Le sperimentazioni di Joyce

Le sperimentazioni di Joyce

James Joyce

Dario Lodi


Quando un’anima nasce in questo paese le vengono gettate delle reti per impedire che fugga. Tu mi parli di religione, lingua e nazionalità: io cercherò di fuggire da quelle reti. (James Joyce, Ritratto dell’artista da giovane.)

Di James Joyce (1882-1941) sono sicuramente tre i testi storici: Gente di Dublino, Ulisse e Finnegan’s Wake. Sono anche in ordine cronologico, ammesso si posa dare un senso, nel caso di Joyce, alla cronologia. Gente di Dublino (con il suo più famoso racconto, I morti) è una sorta di avvio del modo espressivo dello scrittore irlandese. Accanto a descrizioni “normali” (di estrema raffinatezza letteraria) esistono espressioni nuove, derivate dal concetto di “flusso di coscienza”, sperimentato per primo dal simpaticissimo scrittore francese Edoaurd Dujardin, bon vivant sino ad 88 anni (morì nel 1949 soddisfatto della sua esistenza).

Questo flusso di coscienza peraltro figlio delle sperimentazioni romantiche e decadentiste (si pensi per lo meno a Baudelaire) e in qualche modo regolamentato dal Dujardin, è lo spazio dato alle emozioni a suo tempo accantonate e pronte a risorgere per un avvenimento improvviso che le richiama in vita e le impone su qualunque desiderio di sistemazione logica e convenzionale. In altre parole, la sistemazione razionale di ciò che accade viene sostituita da un altro tipo di razionalità sganciata dai metodi tradizionali. Il suo Ulisse è un capolavoro in questo senso. La sperimentazione del nuovo linguaggio domina l’intero, corposo, volume e indubbiamente suggestiona, anche se, va detto, non mancano forzature. 

Il “giochino” del flusso di coscienza, canonizzato, è un riconoscimento dell’interiorità ancora inesplorata dell’uomo. C’è qualcosa di freudiano in tutto questo, ma c’è soprattutto un tentativo di rivalutare la figura umana, liberandola dal semplicismo del sistema imperante.

Il clima culturale nel quale opera Joyce non è certo per una affermazione statica, ma sposa l’imprevedibilità come fatto nuovo. Ovvero una imprevedibilità controllata e domata al momento opportuno. Si cancella la mentalità del passato (dalla quale si veniva domati) e si cerca di instaurare un modo tutto umano di valutare le cose. La nuova valutazione porta con sé il desiderio ed anche la volontà di fare a meno dei canonici legacci rappresentati dalla religione e dal potere temporale laico: di fatto essi impediscono lo sviluppo delle possibilità umane. Il vecchio Romanticismo entra qui in vesti rinnovate da una sensibilità consapevole dei propri diritti. Assurdo soffocarli nelle regole museali: l’uomo deve poter finalmente fondare il proprio mondo. La sua personalità deve essere portata alla luce. L’uomo deve essere responsabilizzato in modo assoluto. Ecco il nuovo riferimento.

Joyce dà una grande mano all’operazione in atto, stando alla larga da velleità tipiche, ad esempio, dell’arte figurativa contemporanea. Astrattismo e Cubismo rischiano di perdersi in ghirigori intellettualoidi: si fermano alla proposta di rottura dell’immagine tradizionale, non costruiscono quella nuova se non a parole. Il concettualismo che ne deriva porta ad esclamazioni senza costrutto e a compiacimenti inopportuni.

Sono cose che Joyce evita istintivamente, sposando invece un impeto espressivo denso di preoccupazione ermeneutica. L’uomo in sé, senza riferimenti metafisici o mitici, si ritrova a percorrere strade sconosciute, a vagare senza meta, a dare per buona qualunque manifestazione del pensiero. La materia che lo scrittore si ritrova in mano è magmatica, quasi imprendibile e le manipolazioni improvvisate conducono ad esaltazioni e subito dopo a delusioni. In effetti, Joyce si riferisce al mondo convenzionale e pone in esso un tentativo di visione nuova nella quale la razionalità ha tutto ancora da imparare.

Letteratura accademica e artigianale si mescolano continuamente nella prosa joyciana e solo una regolazione istintiva (ma condizionata dalla cultura tradizionale) riesce a tenerle insieme. Joyce non libera interamente la fantasia, ma la sottopone ad una sorta di verifica di bontà delle sue istanze attraverso una certa saggezza espositiva. L’ordine nel disordine e viceversa. Finnegans’ Wake  è in questo senso la sua composizione più significativa.

In essa, Joyce si abbandona ad una sinfonia senza suono, divenendone prigioniero quasi con soddisfazione. “Wake” significa veglia funebre, ma significa anche risveglio.

Lo scrittore “gioca” su questi due significati, cercando di sbrogliare una enorme matassa che lui stesso ha prodotto. Questa matassa è fatta di dubbi profondi che sostengono, involontariamente, il grosso problema esistenziale. Senza l’ombrello della Chiesa, Joyce si ritrova a tu per tu con le questioni essenziali, quelle vecchie come il mondo, che vanno a turbare enormemente la sua sensibilità. E’ come se le considerasse per la prima volta. Le ha chiare davanti a sé. Le ha in sé. E trova naturale, liberatorio, tramutarle in parole responsabili, lasciando che le complicazioni dialettiche ammorbidiscano le conseguenze della responsabilità diretta.

La sincerità dello scrittore è un esempio illuminante di assunzione delle questioni essenziali: Joyce è puro, non teme di mettere in mostra le sue debolezze, le sue perplessità e neppure il suo amore nei confronti di una vita che abbia senso.

La ricerca di questo senso, che nel suo caso non è mai una ricerca disperata, bensì sempre ben argomentata, è il vero tesoro dell’eredità letteraria di Joyce. La sua pietra filosofale.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019