CARLO GOLDONI (1707-1793)

CARLO GOLDONI, LA LOCANDIERA


La Locandiera è stata rappresentata per la prima volta nel 1752 a Venezia. E' ambientata a Firenze solo per ragioni di opportunità: Goldoni doveva aver ritenuto del tutto inutile offrire pretesti alla critica dei fautori della Commedia dell'Arte nei confronti della propria riforma teatrale. La Locandiera costituisce il vertice espressivo dell'autore nel periodo che va dal 1748 al 1753.

La protagonista, Mirandolina, non parla come una donna del Settecento, ma come un uomo che ha denaro sufficiente per sentirsi relativamente libero di dire quello che vuole. Non sposa il ricco conte, il borghese che s'era comprato il titolo nobiliare, non perché disprezzi i soldi, ma perché non vuole rinunciare alla propria indipendenza per godersi la vita. Mirandolina vuole restare autonoma perché in fondo è un'egocentrica: non vuole essere schiava dei soldi, non vuole fare qualcosa che la obblighi a pensare sempre e solo a come spendere e risparmiare, vuole anche divertirsi, prendere in giro chi secondo lei se lo merita.

E' una donna eticamente superficiale, anche se vuol mostrare d'esser furba e avveduta. Non si sposerà per convinzione ma perché le convenzioni la obbligano moralmente, e poi perché in questa maniera può evitare di passare per una donna "leggera", di facili costumi.

SCENA V (I atto)

La morale di Mirandolina è ferma solo quando si devono salvare le apparenze, ma quando sono in gioco gli interessi materiali si ammorbidisce subito. P.es. non rifiuta il regalo degli orecchini di diamante che il conte le fa: da un lato si rende conto che, accettandoli, si comprometterebbe, in quanto il conte vorrebbe sposarla; dall'altro però non vuol perdere il cliente, che s'indisporrebbe se lei rifiutasse il regalo. In ultima istanza l'interesse prevale sulla dignità personale. Finge di non sapere che "certi" regali hanno sempre dei prezzi da pagare in termini di moralità; finge perché è convinta di poter mettere a posto ogni cosa grazie alla propria personalità carismatica, vincente.

SCENA VI (I atto)

Mirandolina è molto sicura di sé e vuole ostentare le sue capacità. "Ho tanto spirito [leggi: padronanza o consapevolezza di sé] che basta per dire a un forestiere ch'io non lo voglio; e circa all'utile, la mia locanda non ha mai camere in ozio". Ideale (formale) e Utile (sostanziale). Lei si sente autonoma nelle decisioni, nel comportamento coi clienti e con gli uomini in generale. Può far leva sulla propria indipendenza economica. Ma se non l'avesse avuta, si sarebbe comportata nella stessa maniera? Apparentemente la sicurezza sembra gliela dia il carattere, la sua personalità: lei stessa lo dice a più riprese. Ma il legame con l'utile non è affatto irrilevante. Lei può permettersi quella autonomia "spirituale" anche perché è sostenuta da una sicurezza "materiale". Fa un po' la spaccona perché non è alle dipendenze di nessuno.

SCENA VII (I atto)

"Il mondo lo conosco anch'io", dice Mirandolina, mostrando d'essere all'altezza degli uomini. Lei non è un'ingenua, una contadina, una credente sempliciotta. Non vuole apparire così spregiudicata da rischiare d'essere fraintesa, ma ci tiene a non sembrare neppure una sprovveduta.

"I regali non fanno male allo stomaco", nel senso cioè che si prendono per quello che sono, senza dover pensare a secondi fini, sono sempre graditi. Quando si tratta di ricevere doni, Mirandolina, improvvisamente, trasforma la sua furbizia un po' impertinente in una ingenuità finta. Scherza col fuoco: non può infatti non sapere che in una società basata sul business, vige il principio del do ut des.

SCENA IX (I atto)

"Mi piace l'arrosto", cioè l'uomo facoltoso, sottolinea Mirandolina, che è consapevole della propria avvenenza, procacità, intelligenza e savoir-faire. Tutti di lei s'innamorano facilmente e non se la può prendere che uno (il cavaliere straricco) la tratti in malo modo. Si sente ferita nell'orgoglio e medita vendetta.

Lei è una superdonna e quelli che le corrono dietro, l'annoiano. La nobiltà non fa per lei, perché non soffre le etichette, le eccessive formalità, che poi per lei sono solo falsità, e addirittura falsità spregevoli quando l'aristocratico (come nel caso del marchese) è uno spiantato.

La ricchezza "la stima e non la stima". Sa di averne bisogno, perché non le piace umiliarsi a stare sotto padrone, sottopagata. Le piace anzi vedersi servita e riverita, desiderata e adorata. Lei dice che queste non sono debolezze solo sue, ma di tutte le donne e che a maritarsi non ci pensa proprio, almeno per adesso, e quando vi deciderà, sarà stato per fare un favore al padre che, morendo, le aveva lasciato in dote la locanda.

Mirandolina è così gelosa della propria libertà che anche quando si sposerà non potrà farlo con uno che le tenga testa. D'altra parte lei dice di vivere onestamente; essendo parte del ceto piccolo-borghese, il guadagno ottenuto dal proprio lavoro ha ancora un certo peso. Non è una che ama campare sfruttando il lavoro altrui. Le piace godersi la propria libertà come ricompensa del proprio lavoro.

Parla con molta abilità, molta prosopopea, come se avesse vissuto esperienze molto amare nel suo passato, esperienze che l'hanno indurita, pur dietro la maschera dell'autosoddisfazione. Goldoni toglie delle maschere di carta e ne mette altre di tipo umano. Mirandolina detestava gli uomini come Goldoni le donne. Lei non ha bisogno di nessuno, s'è fatta da sé, e vuole anche dimostrarlo, contro quanti resistono al suo fascino.

SCENA X (I atto)

Questa scena è stata messa per attenuare i lati spregiudicati del carattere di Mirandolina, che la renderebbero troppo trasgressiva, per i tempi d'allora. Lei quindi ha intenzione di sposarsi come tutte le altre. Solo che il marito che prenderà, pur essendo del suo ceto, non potrà non dominarlo. E' nella sua natura comportarsi così.

Fabrizio, il cameriere al suo servizio, è un buon ragazzo ma non alla sua altezza, non è sempre in grado di capirla o comunque di starle alla pari. E lui lo sa. La sposerà quindi soltanto per evitare che su di lei qualcuno possa malignare. Lei quasi lo compatisce, non vuol fargli vedere ch'è intenzionata (peraltro per dovere nei confronti del padre) a sposarlo, proprio perché anche lui va tenuto sottomesso, come tutti gli altri uomini. Fabrizio deve sapere che nei confronti di lei non potrà avanzare alcuna pretesa.

Lei lo vuole asservito sotto ogni punto di vista. E' lei che gli insegna il mestiere. "Siete troppo ruvido coi forestieri"; e voi "troppo gentile", ribatte lui. Si rimproverano a vicenda, ma l'ultima parola spetta a lei: "So quel che fo, non ho bisogno di correttori". Qui è l'intelligenza narcisista che parla, quella che si fa da sé e che però è consapevole d'aver bisogno di lavorare per campare.

Fabrizio fa la parte del geloso, di quello che ancora conserva un minimo di coscienza cristiana. Lei invece è una superdonna piccolo-borghese, autoreferenziale e sul piano religioso sostanzialmente atea. Fa la civetta per aumentare la clientela, ma dice di sapere quando è il momento di smettere. Lei sa chi può meritarla, lei sa quello che le conviene. Non ha paura di restare sola, coi suoi ragionamenti altezzosi, e non si preoccupa di dover sposare chi per lei altro non è che una nullità.

SCENA XV (I atto)

Col cavaliere Mirandolina recita la parte della dura, della cinica, dell'indifferente alle lusinghe (lei ci ride sopra). Ma sta davvero recitando una parte o è proprio questa la sua vera personalità e magari la parte (quella in cui si sforzava di salvare le apparenze) la recitava prima? Goldoni ha tolto la maschera fissa dal volto degli attori, ma quante maschere umane ha messo sul volto di Mirandolina? E in fondo tutte queste maschere (civetta, affarista, superdonna, cinica, moglie fedele per dovere, figlia devota per dovere...) non rischiano di ridursi a una sola: la mancanza di una vera moralità?

Ora, di fronte al cavaliere, proprio mentre lei si assume il compito di recitare la parte della furbastra amorale, che si prende gioco dei sentimenti altrui, veniamo in realtà a scoprire che questo è il vero volto borghese di Mirandolina, la quale, quando cercherà di recuperare il valore delle convenzioni di società, dichiarando che sposerà il cameriere Fabrizio, apparirà soltanto patetica, assai poco credibile.

Mirandolina è un personaggio spregevole: si reputa sincera mentre mente al cavaliere (poiché vuol dare una lezione di femminismo a un imperterrito misogino) e mente quando pensa d'essere sincera con se stessa, cioè quando pensa che non vi sia alcun cinismo nell'offendere i sentimenti d'amore di un misogino. Ma è forse morale fare l'amazzone? non è forse questo il rovescio speculare della misoginia? E' forse morale amare la libertà al disopra dell'amore? Mirandolina ha voluto fare l'equilibrista incosciente, senza rete di protezione, sperando di aumentare l'audience, ma il pubblico alla fine a che cosa applaudirà?

SCENA XVIII-XX (III atto)

Il cavaliere misogino, innamorato pazzo di lei, rischia di rovinarle la reputazione di donna seria, che deve restare coerente con le promesse fatte al padre, di donna emancipata, che non si lascia scegliere da nessuno. E così lei tronca ogni ambiguità umiliando il cavaliere davanti a tutti e promettendosi in moglie a Fabrizio. Un matrimonio di ripiego, utilizzato per rimediare a un petardo che l'era scoppiato in mano.

Lei ha giocato coi sentimenti altrui, non avendone più di propri, convinta di poterlo legittimamente fare con uno che disprezzava le donne. Ha forse dimostrato d'aver un tasso di moralità superiore a quello del cavaliere? Il contrario: è quest'ultimo che, rivedendo le proprie posizioni, fa davvero fare alla propria coscienza un progresso di umanizzazione.

Il fatto che Mirandolina alla fine dica pubblicamente di voler sposare un onesto lavoratore alle sue dipendenze, lei che avrebbe potuto sposare chiunque, non la riscatta eticamente.

L'epilogo è amaro, deprimente. Lei, così ostentatamente intelligente per tutta la commedia, non può non sapere che il cavaliere s'era davvero innamorato. Lei spera che lui stia al gioco (le cui regole erano fissate da lei stessa) sino in fondo, che finga cioè di non essersi innamorato veramente e che le dia ragione.

Ma questo sarebbe stato un miserabile gioco intellettuale, che persino un goliarda impenitente avrebbe dovuto rifiutare. "Ti ho preso in giro - è come se gli avesse detto -, ma tu stai allo scherzo, altrimenti passi per un debole, un incoerente". E così vuole ferirlo due volte, prima di fronte a se stessa, inducendolo a una passione senza sbocchi; poi verso gli altri forestieri, invitandolo a non rimangiarsi le parole altisonanti dette poco tempo prima.

Dovrebbe mentire due volte. Invece non lo fa, perché in fondo, nonostante la sua misoginia, era una persona onesta. Non si suicida per la vergogna, non ammazza Mirandolina per la rabbia, si convince soltanto ancora di più che delle donne non ci si può fidare.

Mirandolina resta ridicola quando sostiene che col matrimonio cambierà di colpo, metterà giudizio. Da donna leggera, volubile, civettuola, un po' cinica e molto egocentrica, diventerà di colpo una buona moglie e una buona madre, una donna dall'alta moralità, che non si abbasserà più a fare scherzi da adolescente. E' ridicola perché non si rende conto di che fatica occorra per fare un lavoro su di sé.

E poi qui è incredibilmente ottimista anche per un'altra ragione: è sempre stata sicurissima di sapere tutto dei borghesi, sicura di poter affrontare le potenti armi della grande borghesia (il cavaliere misogino) con quelle della sua intelligenza e anche della sua esperienza, poiché si vanta di aver avuto piccoli assaggi, nella sua locanda, del comportamento e della mentalità di questa forza sociale. Si sta illudendo di poter fronteggiare le armi potenti della grande borghesia con la consapevolezza di avere un cervello astuto, da intellettuale. E se il cavaliere l'avesse messa nelle condizioni di dover chiudere la propria locanda, come sarebbe finita questa commedia?

CONCLUSIONI

Goldoni ha voluto prendersi le sue rivincite personali contro l'alta borghesia e l'aristocrazia. Ha messo sull'altare una variante della Mandragola di Machiavelli, ove l'indifferenza ai sentimenti, che si voleva far passare per morale col pretesto che era rivolta contro chi aveva ossessione per denaro e titoli, viene assunta come strumento di rivendicazione sociale, mancando nella società italiana del Settecento una qualunque resistenza politica al potere autoritario costituito (quel potere che invece in Francia stava pericolosamente andando in rovina).

Lui stesso lo scrive: "Fra tutte le Commedie da me sinora composte, starei per dire essere questa la più morale, la più utile, la più istruttiva. Sembrerà ciò essere un paradosso a chi soltanto vorrà fermarsi a considerare il carattere della Locandiera, e dirà anzi non aver io dipinto altrove una donna più lusinghiera, più pericolosa di questa. Ma chi rifletterà al carattere e agli avvenimenti del Cavaliere, troverà un esempio vivissimo della presunzione avvilita, ed una scuola che insegna a fuggire i pericoli, per non soccombere alle cadute".

Goldoni in realtà inganna se stesso e prendendo le parti della protagonista non ha reso un buon servizio alla causa delle donne. Anzi il vero misogino è lui, che ha voluto far fare a Mirandolina una parte tutt'altro che femminile, sicuramente molto forzata per l'epoca, o comunque eccezionale, riferibile solo a qualche soggetto privilegiato.

Lui stesso lo scrive: "Io non sapeva quasi cosa mi fare nel terzo atto, ma venutomi in mente, che sogliono coteste lusinghiere donne, quando vedono ne' loro lacci gli amanti, aspramente trattarli, ho voluto dar un esempio di questa barbara crudeltà, di questo ingiurioso disprezzo con cui si burlano dei miserabili che hanno vinti, per mettere in orrore la schiavitù che si procurano gli sciagurati, e rendere odioso il carattere delle incantatrici Sirene".

Ma la Locandiera è l'autobiografia del Goldoni? E lui sarebbe il cavaliere misogino o Mirandolina? Entrambi, proprio perché sono due facce della stessa medaglia: l'egocentrismo.

Lui stesso lo scrive, anche se qui, scendendo sul personale, non può essere troppo sincero: "Dio volesse che io medesimo cotale specchio avessi avuto per tempo, che non avrei veduto ridere del mio pianto qualche barbara Locandiera. Oh di quante Scene mi hanno provveduto le mie vicende medesime!... Ma non è il luogo questo né di vantarmi delle mie follie, né di pentirmi delle mie debolezze".

E Goldoni pensava davvero d'aver insegnato la moralità con una commedia del genere? Pensava davvero che le mogli oneste l'avrebbero applaudito e quelle disoneste l'avrebbero insultato? Non sta forse ingannando se stesso? Non sta forse illudendo lo spettatore sulla liceità di questa commedia?

Lui stesso lo scrive e questa volta mentendo spudoratamente: "Bastami che alcun mi sia grato della lezione che gli offerisco. Le donne che oneste sono, giubileranno anch'esse che si smentiscano codeste simulatrici, che disonorano il loro sesso, ed esse femmine lusinghiere arrossiranno in guardarmi, e non importa che mi dicano nell'incontrarmi: che tu sia maledetto!".

Le tante "femmine lusinghiere" che lui qui disprezza non erano forse quelle che aveva sempre cercato quand'era giovane, finché nel 1736, a 35 anni, aveva deciso di sposarsi, in tutta fretta e per motivi di sicurezza, la figlia diciannovenne di un notaio del collegio di Genova, Nicoletta Conio?

Biografia Goldoni

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Testi


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019