, che minacciava, in caso contrario, di non elargire aiuti economici, pensò di far coincidere gli interessi del partito con quelli dello Stato, in modo da ripetere, riveduto e corretto in direzione del consumismo, il centralismo fascista del ventennio.

Forse pochi ricordano che la Dc di De Gasperi, negli anni immediatamente antecedenti alla stesura della Costituzione e prima della svolta apertamente anticomunista, non era affatto favorevole al centralismo, proprio perché si riallacciava in maniera organica alla tradizione politica e culturale del popolarismo di don Luigi Sturzo (1871-1959), il quale, influenzato dalla posizione antistatalista della chiesa romana, aveva in mente uno Stato organizzato per autonomie, di cui la principale era il Comune, nel quadro della federazione politica degli Stati europei. Il Comune nella sua Sicilia costituiva - secondo lui - l'organo fondamentale di un'autonoma organizzazione democratica.

L'astrattezza del suo federalismo era evidente non solo in questo, ma anche laddove vedeva la Svizzera e gli Stati Uniti come i due principali centri della libertà e della democrazia nel mondo. Ingenuamente inoltre egli pensava che ogni guerra avrebbe potuto evitarsi all'interno di un regime di solidarietà internazionale tra Stati interdipendenti. Una soluzione - come si può notare - meramente politica, che, in riferimento all'Europa, egli riteneva ancor più fattibile nella misura in cui gli Stati si fossero riconosciuti nella medesima civiltà cristiano-cattolica.

Di rilievo comunque il fatto ch'egli non sopportava l'idea di un ente Regione quale anello burocratico dello Stato centralista: cosa che invece accadrà puntualmente per tutto il cinquantennio democristiano. Tali incongruenze storiche non hanno riguardato solo la Dc, ma anche il Partito repubblicano, che pur comportandosi nella fase della I Repubblica nella maniera più centralista possibile, s'era espresso, per bocca di alcuni suoi significativi esponenti, a favore non solo del decentramento ma addirittura del federalismo statuale.

Prendiamo p.es. le tesi di Oliviero Zuccarini (1883-1971), fondatore della rivista "La critica politica". Egli era convinto che mentre allo Stato si potevano riservare funzioni politiche, ai Comuni e alle Regioni dovevano spettare quelle amministrative, senza intromissioni governative. Lo Stato fascista non era stato altro, per lui, che la prosecuzione, in forma smaccatamente autoritaria, dello Stato liberale, non meno centralista e burocratico, soppressore di ogni forma d'autonomia. Gli pareva inconcepibile che quanto di federalista s'era realizzato in Svizzera, caratterizzata da lingue, etnie, religioni diverse, non potesse verificarsi minimamente in Italia. Per quale motivo la Svizzera era riuscita a imporsi senza violenze di sovrani ereditari, senza prefetti e senza eserciti permanenti? Egli, in particolare, si batterà a favore dell'ente Regione in una commissione per la stesura della Costituzione.

Indubbiamente allo sviluppo delle idee federaliste contribuì non solo la crisi dello Stato liberale, che portò alla drammatica colonizzazione interna del Mezzogiorno e alla catastrofe della I guerra mondiale, ma anche la disfatta del fascismo, che in nome del più assoluto centralismo, sembrava promettere agli italiani un futuro da superpotenza.

Carlo Rosselli (1899-1937) non ebbe neppure bisogno di attendere la fine della II guerra mondiale, anche perché i sicari del duce non gliene diedero il tempo. Nel suo saggio Socialismo liberale aveva capito perfettamente che il processo di unificazione nazionale era stato strumentalizzato da una minoranza - la burocrazia piemontese - che aveva spento ogni speranza di autonomia. E il fascismo non aveva fatto altro che portare a compimento un tragico destino per le sorti dell'Italia. Sarebbe stato impensabile, a questo punto, non lottare per un vero Stato democratico fondato sulle più ampie autonomie locali.

Carlo Levi (1902-75), Leone Ginzburg (1909-44), Emilio Lussu (1890-1975), pur provenienti da culture ed esperienze molto diverse, su questo erano all'unisono. Levi addirittura invece della parola "decentramento", per lui riduttiva, preferiva usare quella di "autogoverno", pensando ai Comuni come principali referenti. In questo, bisogna dirlo, egli vedeva più in là degli stessi padri fondatori della Costituzione.

Dal canto suo Ginzburg criticava duramente l'idea che l'unità potesse essere meglio garantita da un forte potere centrale. Idea che, come noto, trovava e trova ancora oggi le sue più lontane radici nella cultura cattolico-feudale, anche se mille anni fa la chiesa romana la usava per se stessa, in antitesi al potere imperiale, ed era una prassi, non solo un'idea teorica, cui spesso si contrapponeva, a mo' di rivalsa, la cosiddetta anarchia dei poteri forti a livello locale. Tutta la storia del Medioevo euro-occidentale può essere vista come un permanente conflitto non solo tra due istanze centraliste e autoritarie (chiesa e impero), ma anche tra queste due realtà e le tendenze centrifughe dei poteri nobiliari prima e poi borghesi.

Il prevalere del concetto di "unità", anche secondo Lussu, esponente del Partito sardo d'azione, aveva finito col soffocare, sin dalla fase risorgimentale, ogni altra istanza a favore della democrazia, della libertà, del federalismo e persino della stessa repubblica, nata in Italia relativamente tardi.

Sul versante dell'antifascismo rivoluzionario, forse il contributo più significativo in direzione del federalismo è stato dato da Silvio Trentin (1885-1944), esiliato in Francia nel 1926, appartenente all'ala sinistra del movimento "Giustizia e Libertà". Fu padre del noto sindacalista della Cgil, Bruno Trentin.

Egli non si faceva illusioni sul carattere democratico dello Stato federalista: per realizzare veramente un'alternativa al centralismo autoritario occorreva compiere una rivoluzione politica in chiave socialista, cioè socializzando i principali mezzi produttivi. Di qui le sue simpatie per il collettivismo russo, di cui però aborriva i metodi dirigisti dello stalinismo. L'idea di un socialismo federalista apparteneva anche a Ignazio Silone (1900-78), che dalla Svizzera, nel 1941, dirigeva il centro estero del Psi.

A parere di Trentin uno Stato federale avrebbe potuto conciliare meglio la direzione dell'economia con la salvaguardia delle libertà, a condizione però che queste libertà sapessero tutelare se stesse, senza confidare in una fantomatica neutralità dello Stato. Egli inoltre era convinto che tanti Stati federali avrebbero promosso più facilmente un'Europa federata.

Su quest'ultima cosa erano convinti anche i tre antifascisti che nell'isola di Ventotene, ove erano stati confinati dal duce, scrissero il Manifesto per un'Europa libera e unita (1941). L'ex-comunista Altiero Spinelli (1907-86), il giellista Ernesto Rossi (1897-1967) e il socialista Eugenio Colorni (1909-44), convinti che non vi sarebbe stato alcun futuro per il nazifascismo, postulavano la nascita di un'Europa federata, senza però gli eccessi del collettivismo sovietico. Dei comunisti apprezzavano soltanto la capacità rivoluzionaria.

Come noto, essi diedero vita al Movimento Federalista Europeo, cui si unì lo stesso Ginzburg. Tra i membri fondatori vi fu anche il valdese Mario Alberto Rollier (1909-80), militante del Partito d'Azione, il quale sosteneva l'idea di creare gli Stati Uniti d'Europa, al fine di superare i guasti incalcolabili che su questo continente aveva prodotto il nazionalismo. Anche lui guardava con favore la Svizzera e gli Usa: la prima per la capacità di sottrarsi a qualunque tentazione bellicista; i secondi per la capacità di federarsi senza aspettare l'unanimità dei consensi.

Ora, prima di parlare del teorico della Lega Nord, è necessario accennare brevemente ad altri due esponenti significativi non tanto del federalismo in sé, quanto piuttosto della vita politica ed economica della nostra nazione: Luigi Einaudi (1874-1961) e Adriano Olivetti (1901-60). Il primo pensava, un po' ingenuamente, che un'Europa federata avrebbe avuto senso solo a condizione che gli Stati nazionali rinunciassero a buona parte della loro sovranità. La federazione cioè avrebbe reso impossibile le dichiarazioni di guerra tra Stati europei solo se si fosse creato una sorta di super-Stato, il cui parlamento avrebbe dovuto essere diviso in due Camere, sul modello americano: una degli Stati e un'altra dei cittadini, elettiva, senza distinzione fra Stato e Stato.

Olivetti invece era convinto che il federalismo potesse essere una via di mezzo tra socialismo di Stato e liberalismo, in grado di risolvere la secolare diatriba tra individuo e Stato. E per lui la "terza via" stava soltanto nella valorizzazione delle autonomie locali, la cui capacità di autogoverno egli cercò di mettere alla prova aprendo una fabbrica a Pozzuoli e promuovendo a Matera un villaggio rurale per recuperare utilmente le terre incolte.

E ora veniamo a Gianfranco Miglio, già senatore e docente presso la facoltà di Scienze politiche all'Università cattolica di Milano. Per trent'anni egli ha teorizzato la necessità del federalismo per lo Stato italiano. Il suo punto di partenza era abbastanza semplice: nel nostro paese convivono due culture opposte, attivista ed europea quella del nord, indolente e mediterranea quella del sud. La prima è pluralista e vocata al mercato; la seconda è monocratica e vocata all'assistenzialismo statuale.

Miglio sostiene che ogni cultura deve seguire la propria strada, senza dover rendere conto all'altra, ovvero lo scambio tra le culture deve essere lasciato alla libertà dei contraenti, non può essere la conseguenza d una pretesa egemonica da parte di una sulle altre. Non ha più senso che un'autorità centrale emani norme vincolanti per tutti, anche perché, dopo la fine del bipolarismo mondiale, le ideologie hanno subìto un crollo irreversibile. Su questo anche Massimo Cacciari si trovava d'accordo, auspicando un ripensamento generale delle relazioni centro-periferia.

Tuttavia in Italia - secondo Miglio - il federalismo non può essere fatto mettendo d'accordo venti Regioni. Posto che le cinque a statuto speciale possono restare così come sono, è necessario che si provveda alla costruzione di tre macro-regioni, comprendenti, al nord (Cantone Padano), Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, al centro (Cantone Tuscia), Toscana, Marche, Umbria, Abruzzi, Molise e Lazio, al sud (Cantone Mediterraneo), Campania, Calabria, Puglia e Basilicata.

Le tre macro-regioni dovrebbero essere rette da governatori eletti direttamente dal popolo, che potranno essere sfiduciati ma non sostituiti dall'assemblea della macro-regione (Dieta). A livello nazionale Miglio prevedeva, sulla base di modelli già consolidati altrove, la Camera dei Popoli e la Camera degli Stati, differentemente rappresentative dell'intera nazione.

Nei suoi testi egli è sempre convinto che il federalismo sia il modo migliore di rispondere alla crescente complessità della società civile, che muovendosi molto più velocemente di quanto riesca a fare lo Stato, ha sempre più bisogno di autogestirsi. Inoltre in un territorio più limitato geograficamente, rispetto alle pretese nazionali di uno Stato generalista, è più facile conservare le proprie radici culturali, sempre che si disponga di un'adeguata autonomia, anche fiscale.

Alle istanze federaliste ha voluto prestare attenzione anche la Fondazione Agnelli, che è arrivata ad ammettere - per bocca di M. Pacini - un principio che con un minimo di democrazia si sarebbe dovuto considerare elementare sin dagli inizi dell'unificazione, e cioè che la delega ai livelli superiori del potere è accettabile soltanto quando i problemi non trovano la loro più razionale ed efficace soluzione al livello inferiore.

La Fondazione non sembra volere delle macro-regioni, quanto piuttosto una loro riduzione a dodici, in modo che lo Stato possa configurarsi meglio come Stato regionalista. Delle attuali regioni solo sei risultano del tutto autosufficienti: Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Marche e Lazio. Tutte le altre beneficiano di trasferimenti statali per coprire le loro spese. Se fossero in tutto dodici si potrebbero ridurre le spese di gestione e le sei virtuose potrebbero aiutare meglio le altre. L'autosufficienza regionale, basate su risorse interne, resta l'obiettivo ottimale del federalismo.

Fonti

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica
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Aggiornamento: 23/04/2015