Individuum e sexus in Leopardi
(Dall'Infinito a La Ginestra)


La ricerca della coincidenza delle contraddizioni, che non a caso trova il suo simbolo nella Croce, dove tendenze opposte coincidono in un sol punto, caratterizza l’intera vita dell’uomo. Una delle tensioni più grandi consiste nella ricerca di un punto di incontro tra il proprio “individuum”, cioè la parte indivisibile di sé, la “ Monade” ed il proprio “sexus”, cioè l’essere segmento di un tutto che è la specie umana che continua nel tempo e nello spazio.

Giacomo Leopardi

Questa contraddizione è stata vissuta in modo particolarmente tormentato da Leopardi, che però riesce a trovare pace nell’Infinito, dove il poeta porta all’interno di sé e del suo mondo lo spazio ed il tempo senza confini. I primi tre versi del canto echeggiano la serenità e la dolcezza che sono generate da elementi cari al poeta (“sempre caro mi fu…”) e soprattutto vicini a lui (“quest’ermo colle e questa siepe”).

La siepe però è un elemento del mondo fisico, ma anche la linea di demarcazione tra questo e l’infinito, che, anche se “il guardo esclude”, il poeta riesce comunque a contemplare grazie allo sconfinato potere del sentimento e della immaginazione. Leopardi esprime questa dolce calma piena di attesa con i due gerundi ,”sedendo e mirando”, che rallentano il ritmo che diventa poi incalzante, con la serie di congiunzioni ed aggettivi (“interminati spazi… e sovrumani silenzi, e profondissima quiete…”), che esprimono progressivamente una serie di pulsioni vitali , culminanti nella liberazione e dissoluzione del proprio io negli “interminati spazi”.

Il poeta però non si abbandona alle pulsioni, ma riconduce subito queste sensazioni nel suo io che le controlla con la serenità della ragione (“io nel pensier mi fingo”). L’armonia e la serenità del verso, la potenza del pensiero e del sentimento gli permettono di percepire, di pensare, quasi di “pesare”, con la grandezza del suo animo, contemporaneamente la voce della vita, il Divenire, l’infinità del Silenzio e dell’Essere (“io quello infinito silenzio a questa voce vo’ comparando”).

E’ un attimo, un po’ sospeso dai due punti a metà del verso, poi il poeta riprende l’ondata di espansioni reiterate ed, anche attraverso la dialettica tra le morti stagioni e la vitalità del presente, Leopardi esce di nuovo dal suo mondo e si riapre all’eternità. Anche qui la serie di congiunzioni, tra l’altro dopo la virgola, dà il senso dell’ansia di gustare fino in fondo e di continuare a vivere queste sensazioni: “e mi sovvien l’eterno, e le morti stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei”. Il poeta conquista l’infinito spazio-temporale, da una parte lo fa suo e dall’altra annulla il suo pensiero nell’immensità del sentimento: “in questa immensità s’annega il pensier mio”.

A questo punto il poeta si ferma, c’è un momento di pausa quasi eterno, è un attimo fermato da due punti ,alla fine del verso, per preannunciare ed ,allo stesso tempo, lasciar gustare appieno il successivo abbandono finale di tutto il suo io in una sensazione di totale appagamento. “il naufragar mi è dolce in questo mar”. Mentre precedentemente l’immenso era “quello infinito”, dove “quello” indica qualcosa lontano da chi scrive (l’elemento intangibile al di là della siepe), alla fine del canto diventa “questa immensità”, “questo mare”. L’aggettivo “questo” indica difatti l’avvenuta interiorizzazione dell’infinito, di conseguenza se prima la percezione dell’immensità provocava al poeta un sottile brivido, “ove per poco il cor non si spaura”, ora “il naufragar… è dolce in questo mare”.

E’ l’individuo dunque che annega nell’Infinito, dopo averlo portato dentro di sé, nel suo mondo. Dopo pulsioni , intervallate da momenti di pausa , Leopardi conclude il canto con il dolce piacere anche materiale dei sensi : ritorna nel grembo materno. La simbologia del mare e l’etimologia della stessa parola (mater/materia, da cui deriva il termine mare) riportano infatti alla madre e all’abbandono alla materia. Inconsciamente la fine ed il fine della poesia è quindi il ritorno alla madre.

E’ appunto in questo ritorno che Leopardi risolve la contraddizione tra l’individuum ed il sexus, tra il finito e l’infinito, tra la ragione ed il sentimento. A differenza dell’Ulisse di Dante, dove il mare/la madre rappresenta l’amore per l’altro, per il mondo sconosciuto, qui il mare /la madre rappresenta il ritorno in se stesso: Il ritorno nel grembo materno è infatti un ripiegamento su se stesso e non la potente violazione delle colonne d’Ercole, per seguire “virtute e canoscenza”.

In questo senso nella poesia leopardiana c’è una forte carica di Eros, naturalmente non eteroriferito, ma egoriferito: la contraddizione di un rapporto amoroso con se stesso. Tale carica si esprime attraverso le “ondate” successive, intervallate da pause, con cui il poeta porta l’infinito dentro di sé, superando le contraddizioni tra il suo mondo chiuso e gli spazi sterminati, tra lo stormire del vento e l’infinito silenzio, tra il passato ed il presente.

Se nell’Infinito Leopardi riesce ad abbracciare panteisticamente l’universo ed a portarlo all’interno di sé, nella “Ginestra”, al contrario, disperde il suo io, o meglio il rimpianto della sua vita, nel deserto: “odorata ginestra, contenta dei deserti”. I vocativi, con cui altrove il poeta si liberava dell’ansia e stemperava la lacerazione del suo io, diviso tra la dura ragione e la gioia di cantare la vita ,proiettandole su di un ipotetico interlocutore (“garzoncello scherzoso”), qui diventano un’invocazione quasi disperata, con toni di rimpianto e spesso di invettiva, per i tradimenti ricevuti dalla Natura matrigna (la madre, se stesso?).

Attraverso l’identificazione con la Ginestra il poeta difatti vive il mutamento della sua situazione: prima testimone della passata grandezza, con il suo”grave e taciturno aspetto”, ora “amante” di tristi lochi e d’afflitte fortune “ognor compagna”. Il termine “amante” e l’espressione “ognor compagna” esprimono bene quel misto di rimpianto e di disprezzo per i ripetuti tradimenti di chi si concede ad altri, disperde i suoi valori, il suo individuum, diventando segmento, comunque partecipe (“amante”), sexus di un mondo disperato, senza discendenza: “campi cosparsi di ceneri infeconde”, dove cova la viltà e l’unica forma vitale è il tradimento, pronto a colpire: la serpe che “ si annida e si contorce al sole “.

Non c’è più la coincidenza tra l’individuo e l’universo spazio-temporale, come nell’Infinito, ma la lacerazione tra la desolazione, in cui il suo io è immerso, ed il purissimo azzurro, in cui lontano fiammeggiano le stelle. Né il mare rappresenta più il grembo materno, in cui dolcemente annegava, né l’infinito è interiorizzato, ma diventa “il voto seren”, lo sfondo in cui brillano le stelle, però separato dal poeta, quasi uno specchio della propria infelicità.

La Ginestra esprime la situazione esistenziale dell’ultima fase della vita di Leopardi, del primogenito che ha perso l’esclusività dell’amore materno, diviso con gli altri fratelli, dell’uomo lacerato tra la dura ragione ed il sentimento che lo spingeva a cantare la vita e che non ha trovato, nel così tanto cercato rapporto amoroso, il superamento dell’individuum nel sexus.

Le vicende della vita travolgono il poeta che alla fine tende verso la prosa , più ricca di invettiva, rispetto alla poesia precedente, talvolta persino di retorica. Anche se si possono intravedere sprazzi di sentimento, è pur sempre una prosa piena di disperazione e di rimpianti. L’individuo diventa segmento, cioè elemento della specie, un “animale politico” che vorrebbe riunire “l’umana compagnia” in una confederazione per combattere il comune nemico: la Natura “madre di parto ma di voler matrigna” (un’amarezza di primogenito?).

Mentre prima la contraddizione individuum-sexus si era risolta nel sentimento pieno dell’Infinito, ora il poeta si ritrova segmento dell’umanità (sexus), che cerca, senza trovarlo, il riconoscimento della sua grandezza e, al limite, l’immortalità, nel consenso dei suoi consimili, sapendo però “che obblio preme chi troppo all’età propria increbbe”.

Giacomo, che non ha lasciato discendenza, non riesce infatti a trovare appagamento nel sexus, sia per la crudeltà della Natura, che “non ha più cura e stima al sem dell’uom…che alle formiche”, sia per l’incomprensione degli uomini, intesi in questa opera, come collettività, aggregazione, “popolo di formiche”, alla mercè della Natura. Gli rimane la poesia come disperato tentativo di lasciar traccia ai posteri.

La sua frustrazione come segmento dell’umanità lo porta alla ricerca della grandezza nell’isolamento e nella sofferenza, pur nell’apparente umiltà, come la Ginestra, il fiore del deserto. E’ proprio nell’accettazione della sofferenza che essa trova la sua grandezza, nella capacità di accettare la crudele possanza della Natura, pur senza piegare la testa. Immagine che rievoca quella dell’ ”uomo di povero stato e di membra inferme che sia dell’alma generoso ed alto “ e che accetta senza vergogna la sua condizione di “mendico di forza e di tesor”.

L’esaltazione titanica dell’accettazione dell’ “arido vero” conferma il disperato desiderio di immortalità che ha pervaso la vita del poeta. Non a caso chiude la sua opera-testamento con il termine “immortali”: un’immortalità negata con la ragione, ma richiesta ai posteri in modo disperato, al di là del dichiarato. La ridondanza e la prosaicità delle argomentazioni, l’ansia di convincere, l’acida ironia e l’invettiva, presenti in molti brani, tradiscono la rinuncia alla sua Poesia, così essenziale ed accentuano il carattere postumo di quest’opera, offrendoci quasi l’immagine di un post-Leopardi.

Forse per questo la Ginestra, tra l’altro molto rivalutata in questi ultimi anni, è più attuale, più in sintonia con l’uomo di oggi: un’opera postuma per un uomo così quasi post-tutto, che è diventato postumo, a causa della crisi degli ideali, della Fede e delle stesse ideologie.

Da una parte infatti l’uomo moderno tende ad annegare l’individuo nel rumore o nelle immagini, isolandosi con il walkman ed ascoltando musiche assordanti o lasciandosi assorbire passivamente dalla televisione, dall’altra tende a disperdere il proprio sexus nel “deserto” delle discoteche o degli stadi o della cosiddetta realtà virtuale. Per trovare la pace l’uomo deve “mettersi in croce”, sentire la tensione e cercare la coincidenza delle sue contraddizioni di Uomo e Dio, di Io e Non-Io, di amore per l’altro (il nemico, l’altro sesso), di essere contemporaneamente padri e figli (siamo tutti figli), di essere Individuum e Sexus.

Occorre ritrovare il Silenzio attraverso cui parla l’Infinito! In questa ottica la vita e la poesia di Leopardi diventano la testimonianza della titanica sofferenza che trova nell’Infinito uno dei momenti più autentici di pace per il poeta stesso e per l’umanità intera.


www.voxnova.altervista.org/leopardi.html