L'esistenzialismo di Cioran

L'esistenzialismo di Cioran

Dario Lodi


Recentemente, Adelphi ha pubblicato un volumetto di Emil Michel Cioran (romeno, apolide, quasi sempre vissuto in Francia, 1911-1995), a cura di Verena von der Heyden-Rynsch e tradotto da Cristina Fantechi,  intitolato “Taccuino di Talamanca”. Neppure cinquanta pagine, scritte nel 1966 durante un soggiorno ad Ibiza: nella presentazione si precisa che probabilmente esse sono un capitolo dimenticato dei famosi “Quaderni” del Cioran più esistenzialista. Forse ne sono, invece, una specie di sinossi.

L’autore vi riversa una sincerità probabilmente mai raggiunta, indugiando lucidamente sui mali dell’esistenza e sulla limitatezza dell’uomo. Le due cose vanno a braccetto in quanto, secondo Cioran, l’umanità non riesce a calmare la sua angoscia esistenziale, preferendo, istintivamente, una trattazione “fisica” dei problemi. Entro questo ambito, va inserita la misantropia di Cioran, nel senso che la stessa è la risposta alla pochezza intellettuale dell’uomo: ergo, l’uomo non merita chissà quali attenzioni.

Così, il suo esistenzialismo è una rincorsa minuto per minuto alla ricerca di una consapevolezza responsabile di sé e delle cose che l’autore teme fortemente di non poter mai raggiungere. E’ un’illusione dovuta alla supervalutazione di un essere che, in fin dei conti, è poco più di un animale. Tutte le sue costruzioni mentali sono stampelle che a forza si vorrebbe attaccare alla carne affinché non deperisca. Nel peggiore dei casi, esiste una costruzione fantasiosa che trasporta questa carne altrove sana e salva.

Cioran si rende ben conto, dall’alto della sua straordinaria sensibilità, degli inganni insiti nella personalità umana  e teme che non vi sia rimedio: questo essere, in fondo meschino, si accontenta delle sue elucubrazioni e anzi le esalta, usandole come armi di offesa verso la realtà. Sono armi spuntate e questa constatazione pesa sulla coscienza di Cioran in maniera insopportabile: è causa del suo eterno malumore (il suo “cafard”).

Ma tutto questo, ripetuto nei suoi numerosi saggi (da “Compendio di una decomposizione” a “Confessioni e anatemi”) è una maniera espressiva in certo qual modo compiaciuta: Cioran sa di essere intelligente, molto intelligente, e gioca intorno a questa dote con un certo vezzo analitico-distruttivo.

E’ la distruzione, in fondo, il suo argomento e tale essa lo diventa davvero sostituendosi di fatto al male di vivere che il filosofo prova nel profondo del suo animo. La trattazione di questo male, porta Cioran a considerazioni pessimistiche nelle quali trova paradossalmente un sollievo: il male diventa una specie di oggetto e dunque può essere trattato come una cosa da soppesare.

Il filosofo e saggista trova sfogo alla propria perspicacia e al proprio umore grazie a questa disponibilità per così dire concreta, per quanto inventata. L’invenzione va a lenire l’angoscia esistenziale che lo tormenta e che gli rivela, segretamente (ma non tanto) l’inutilità di ogni iniziativa.

L’uomo è un perdente, ma sa anche perdere con onore. Infine, è a questo onore che Cioran si aggrappa, limando le parole, esaltando concetti persino negativi e trovando modo di ironizzare amaramente, ma con un’amarezza controllata, su tutto. Allora, l’uomo è quello che è: un sognatore consapevole di sognare una realtà (forse) impossibile.

Cioran, con eleganza letteraria singolare, ci dà una lezione di vita e di esistenza: la sua è una distruzione virtuale o così vorrebbe essere e così è per ingenuità riconosciuta e apprezzata.

Dello stesso autore:

Testi di Cioran

SitiWeb


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 10-02-2019