CONTRO LA GRAMMATICA ITALIANA |
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COMPLEMENTI DI SPECIFICAZIONE, DI DENOMINAZIONE E PARTITIVO
Perché diciamo che la grammatica italiana è sofistica e che i suoi sofismi e le sue sofisticazioni sono pedanti? Semplicemente perché l'apprendimento della scrittura non è direttamente proporzionale all'acquisizione di regole complicate. L'acquisizione di queste regole può rientrare nel bagaglio di curiosità personali che uno può coltivare successivamente, non può far parte del bagaglio di uno studente che deve soltanto imparare a costruire frasi che abbiano un qualche senso (come avviene nella media dell'obbligo). E perché queste frasi abbiano un senso noi docenti diciamo che, in genere, è sufficiente ch'esse abbiano un soggetto, un predicato verbale e complemento. Posto questo, tutto il resto dipende dalla punteggiatura (su cui peraltro bisognerebbe lavorare molto di più, visto che gli studenti hanno da tempo eliminato dalla loro interpunzione il punto e virgola e i due punti, sostituendo persino il punto, nei casi più gravi, con una semplice virgola, essendo seguaci, come noto, del linguaggio più mondiale della storia, chiamato "Short Message Service"). Non è insomma possibile che un alunno di scuola media debba apprendere tutte le elucubrazioni mentali di grammatici pedanti, meno che mai se questo alunno è di origine straniera (cosa oggi sempre più frequente). Se si adottassero grammatiche per stranieri anche per gli studenti italiani noi faremmo la cosa migliore, perché se gli stranieri imparano a scrivere con quelle grammatiche, allora di sicuro impareranno anche i nostri. Nel caso opposto invece gli stranieri si trovano in grande difficoltà e noi non siamo affatto sicuri che gli studenti italiani imparino davvero a scrivere in virtù delle attuali astruse grammatiche (che nella loro astruseria sono tutte uguali); i più infatti sanno scrivere grazie a delle buone elementari. Tutto questo discorso come premessa a tre complementi indiretti che apparentemente si somigliano e che nella sostanza si equivalgono a tal punto che si potrebbero ridurre a uno solo, al primo di essi: specificazione, denominazione e partitivo. Si confondono perché sono riconoscibili dalla presenza di preposizioni come "di, del, dello, della, dei, degli, delle...". Per esempio: "Dovresti fare un po' di sport per dimagrire". Questa frase che i coniugi spesso si dicono tra loro regge - si chiede angosciata la Zordan - un complemento partitivo o di specificazione? Ora, se la si intende nel senso che tra tutti gli sport di questo mondo ne andrebbe fatto almeno uno, certamente regge il partitivo. Chi mai potrebbe o vorrebbe fare tutti gli sport per dimagrire? Soltanto uno che in realtà non ne avesse affatto alcuna intenzione. Anche nel caso in cui la si intenda nel senso che di tutta la ginnastica necessaria per dimagrire, bisognerebbe farne almeno un po', dovremmo di nuovo considerarla un partitivo. Qui però c'è un problema. Se quel poco di ginnastica che faccio mi serve allo scopo, allora quel "poco" non è più la parte di un tutto, ma è proprio tutto quello che mi occorre e su cui in fondo contava chi aveva detto quella frase, pur avendo usato tutta la delicatezza possibile. Dunque, "un po' di ginnastica" non è un vero partitivo e tanto meno un complemento di specificazione, perché qui per fortuna non si specifica il tipo di sport da fare, sicché uno può inventarsi qualunque cosa in cui ci sia del movimento e chi può intendere intenda. Insomma, se mia moglie, vedendo la mia obesità, mi dicesse soltanto: "Dovresti fare qualcosa", io le risponderei, facendo lo gnorri, "e che cosa?". A questo punto però, senza rendersi conto che esiste una regola antica quanto Adamo ed Eva, lei sarebbe costretta a rispondermi con un bel complemento oggetto! E io così l'avrei fregata, perché, con buona pace dei sensi della Zordan, "un po' di ginnastica" è soltanto un complemento che prescinde totalmente dal fatto che io mi ci applichi molto o poco, cioè che io resti più o meno obeso. Ma, a parte gli scherzi, chiediamoci: se uno dovesse procedere a ritroso, per così dire ab ovo, e dovesse scegliere uno dei tre suddetti complementi avente funzione "divina", come nel Prologo di Giovanni, cosa sceglierebbe? Senza dubbio quello di specificazione. Questo perché quando si studia grammatica bisogna guardare l'effetto pratico generale, che nella scuola media è quello di saper scrivere correttamente, senza errori ortografici, morfologici e sintattici; anche se un professore attento dovrà saper cogliere tra gli errori la semantica significativa, quella che esprime disagio, ansia, tensione, quella che può essere riassunta in un magistrale titolo di libro: Io speriamo che me la cavo. Ora, è davvero importante sapere che "la città di Pisa" è di denominazione, mentre la sua "torre" è di specificazione? Chiunque si rende conto che il complemento di denominazione è un sottoprodotto dell'altro complemento. E allora perché metterlo nel libro di testo sullo stesso piano? Perché non fare una grammatica per "macroaree" o per "insiemi", in cui si spiega chiaramente, sin dall'inizio, che alcuni complementi sono fondamentali per saper scrivere correttamente, altri invece sono secondari, cioè si possono anche non sapere come regola grammaticale? "Semplicità" non vuol dire "banalità"; anzi, spiegare le cose complesse in maniera semplice è una grande virtù. Ma questo non vuol dire che occorra spiegare tutte le cose a prescindere dall'età di chi ci ascolta. Bisogna sempre rispettare i tempi di crescita, le capacità ricettive, rielaborative e applicative. Ma se è vero che la grammatica va modulata sulla base dell'utenza, perché il 100% di questo compito deve svolgerlo la scuola dell'obbligo? Per quale ragione le "finezze" non vengono lasciate alle scuole superiori e all'università? Alle medie l'unico argomento che non si tratta è la "storia della grammatica" (e se per questo neppure alle superiori). Che poi sarebbe quello che più di altri potrebbe aiutarci a capire la genesi dei complementi, l'origine di tutte le regole. In principio infatti deve pur esserci stato qualcuno che ha elaborato delle regole al fine di mettere ordine in una situazione un po' confusa o che poteva generare incomprensioni, equivoci, malintesi. Perché dunque non conoscere le situazioni che hanno generato le regole? Per quale motivo un grammatico deve elaborare un testo scopiazzando da quello di altri e modificandone solo gli esercizi? Anzi, di più: perché non partire dagli errori più comuni che i ragazzi fanno quando scrivono qualcosa, e da lì risalire alle regole per evitare di ripeterli? In tal modo il testo di grammatica verrebbe usato solo "a posteriori", post festum, e senza seguire l'ordine dei capitoli. Oggi invece tutti procediamo in maniera opposta: dall'astratto al concreto. L'alunno deve imparare una regola astratta, per poi cercare di applicarla quando scrive. Ma siccome è distratto, svogliato, soffre di crisi adolescenziali ed è anche un po' psicopatico, come tutti noi del resto, essendo figli di questa società, continua a scrivere "sto" e "sta" con l'accento per tutto il triennio, anche se, per la disperazione, gli si dice, quasi supplicandolo: "In caso di dubbio non mettere l'accento, sicuramente sbagli di meno, e se proprio vuoi essere sicuro, fai un piccolo sforzo: consulta quella cosa là chiamata dizionario". Quando la complessità diventa allucinante, al punto che il risultato ottenuto è assolutamente sproporzionato rispetto alle aspettative, allora è giunto il momento di dire basta e di ritornare alle cose semplici. Questi vichiani corsi e ricorsi avvengono nella storia degli uomini sin dal primordiale big bang: perché mai non dovremmo accettarli nella grammatica impartita ai nostri figli? |
Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"