Gli esperimenti di Fernando Pessoa
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Fernando Pessoa (1888-1935) è il re degli eteronimi. Scrisse
articoli per varie riviste usando nomi fantastici, per i quali inventò
anche una biografia, con tanto di data di nascita e di morte. Per tutti
tranne che per Ricardo Reis, per quanto riguarda la morte: il
personaggio sarà abbandonato in una sorta di limbo dal quale verrà poi
cavato dal romanziere Josè Saramago.
Come Bernardo Soares, Pessoa scrisse “Il Libro dell’inquietudine”, un testo sul quale vale la pena soffermarsi. Lo si fa non tanto per ciò che il libro di fatto non racconta, ma per il modo con cui avviene la narrazione. E’ un insieme di pensieri e di considerazioni che si fanno concretezza davanti agli occhi dello scrittore. E’ come se Pessoa scoprisse il mondo passo dopo passo: uno scenario che gli si apre davanti in tutta la sua povera magnificenza. Gli è che lo scrittore portoghese riesce a trasportare la banalità del vivere quotidiano nello stupore esistenziale. Le tante sue mascherature sono esperimenti legati all’esistenza, benché vengano scanditi dai ritmi convenzionali della vita. Ai suoi eteronomi, Pessoa assicura una dignità, li rende presentabili, li vuole portatori di un’idea, di una proposta di vita, di un orgoglio di essere. Ci risiamo con l’esistenza. Nel caso di Pessoa essa ha poco a che vedere con l’esistenzialismo: quest’ultimo pretende un certo protagonismo, esige un comportamento diretto, quasi di sfida alle pretese del nulla. Si viva intensamente il momento e si dimostri, con questa intensità, il proprio valore, si metta in piazza la propria consapevolezza del crollo di riferimenti assoluti. Teniamo conto della profonda crisi religiosa, una crisi dovuta all’avanzare impetuoso del vittorioso mondo laico: ma è una vittoria materiale che non va a consolare i problemi spirituali, metafisici. La metafisica, spogliata di ogni orpello tradizionale, è una cosa terribilmente seria perché essa esiste comunque nell’animo umano. La vita è breve rispetto alle possibilità intellettuali. L’intelletto va oltre, ben oltre, il vile periodo di presenza terrena dell’individuo. Non poter soddisfare concretamente questa osservazione, porta inevitabilmente a considerazioni oltre il proprio stretto raggio d’azione. La conseguenza è l’amarezza per la sconfitta, resa ancora più evidente dalla visione – quanto mai chiara – della morte che fa quello che vuole della vita. La morte è sempre incombente ed è serenamente crudele. L’uomo può solo subirla. La sua ribellione può avvenire con le sole parole, quanto si voglia accorate e quanto si voglia disperate. Pessoa, la disperazione la esprime senza esagerare. Sta orgogliosamente sulle sue, riflettendo sulle sensazioni che prova di fronte ad un sentimento tanto gravoso. Ma la sua vera grandezza sta nella curiosità che pone nel mezzo della questione esistenziale, come se si trattasse di un problema speciale sì, ma non troppo in fin dei conti, e che quindi possa essere trattato con una certa disinvoltura. Amarezza sì, delusione anche, ma non ossessione e tanto meno angoscia. Semmai malinconia. Ecco, la malinconia di Pessoa risulta esemplare: non è sdolcinata, è seriamente partecipativa ai propri argomenti, si avvale di un’intelligenza profonda e di una sensibilità eccezionale. Il tutto entro una certa pacatezza che consente valutazioni interiori particolarmente raffinate. Pessoa scopre e riscopre di essere più che di vivere. Segretamente vive male. Le sue poesie, grandiose (in verità degli aforismi in forma di poesia), evidenziano questo dolore vitale, ma niente, con ogni probabilità, come “Il libro dell’inquietudine” rispecchia il carattere dell’inimitabile scrittore portoghese. Pessoa, infine, disse di no alla vita, ma non lo fece con fredda determinazione. Sopravvisse grazie ad una piccola rendita eredita dalla nonna e ad un lavoro di traduttore (free-lance) presso un’azienda di import-export. Conosceva molto bene l’inglese, avendo trascorso la sua gioventù in Sudafrica. Restò sempre nell’ombra, intento alla sua amata letteratura, avendo come compagno l’alcol, purtroppo. L’alcol lo portò alla tomba, per cirrosi epatica, a soli 47 anni: gravissima perdita per la cultura. Forse irreparabile. |
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