LE AVVENTURE DELL'AUTOBIOGRAFIA
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Giovanni Papini (1881-1956) Letterato giornalista, uomo contro per gusto e vocazione, uomo finito nella propria autobiografia, Giovanni Papini, attraverso il primo scorcio del Novecento, partecipa attivamente al mondo delle riviste e allo spirito antiaccademico che le caratterizza, sebbene lAccademia dItalia non lo rifiuterà, chiamandolo nel 1935 a far parte della sua solenne congregazione. Ma gli anni della giovinezza sono tutti spesi tra il "Leonardo", il "Regno" e la "Voce" che dirigerà per breve tempo nel 1912, concorrendo a indirizzare la sua svolta letteraria. Nemico degli ismi (verismo e positivismo), egli sarà assai sensibile al mondo parigino di Péguy, Picasso e Bergson. Ma lansia del nuovo lo conduce nel clima rovente, nella rivoluzione futurista della rivista "Lacerba" dove si consuma lassalto alle convenzioni letterarie, quando ormai siamo alle soglie del primo conflitto mondiale. Durante questo periodo pubblica Cento pagine di poesia (1915), Stroncature (1916) e Opera prima (1917). Clamoroso fu poi il successo della Storia di Cristo (1921), mentre la sua vocazione giornalistica continua nel 1929 con la partecipazione alla rivista "Frontespizio". Lultima parte della sua vita è minata da una grave malattia agli occhi che lo costringe nel 1935 a rinunciare alla cattedra di letteratura italiana presso lUniversità di Bologna, sebbene il suo lavoro continui fino al 1956, anno della morte, con le Lettere agli uomini del papa Celestino sesto (1946) e con il Diavolo (1953), fino alla Spia del mondo (1956). Escono postumi nel 1962 Il Giudizio Universale, La seconda nascita, e il Diario. Giovanni Papini, Un uomo finito Tutta la mia vita è fondata su questa fede: ch'io sia un uomo di genio. Ma se invece sbagliassi, se fossi invece un di quei tanti orbi che prendono le reminiscenze per ispirazioni, i desideri per opere, e fossi, in una parola, un imbecille? Cosa ci sarebbe di strano? E' forse la prima volta che un imbecille s'immagina di essere un eroe, che un letterato si crede un poeta e che un idiota si mette i panni del grand'uomo? Non è possibile, mille volte possibile, ch'io non sia altro che un frigido lettore di libri, riscalducciato ogni tanto dai focolari altrui, reso spiritoso dallo spirito degli altri, e che abbia scambiato il sommesso borbottio di un'anima ambiziosa col gorgoglio di una vena pronta a scoppiare e sgorgare, ad abbeverare la terra e a rispecchiare il cielo? Più ci penso e più la cosa mi sembra verosimile e naturale. Chi mi dà il diritto di sperare in me e nel genio? Quel che ho fatto? Ma s'io sono il primo a rinnegarlo e a disprezzarlo! Risciacquature letterarie di tutti i paesi, sfoghi notturni di un farneticante, giochi di destrezza intellettuale... Nulla di più, nulla di meglio! Tutta la fede del mio genio sta nell'aspettativa lunga e inutile di un colpo d'ispirazione travolgente e trionfante, sta in questa mia irrequietezza perpetua che di nulla si contenta e di tutto ha schifo, fuor che di un mondo celestiale e platonico che a momenti mi par d'intravedere tra le nuvole del mondo vero; sta in quelle illuminazioni via subito volanti; in quelle tenui mosse liriche, in quelle rapide immagini tramutantesi subito in frasi felici che spesso mi passan per l'anima quando penso senza guardare, quando traverso di sera i miei ponti, tra il fiume e il cielo tutti tremanti di luce. Ma questo che prova? Il malcontento è cosi spesso una scusa della più clorotica debolezza! L'ambizione della gloria è talmente comune anche nelle anime più indigenti! E tutti quei brevi sogni fantastici non arrivano a esser la ventata uraganesca che spazza il mondo e solleva gli uomini verso gli angeli e le stelle; tutte quelle impressioni slegate, quelle ídeine scompagnate, quegli zampilli ricacciati subito in basso, quei corti spunti, quelle espressioncelle che non riescono a organarsi, a fondersi in un capolavoro, in un'opera piena e compiuta, non contano nulla. Ci vuole ben altro per avere il diritto di dar del tu ai sovrani creatori e di salire sulla torre per sputare o piangere sulla processione dei pettoruti soddisfatti. Le fuggenti scintille, i fochi fatui, le fosforescenze ingannevoli, i bagliori velati, i barlumi lontani, le scintille sorte e spente in un istante non sono la fiamma - son promesse, tentazioni lusinghe, son l'esca sempre rinata della vanità, sono il conforto estenuante del maledetto infecondo, sono i guizzi dell'agonia di un aborto. Non bisogna sperarci. Meglio sarebbe, anzi, che non ci fosse nulla. Quegli sbuffi di fiacca genialità sono il marchio di infamia e di tortura dell'uomo di mezzo - di colui che non è bestia perfetta né genio supremo, che non è pianta annosamente vegetante, né anima furiosamente creante né sordo pacco di materia, né colonna di fuoco innanzi ai popoli. Sono il mediocre, l'infame mediocre che odio con tutto l'animo; son quello che non sarà niente mai più, quando il cuore si fermerà e i polmoni si gonfieranno per l'ultima volta. Forse fui qualcosa, tempo fa per qualche momento; forse spesi tutto il genio che mi fu dato in una sola notte, in una sola partita di quel giuoco ch'ío non so. E ora son qua come un ebreo che abbia assaggiato l'uva della terra promessa, in un giorno di affrettata vendemmia e sia rimasto solo e colla bocca secca in mezzo al polveroso deserto - sono come chi sta sospeso tra il cielo e la terra: troppo corpulento per salire alle stelle e troppo etereo per raspare tra la melletta. Sedimenti di cultura, reminiscenze di poeti, brulichio di pensieri fanno di me un uomo inadatto alla solida vita del pratico e del meccanico e non son bastati a rendermi degno di quella di re delle menti. Non avessi almeno provato mai, neppur da lontano, neppur per un attimo, la spasimante gioia della creazione! Oppur fossi nato e rimasto, risolutamente e definitivamente, un dolce imbecille senza coscienza, un modesto cretino senza rimorsi, un buon idiota senza pretese! Invece no. So che sono un imbecille, sento d'essere idiota e ciò mi leva fuori dagli idioti interi e contenti. Son superiore fino al punto di capire che non sono abbastanza superiore e niente più. Forse, coll'andar degli anni, la mia imbecillità sarà più profonda e sarò allora, se non più felice, meno tormentato. E spero di tornare albero o sasso e di giacer finalmente nella beata incoscienza del tutto. Commento a Un uomo finito di Giovanni Papini, 1 In questo passo il mito del genio romantico e dellispirazione poetica viene rovesciata nellirrisione satirica. La valutazione del lavoro letterario viene investita del titolo poco lusinghiero di risciacquatura di letteratura straniera. La fede nella gloria artistica viene smentita da un severo giudizio sul proprio apprendistato letterario, giudicato rimasticazione di altra letteratura, come congettura di associazioni verbali frutto di destrezza intellettuale, di virtuosismo celebrale. Limmagine del malcontento, e soprattutto quella del mediocre, si sovrappongono come una maschera a quella del poeta vate, assalita dalla maschera del frigido lettore che ha divorato libri senza trasformarli in passione. Il poeta esiste nel nostro secolo solo a condizione che non creda a se stesso, al proprio ruolo, alla propria vocazione. Perché tutto questo accade? Che cosa conduce luomo del nostro tempo a svalutare il prodotto artistico, ad assumerlo come inutile esibizionismo culturale? La risposta è anche in questa autobiografia scritta con la consapevolezza, allusa dal titolo, di essere un uomo finito, cioè un poeta mancato, perché è la poesia la grande assente della nostra epoca, o almeno la sua aurea, cioè il prestigio che essa dona a chi ne è protagonista. Leggere non basta, perché se è vero che un uomo che ha letto un solo libro ha qualcosa di sinistro, colui che ne ha letti molti ha assorbito tutto e ritenuto niente, sa parlare di tutto ma in nulla è competente. La parola che serve ad illuminare il senso di questo brano è demistificazione di tutto quanto di illusorio larte produce. Papini Giovanni, Un uomo finito, 2011, Leonardo da Vinci |