ECONOMIA E SOCIETA' |
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PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
Nella rubrica delle "Lettere" del Calendario no 535/1990 ne è stata pubblicata una di Siro Terreni in cui il disappunto per il fallimento del comunismo est-europeo non mi trova molto d'accordo. Egli infatti sostiene che si tratti di una "involuzione" dovuta a una scarsa "coscienza di classe", per cui l'import dei modelli borghesi sarà inevitabile. Tale considerazione mi pare erronea sotto due punti di vista: anzitutto perché parla di "involuzione" là dove si dovrebbe vedere una positiva "evoluzione" del socialismo verso la democrazia (che non è detto debba essere quella "borghese"); in secondo luogo essa dà per scontato un fenomeno (l'imborghesimento generale di quanti decidono di passare all'ovest) là dove invece si dovrebbe vedere una naturale reazione degli elementi sociali meno coscienti, che hanno creduto di poter superare la frustrazione di mezzo secolo di dittatura puntando tutto sulla "libertà personale" e non anche sulla "giustizia sociale" da realizzare nel proprio paese. Molti di questi elementi, in verità, si sono già accorti, pagando di persona, che il principio di "libertà" affermato in occidente ha valore solo per alcune categorie sociali. D'altra parte la propaganda borghese è maestra nel far sembrare falso il vero e vero il falso. In questo senso non fa meraviglia chi abbia deciso di buttare via l'acqua sporca col bambino per abbracciare in toto il capitalismo. Si tratta comunque di una minoranza. Di fatto la stragrande maggioranza si sta impegnando per uno sviluppo responsabile della crisi del socialismo di stato, in conformità agli ideali della giustizia sociale, che non sono certo scomparsi e che, a dispetto di quanti si sono affrettati a parlare di "post-comunismo", non scompariranno mai, almeno fino a quando le società saranno divise in classi antagonistiche. Non direi dunque che il crollo del socialismo reale porterà, come una logica conseguenza, al trionfo del capitalismo. Nei paesi dell'est non è fallita l'idea del socialismo, quanto piuttosto l'idea che si possa realizzare il socialismo (tanto meno il comunismo) attraverso lo Stato. Ciò in quanto socialismo e Stato sono, alla lunga, incompatibili. Il socialismo che doveva, in teoria, porre le basi per l'estinzione graduale dello Stato, ha fatto, in pratica, esattamente il contrario. La cosa naturalmente, finché c'era la guerra, poteva anche trovare una qualche giustificazione: in fondo si può benissimo tollerare un socialismo "autoritario" o fortemente centralizzato nel momento in cui si deve difendere la patria (per quanto proprio un socialismo del genere -a testimonianza che non ogni autoritarismo è lecito- abbia rischiato, ai tempi di Stalin, di far perdere la guerra all'URSS). Ma in tempo di pace la pretesa autoritaria non regge. Tanto è vero che, dopo Stalin, i dirigenti del Pcus si accorsero che bisognava modificare il termine "dittatura del proletariato" (o Stato della classe operaia) con "Stato di tutto il popolo", lasciando così credere che la società civile avesse superato un'intera fase storica. Paradossalmente tuttavia, nel giustificare il passaggio, era stata usata la tanto deprecata (e giustamente) formula bernsteiniana di "Stato popolare", cioè quell'idea assurda secondo cui uno Stato diventa "popolare" se garantisce a tutti il "suffragio universale". La differenza stava nel fatto (un fatto senza precedenti) che il socialismo reale aveva aggiunto al suffragio universale la proprietà "universale" dello Stato: cioè, in pratica, ad una concezione illusoria (quella di Bernstein), espressa sul terreno giuridico-politico, si era risposto con un'altra concezione che, essendo di natura socio-economica, doveva rivelarsi ancora più illusoria. Lo Stato di "tutti" infatti era diventato lo Stato di "nessuno", la "proprietà pubblica" la zona franca dell'abbandono generale di ogni forma di responsabilità. I fatti hanno dimostrato, per la prima volta (e di questo bisogna tener conto se si vogliono evitare giudizi troppo severi), che dal dominio del capitale non si può essere liberati attraverso il potere statale. Se ciò avviene è solo perché il potere del capitale è stato sostituito con un altro potere, più sofisticato, più coinvolgente, appunto perché strettamente legato a un "ideale": il potere del partito politico, che a sua volta si serve del potere amministrativo della burocrazia. In questo senso "socialismo di stato" è una contraddizione in termini, e la definizione "Stato di tutto il popolo" è non meno mistificante, non fosse che per una elementare ragione, e cioè che il giorno in cui si potrà finalmente dire che lo Stato è "di tutto il popolo", quel giorno lo Stato non esisterà più. In realtà con tale definizione si è potuto costatare (i comunisti dell'est l'hanno anche sperimentato) che Stato e popolo coincidevano non dal punto di vista del popolo ma da quello dello Stato, per cui era il popolo che, essendo tutto assorbito nelle organizzazioni statali, sembrava non esistere più, come se avesse perso la propria identità. Sotto questo aspetto la recente definizione "Stato di diritto" ha più realismo e meno demagogia, per quanto anch'essa sia insufficiente a garantire la transizione dallo Stato "autoritario" a quello "democratico". Lo è per la semplice ragione (che però tanto "semplice" non è) che nessuno Stato "autoritario" può trasformarsi di per sé in uno Stato "democratico". La mutazione infatti implica di necessità la fine dello Stato. Se così non fosse si creerebbe un altro mito, quello appunto di uno "Stato socialista democratico", la cui prerogativa fondamentale sarebbe quella di applicare equamente il diritto. In realtà possiamo pensare che il diritto debba essere una prerogativa dello Stato solo se rifiutiamo l'idea che lo Stato debba estinguersi. Se accettiamo l'idea (engelsiana e leniniana) dell'estinzione progressiva dello Stato, dobbiamo anche accettare l'idea del superamento del diritto, in quanto l'uguaglianza formale davanti alla legge diventa sempre, anche nel socialismo, un criterio schematico e persino antidemocratico, se non si tiene conto di tutte le differenze che si manifestano a livello sociale. Marx diceva che il diritto, per essere democratico dovrebbe essere "disuguale", come sono "disuguali" le condizioni sociali, le motivazioni dell'agire, gli interessi. Ma un diritto "disuguale" sarebbe la fine del diritto, poiché il diritto non può sopportare l'idea che leggi analoghe, in situazioni diverse, producano effetti diversi, se non addirittura opposti. Se il diritto sopporta questo è perché sa di non essere "diritto" ma "forza", ovvero espressione giuridico-formale della "forza" sociale di una classe o di un governo. Il diritto quindi va sostituito non meno dello Stato. Il fallimento del socialismo di stato ha dimostrato anche l'erroneità della tesi di Kautsky (e se vogliamo della maggioranza della II Internazionale) secondo cui lo Stato non è necessariamente strumento delle classi sfruttatrici. Non solo Kautsky aveva torto allora, nei riguardi di Engels e soprattutto di Lenin, per i quali lo Stato nasce e si sviluppa come strumento d'oppressione di una classe sull'altra (passando dalle mani di una classe sfruttatrice a quelle di un'altra), ma ha torto pure oggi, nei riguardi di quanti, a partire dalla svolta di Gorbaciov, cominciano a sostenere che persino lo Stato socialista può essere uno strumento di oppressione di una classe (quella burocratica) e di un partito (quello comunista) sull'intera società. Anzi, esso lo diventa necessariamente se la rivoluzione invece di "estinguerlo" lo "rafforza". Dal fallimento di questo "esperimento" si esce non soltanto restituendo ai lavoratori la proprietà, ma invitandoli anche a organizzarsi collettivamente, su basi volontarie, per gestire nel migliore dei modi la proprietà ricevuta: beninteso, non in direzione dell'idea del "privato sociale" (che è l'uso capitalistico della proprietà dietro la giustificazione della sua rilevanza sociale), ma in direzione della proposta di un "collettivismo libero", lontano sia dallo statalismo che dall'individualismo e dal corporativismo. Se i lavoratori hanno fatto crollare lo Stato socialista significa che essi avevano delle esigenze sociali di giustizia e di libertà fortemente sentite e represse; ora però devono saper dimostrare d'essere sufficientemente maturi per organizzare l'autogoverno socialista. Infatti un'economia pianificata non presuppone necessariamente che il suo soggetto attivo debba essere lo Stato, cioè un'amministrazione centralizzata, che si serve del decentramento solo per essere più efficiente. Piano e mercato possono convivere se i soggetti che li muovono e li organizzano sono gli stessi. Tutti i ritardi inerenti alla odierna ristrutturazione dell'economia socialista sono dovuti al fatto che è più facile distruggere le istituzioni che creare nuovi rapporti sociali. Ciò che soprattutto pesa è il condizionamento che abitua gli uomini ad aspettarsi dall'alto la soluzione dei loro problemi. Mi pare comunque altamente improbabile che uno Stato socialista sia in grado di favorire, autonomamente, il passaggio ad una gestione decentrata della "cosa pubblica". Esso infatti, con i suoi ministeri e dicasteri, non solo non ha stimoli per realizzare un obiettivo del genere, ma anche se li avesse (in quanto non tutti i burocrati hanno la mente "burocratica") sarebbe del tutto incapace a realizzarlo. Il limite è oggettivo. Ecco perché i lavoratori e i cittadini non possono delegare a un ente che li aliena un compito che devono assumersi in proprio, imparando ad autogovernarsi e autogestirsi. Solo di fronte alla loro maturità organizzata in modo collettivo lo Stato si rivelerà per quello che è, un ente inutile e anzi nocivo. Finché le masse popolari più coscienti non svilupperanno questa responsabilità ci sarà sempre qualcuno intenzionato a servirsi degli organi statali per imporre un proprio dominio. Il che, beninteso, non significa che nel socialismo autogestito non potranno verificarsi casi di speculazione o di abuso di potere: significa soltanto che di fronte a tali casi i cittadini-autogestiti non potranno più delegare allo Stato il compito di risolverli. Lenin insomma torna di nuovo ad avere ragione: la liberazione di una classe oppressa -diceva in Stato e rivoluzione- è impossibile senza la distruzione dell'apparato statale sottratto alla borghesia. Egli disse che i due principali "parassiti" dello Stato borghese sono la burocrazia e l'esercito permanente. Per quale ragione non dovrebbero esserlo anche nello Stato socialista? Nel Rapporto che fece all'VIII congresso del Pcus, Lenin disse: "Combattere sino in fondo il burocratismo si può unicamente se tutta la popolazione partecipa alla gestione". Che fine hanno fatto, in questo senso, i Soviet operai? Cosa ha impedito che nell'URSS la rivoluzione vincesse la burocrazia? Lenin, ai suoi tempi, ne addebitava le cause allo scarso livello culturale del suo paese, "che non si può sottomettere -diceva, con ironia- a nessuna legge". Il che, in sostanza, aveva comportato due cose: 1) il passaggio dei burocrati zaristi nelle istituzioni sovietiche, con la tessera del partito in tasca ma con la mente rivolta ai propri interessi; 2) il fatto che "gli organi del governo esercitato dai lavoratori, sono in realtà gli organi del governo per i lavoratori, esercitato dallo strato di avanguardia del proletariato, ma non dalle masse lavoratrici". E se a questo si aggiunge che allora -a detta dello stesso Lenin- "lo strato degli operai che governa è eccessivamente, incredibilmente sottile", è facile rendersi conto di quanto difficile sia stato per i bolscevichi affrontare questo compito "educativo" e "autoeducativo". Lo stalinismo, che è durato almeno mezzo secolo, è stato anche il frutto di tale immaturità: esso ha interrotto un lavoro che oggi va ripreso appunto là dove era appena cominciato. Se dunque socialismo democratico significa togliere allo Stato i poteri per trasferirli direttamente, completamente (in modo progressivo ma reale) nelle mani dei cittadini, organizzati nella forma dell'autogoverno locale (cioè non solo in cooperative e centri sociali), allora devono radicalmente cambiare le funzioni tradizionali dello Stato socialista, le cui competenze dovranno limitarsi a quelle d'indirizzo generale, di promozione, di riequilibrio, di coordinamento degli interessi locali, regionali e nazionali, nonché di rappresentanza, a livello internazionale, degli interessi del paese, ma che non potranno riguardare tutte le funzioni gestionali (o manageriali) che i cittadini si sentono in grado di assumersi in proprio. In particolare, compito dello Stato dev'essere quello di raccordare l'uso delle risorse a livello nazionale, poiché autogoverno locale non può assolutamente significare "autarchia" o "economia chiusa". L'interdipendenza delle nazioni, all'esterno, e l'interconnessione, all'interno, di strutture/fenomeni/problemi escludono a priori una soluzione del genere. L'autogoverno economico-politico deve realizzarsi nella consapevolezza di appartenere sia a un mondo integrato sia a una società integrata, in cui cioè la dipendenza dagli interessi e dalle esigenze di una parte rispetto a un'altra deve essere avvertita come reciproca. Ad es., non tener conto in questo momento che l'indebitamento colossale del Terzo mondo, se continua così, trascinerà alla rovina totale non solo il Terzo mondo ma anche una buona fetta dell'Occidente, significa ragionare ancora coi termini imperialistici del dominio e dello sfruttamento e non certo secondo la logica dell'integrazione (che prevede non solo rapporti paritetici e vantaggi reciproci, ma anche riequilibrio, risarcimento dei danni coloniali e scelte preferenziali per lo sviluppo del Sud). Per concludere, il principio dell'autogoverno locale -se applicato- sarà fonte di trasformazioni sociali enormi, tanto all'est quanto all'ovest. Si pensi al fatto che sul piano militare ancora deleghiamo allo Stato la difesa del nostro territorio, rinunciando all'autodifesa. E sul piano fiscale, com'è possibile sperare che un cittadino si convinca della necessità di pagare le tasse se poi non viene a sapere, nel dettaglio, dove andranno a finire? E il diritto non va forse sostituito con la giustizia diretta, immediata, dei cittadini, in modo che essi siano in grado di esercitarla con cognizione di causa, verificandone personalmente l'applicazione. La stessa attività politico-parlamentare dovrà subire sostanziali modifiche. Un deputato deve rendere conto periodicamente del proprio operato ai suoi elettori. Per non parlare del fatto che una mera attività parlamentare rende il partito parte integrante del sistema (anche se sta all'opposizione), facendogli perdere qualunque vera capacità contestativa. Tutte queste esigenze sono molto sentite nei paesi est-europei e in altri che si sono ispirati alle idee del socialismo, ma ognuno si rende facilmente conto che l'Occidente non è meno interessato nel trovare ad esse una soluzione. Quanti credono che il comunismo sia fallito per pure "cause interne" s'illudono, in quanto le istanze della perestrojka hanno valenza mondiale. Se in questo momento la crisi ha coinvolto maggiormente il socialismo reale, ciò probabilmente è dipeso dal fatto che l'assenza di una partecipazione socialista allo sfruttamento imperialistico del Terzo mondo ha portato i problemi socio-economici, connessi al sistema burocratico-amministrativo, a farsi sentire in anticipo; e forse anche dal fatto che la maturità politica del socialismo reale, nonostante lo stalinismo, non ha nulla da invidiare a quella dell'Occidente. Fonti
Piano e mercato possono
coesistere? |
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