Ernest Hemingway
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Ernest Hemingway (1899-1961), ovvero come vivere sempre in presa diretta. Come non pensare alla decadenza fisica: un topos nella mentalità dell’uomo occidentale dai tempi della rivoluzione industriale. Hemingway è poi figlio di un’America che ha bruciato le tappe, che è giovane e che già, dopo la guerra mondiale, la seconda, è la prima nazione del mondo ed è praticamente chiamata a guidarlo, dopo poco più di 150 anni di storia. Il nostro se ne rende conto e si carica sulle spalle orgogliosamente l’intera missione. La base di partenza è data dall’affermazione pratica di quella gioventù: una gioventù sana, ben nutrita, materialmente attrezzata a dovere, ed anche di più. Doveva essere vincente, ma forse è una vittoria oltre le aspettative. Non è un’affermazione democratica quella degli americani sul nazismo, ma è l’affermazione di una forza buona su una cattiva. La seconda era corrotta da miti, affranta da conservatorismi, si stava involvendo su se stessa, non aveva più orizzonti “aperti”, stava cavando disperatamente il peggio da sé per sopravvivere. La forza buona era confortata da un’energia pura e abbondante, da ottimismo, da voglia di fare incontenibile: cose tipiche di una gioventù senza gli ostacoli storici europei, ostacoli di carattere religioso per lungo tempo e laici derivati da quelli più tardi, poi gli uni contro gli altri, in una sorta di testa a testa sino alla confusione di un laicismo, protestante soprattutto, di fatto senza regole, ovvero alle prese con la legge del più forte. Forza e cattiveria per ingarbugliamenti storici, appunto. Forza e ingenuità, ma anche determinazione, negli Stati Uniti, chiamati a fare storia con elementi nuovi. La determinazione è un portato religioso di stampo purista, vale a dire è sottoposta a preciso dovere morale. La moralità per Hemingway è una cosa personale: lo scrittore si stacca presto da condizionamenti religiosi. E’ ateo dichiarato. O gioca ad esserlo con indubbia efficacia. I suoi comportamenti non danno adito a dubbi. Egli viene da una famiglia martoriata dal suicidio. Lui stesso, ipocondriaco, ma soprattutto vecchio e male in arnese, depresso e alcolizzato, si ucciderà sparandosi in testa con un fucile da caccia. Prima che tutto ciò accada, Hemingway scriverà parecchi romanzi e dei racconti (I quarantanove racconti, alcuni molto belli; quindi, fra i molti romanzi, Addio alle armi, Morte nel pomeriggio, Verdi colline d’Africa, Per chi suona la campana, Fiesta). I romanzi citati godono di una scrittura svelta e disinvolta. Molto giornalistica. Quella di Hemingway è una generazione di scrittori che bada al sodo (senza avere la sensibilità e l’esperienza necessaria per farlo nella maniera prefissata: si pensi a Il grande Gatsby di Francis Scott Fitgerald, uno spaccato di vita americana, dolorosamente passionale e quasi compiaciuto del dramma civile insito nel comportamento sociale di quella comunità, tutt’altro che all’avanguardia e quindi criticabile a largo raggio e con facilità; si pensi a Theodore Dreiser e alla sua “Una tragedia americana”, concentrata sulla brutalità a stelle e strisce, con una cupezza che non riesce ad essere giustificata se non emotivamente – mancano le analisi dei fatti; si pensi al teatro di Tennessee Williams (una brutta copia di quello antico greco, a causa di un clima tragico pesante e ricercato, surdimensionato, senza alcuna preoccupazione per gli effetti grossolani), a quello di Henry Miller, contraddistinto da “innocente” sadismo; si pensi al mito di “Sulla strada” di Jack Kerouac: è molto meno rimediato il problema civile americano nella pittura di Edward Hopper, dove c’è pure un che di esistenziale partecipato sino in fondo che non c’è in Kerouac – egli subisce e riporta con angoscia nascosta la sottomissione a qualcosa più grande di lui). Hemingway: un modo nuovo di fare letteratura e oltre Badando al sodo, per indubbio dinamismo sociale, l’America porta una ventata di freschezza nella letteratura, per lo meno a livello stilistico. Hemingway ebbe più successo di tutti (molte sue opere furono tradotte coerentemente in mediocri film) probabilmente per la sua figura insolita, per il machismo che emanava. Questo machismo veniva esibito in ogni occasione, anche in buona fede, anche come scudo di fronte agli insulti della vita, magari con l’illusione di dominare sulle angosce. Memorabile è la presenza dello scrittore alle corride spagnole: Hemingway amava la Spagna, terra di sole cocente, terra di vita forte. C’era stato, corrispondente di guerra, durante il conflitto civile (non era dalla parte di Franco). Parimenti, egli amava l’Africa, vedendola come espressione di un’esistenza allo stato naturale, con l’uomo prim’attore per forza. Più personaggio che scrittore di vaglia, Hemingway visse di luce riflessa da se stesso, dal proprio personaggio, inseguendo romanticamente una speranza donchisciottesca di immortalità e ritornando sulla terra bruciando la sua esistenza in mille prove muscolari di vita. Una febbre vitale, la sua, un’ossessione: una lotta indomita e caotica contro le leggi naturali, quasi volesse, il nostro, e fosse certo di riuscirci, imporsi sulle cose e avere da esse il placet della sua imposizione. La sua enorme energia non andava d’accordo con la corruzione della realtà. Egli non capiva perché mai dovesse stare al disotto di essa: mostrava le sue credenziali, che riteneva fossero quanto mai in ordine, pretendendo un passi, un vada pure oltre. Non voleva che la pretesa fosse assurda. Del resto, la vita condannata alla morte sottintendeva una disconoscenza intollerabile della realtà, ora che la realtà stessa era così bene manipolata dal sistema moderno. Funzionava meglio la consolazione religiosa: ma certo si tratta di una debolezza alla quale si deve porre rimedio. Mai e poi mai Hemingway si sarebbe messo nelle mani dell’irrazionale. Ma la forza che si ha è sufficiente, oppure ce ne vuole di più e migliore per fare da sè? Hemingway, in fin dei conti, se la pone la domanda, o accetta la sconfitta a priori? Si uccide e pare proprio che si arrenda. Il suicidio non è mai una vittoria, a meno che non si consideri vittoria un annientamento perché deciso. La fine e l’inizio in Hemingway Non si può entrare nella testa dei suicidi (è un’esperienza troppo oltre la normalità), tuttavia non si può giustificare un atto tanto estremo sulla base di una decisione personale imperfetta. Lo si può comprendere, però. Hemingway era ormai un uomo malato. Era un uomo distrutto che si compiangeva e si disperava, si disperava sia della distruzione che del compianto. Ben diverso è il carattere del suo “testamento”, scritto qualche anno prima ed “inserito” ne Il vecchio e il mare (è un’interpretazione dell’articolista), praticamente un lungo racconto, nel quale è come se si materializzasse la lotta (alla “Moby Dick”, ma con più pathos genuino) fra l’uomo e il mondo. Hemingway fa vincere l’uomo, ma solo parzialmente: è una vittoria effimera, insomma. Ma la cosa non va affatto vista come una rassegnazione (la rassegnazione non era certo nelle corde del nostro scrittore). L’uomo s’è battuto con coraggio eccezionale, così come è nelle sue corde, solitamente allentate, e infine ha lasciato il segno: è un segno invisibile? Porta ad inganni? Illude? Non proprio. L’impresa del vecchio è come una indicazione della strada da seguire perché l’uomo sia orgoglioso di se stesso sino in fondo, che vinca o non vinca la partita delle partite. L’importante è che ci provi, tesaurizzando le proprie risorse, che sono straordinarie. Superando le riflessioni estenuanti, le amarezze. Concentrandosi di più sulle proprie risorse. E forse… Conosciamo la scrittura migliore di Hemingway, quella, appunto de Il vecchio e il mare (miracolosamente non melodrammatica: anche la riduzione cinematografica fu felice). Siamo agli inizi del lungo racconto:
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