ECONOMIA E SOCIETA' |
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PRODUTTIVITA’ E PROFITTO CAPITALISTICO
I
Miglioramento della produttività industriale e aumento dei profitti
capitalistici Il capitalismo è una forma di organizzazione economica altamente competitiva e concorrenziale. Uno stesso tipo di merce è normalmente prodotto da più aziende, ovvero da più imprese capitalistiche, che si contendono il favore della clientela, cioè degli acquirenti finali. 1) La concorrenza in una condizione di equilibrio Normalmente, a parità di requisiti essenziali (ad esempio, uno stesso livello qualitativo), ogni azienda mette sul mercato i suoi prodotti a prezzi sostanzialmente equivalenti alle altre. Se così non fosse, se (ad esempio) a parità di qualità e di condizioni generali di vendita un kg di pasta costasse 1 euro acquistato da un’azienda e 2 acquistato da un’altra, presto la seconda azienda perderebbe grosse fette di mercato. In questo modo, i suoi utili calerebbero drasticamente, fino magari a non coprire più nemmeno le spese di produzione (capitale fisso e variabile), portandola infine al fallimento. La concorrenza tra aziende dunque, tende attraverso un processo di selezione naturale, a livellare i prezzi delle merci disponibili sul mercato. Ma i prezzi, come noto, sono per Ricardo espressione diretta del costo di produzione delle merci stesse. Il che significa che, in una situazione normale, le aziende concorrenti adotterebbero per la creazione delle proprie merci processi produttivi magari anche molto differenti tra loro, ma con costi se non identici, quantomeno abbastanza simili, traendo quindi dalla vendita dei propri prodotti profitti sostanzialmente analoghi. Cosa accadrebbe allora a un’azienda i cui processi produttivi fossero sensibilmente più costosi rispetto a quelli delle aziende concorrenti? Essa sarebbe posta davanti a due possibilità (o al limite a una soluzione di compromesso, intermedia, tra esse): 1) potrebbe vendere le sue merci sul mercato al loro costo di produzione reale (prezzo naturale); 2) oppure potrebbe scegliere di venderle a un prezzo analogo a quello delle aziende concorrenti. Nel primo caso, essa avrebbe il vantaggio di avere su ciascun pezzo venduto un profitto o utile netto pari a quello delle altre aziende (infatti le maggiori spese di produzione sarebbero bilanciate da un prezzo di vendita più alto) ma lo svantaggio di perdere acquirenti (dato il prezzo eccessivo dei suoi prodotti rispetto a quelli della concorrenza). Nel secondo caso invece, avrebbe il vantaggio di non perdere acquirenti, ma lo svantaggio di un saggio di profitto più basso su ciascuna delle merci prodotte, e quindi anche complessivamente. In entrambi i casi, i suoi profitti, ovvero l’utile netto sulle spese di produzione, sarebbero più bassi rispetto a quelli delle aziende concorrenti. Questo comporterebbe chiaramente il pericolo per essa di non poter investire fondi a sufficienza nella ricerca dell’implementazione produttiva (i profitti aziendali sono difatti in gran parte utilizzati per tale scopo), incrementando così ulteriormente la distanza rispetto alle società concorrenti, e imboccando una spirale negativa culminante col tempo nel fallimento finanziario. 2) La concorrenza in seguito a un miglioramento di produttività Fin qui abbiamo esaminato gli effetti della competizione di mercato in una situazione in cui le aziende concorrenti hanno raggiunto standard analoghi dal punto di vista dei costi produttivi, nonché quindi dei prezzi e dei profitti di mercato, una situazione di stabilità e di equilibrio insomma. Abbiamo anche analizzato le implicazioni del ritardo produttivo di un’azienda rispetto alla media dei propri competitors, ma non il caso di una situazione di vantaggio da parte di un’azienda rispetto alle altre. È chiaro che, se la produttività di un’azienda aumenta, in virtù ad esempio di macchinari più efficienti e/o di una migliore organizzazione della produzione, i suoi costi di produzione (tempo di lavoro, spese…) per ogni singolo pezzo diminuiscono, scendendo al di sotto delle spese medie. Tale azienda potrà allora sfruttare il vantaggio che le viene da questo fatto in due modi: 1) mantenendo il prezzo delle proprie merci allineato con gli standard di vendita dei suoi competitor; 2) abbassando il prezzo delle proprie merci in modo da portarlo a coincidere (totalmente o tendenzialmente) con i suoi costi di produzione reali. In entrambi i casi essa avrà inevitabilmente un vantaggio (così come un’azienda che produca a costi più alti della media ne avrà sempre degli svantaggi, qualunque strategia scelga per affrontare il mercato). Nel primo caso, il vantaggio consisterà nel fatto di avere un profitto più alto per ogni singolo pezzo venduto (ma non nel venderne più dei propri concorrenti); nel secondo invece, pur avendo un margine di profitto analogo ai propri concorrenti per ogni pezzo venduto, essa potrà in ogni caso vendere più merci e quindi avere complessivamente un profitto più alto. È peraltro questo secondo tipo di strategia, e non il primo, a promuovere il ribasso generalizzato del prezzo delle merci, dal momento che, vendendo le stesse merci dei suoi concorrenti a prezzi più contenuti, tale azienda finisce per sottrarre loro ampie fette di mercato, deprimendo i loro bilanci e costringendole ad allinearsi, attraverso l’implementazione produttiva, ai suoi standard produttivi e ai suoi prezzi. 3) Conclusioni Una volta di più, vediamo qui come la concorrenza di mercato tenda ad abbassare i costi delle merci, a vantaggio degli acquirenti finali. Mentre però nel primo paragrafo un tale livellamento avveniva a spese dei “ritardatari”, qui al contrario avviene a spese della maggioranza dei produttori, in conseguenza dell’introduzione di innovazioni e miglioramenti produttivi mai raggiunti prima. Ma quanto detto ci conferma anche la validità della teoria ricardiana dei prezzi, basata sull’idea della loro coincidenza con i costi di produzione. Solo abbassando i costi di produzione infatti, un’azienda può abbassare i prezzi delle proprie merci senza ricadute negative in termini di profitto o utile netto. Infine, un’ultima osservazione è d’obbligo: è facile per un’azienda abbassare i costi di produzione abbassando i salari dei lavoratori. Questa soluzione però, pur così facile, soprattutto se generalizzata finisce sui tempi lunghi per ritorcersi contro chi l’ha presa. Essa difatti, impoverendo il reddito delle masse lavoratrici, abbassa indirettamente anche la domanda di beni sui mercati e impoverisce le aziende stesse. Molto più difficile, ma molto più proficuo a lungo termine, è invece realizzare un risparmio sulle spese inerenti il capitale fisso (ad esempio attraverso l’introduzione di una tecnologia più efficiente) o comunque un risparmio produttivo (legato ad esempio a una più efficiente organizzazione della produzione) che non intacchi i salari della manodopera. II TEORIA DEL VALORE DI DAVID RICARDO a) Il valore delle merci è costituito, in ultima analisi, dal lavoro umano in esse contenuto -> Teoria del valore-lavoro Siamo ricchi nella misura in cui possediamo ciò di cui abbiamo bisogno per il soddisfacimento delle nostre necessità sia primarie che voluttuarie. Lo siamo, cioè, nella misura in cui possiamo usufruire di beni in linea con le nostre esigenze e i nostri desideri. Ma questi beni non “piovono dal cielo”, li possediamo infatti solo se li produciamo, ovvero, in altri casi, se li reperiamo. Essi sono insomma a nostra disposizione solo se lavoriamo, se operiamo uno sforzo per averli. Per questo, la ricchezza economica è costituita in ultima analisi proprio dal lavoro umano, in quanto origine ultima del nostro benessere. Ovviamente esistono, oltre a quello umano, anche altre forme di lavoro produttivo: il lavoro animale e quello delle macchine. Ma tali forme di lavoro da una parte esistono solo in funzione delle esigenze umane e dall’altra, e soprattutto, serve un lavoro umano per renderle effettive. Ad esempio, dovremo educare o costringere le bestie a fare ciò che ci serve facciano, e inoltre dobbiamo alimentarle e curarle; del pari, dobbiamo progettare, creare e manutenere le macchine che compiono i lavori che servono alle nostre esigenze. Dietro al lavoro animale o delle macchine dunque, vi è sempre il lavoro umano. L’economia è ciò attraverso cui l’uomo diviene padrone del proprio destino, attraverso appunto il proprio lavoro. Per questo, in ultima analisi, la ricchezza umana è tutta riconducibile al lavoro umano. La teoria alla base di questa visione è detta “teoria del valore-lavoro”: secondo tale teoria, il valore di scambio delle merci e, prima ancora che esso, la ricchezza effettivamente posseduta da un individuo o da una comunità, è interamente riconducibile al lavoro che l’ha generata. b) Il mercato è scambio di lavoro con lavoro -> una certa quantità di lavoro si scambia con una quantità equivalente (prezzo naturale) Secondo Adam Smith, il mercato, cioè lo scambio dei beni d’uso, non era originariamente finalizzato al profitto, ovvero a guadagnare una quantità di valore eccedente rispetto alle spese di produzione del prodotto stesso. Al contrario, chi scambiava scambiava, almeno tendenzialmente, qualcosa che aveva prodotto in un dato tempo (ex. due ore) con qualcosa che era stato prodotto attraverso un pari tempo di lavoro: ad esempio, un paio di scarpe con 1 kg di grano… (ovviamente non si parla qui del tempo che il grano ha impiegato a crescere, ma di quello dedicato dal contadino alle sue attività di coltura). Il tempo di lavoro, ovvero la quantità di sforzo necessaria a creare una merce (qui si parla infatti, non più di beni di consumo ma di beni di scambio), è quindi secondo tale visione l’unità di misura alla base delle attività di scambio, o di mercato, e lo scambio giusto è quello in cui un tempo di lavoro è scambiato con uno stesso tempo di lavoro, laddove il prodotto di tali lavori è differente (scarpe, grano…) e proprio tale diversità dà concretamente senso allo scambio. Il tempo di lavoro necessario a creare una determinata merce ne costituisce allora il valore economico, cioè il valore-lavoro in essa contenuto, ovvero ne costituisce il costo di produzione. Ogni merce si scambia con una merce avente un eguale costo di produzione. * In che rapporto si pone allora la moneta rispetto al valore-lavoro? A tale proposito bisogna notare che la moneta (sia essa il conio modernamente inteso (moneta o danaro creato e garantito da uno stato) o qualsiasi oggetto o unità concreta e quantitativamente discreta atta a rappresentare un determinato valore di scambio, ovvero una determinata quantità di valore-lavoro) la moneta dicevamo, ha un rapporto estrinseco con il valore reale alla base dell’economia, ovvero con il lavoro. Una certa quantità di lavoro sarà infatti rappresentata simbolicamente e convenzionalmente da una certa quantità di danaro: ad esempio, un minuto di lavoro sarà rappresentato da un penny; un anno da 10.000 sterline; un oggetto o servizio prodotto da grandi quantità di lavoro, sia diretto (ad esempio, il lavoro di operai) sia indiretto (ad esempio, quello di coloro che hanno progettato, creato e manutenuto le macchine usate dagli operai per l’espletamento di tale lavoro), avrà un enorme valore monetario, ad esempio 10.000.000 di sterline, dovendo tale valore in danaro quantificare l’enorme quantità di lavoro umano racchiuso, sia direttamente sia indirettamente, in tale merce (oggetto o servizio che sia). Non è allora il danaro la vera ricchezza (come tendevano a credere erroneamente i teorici del Mercantilismo, una corrente di pensiero economico che precedette le teorie di Smith e Ricardo). La vera ricchezza è il lavoro, che il danaro rappresenta soltanto in termini di quantità astratta, in qualità di “merce universale”, ovvero di mezzo di scambio universale, che facilita lo scambio tra diverse merci sulla base dell’equivalenza del loro valore in termini di quantità di lavoro contenuta. c) Il Capitalismo, ovvero la nascita della contrapposizione tra salario e profitto Fin qui abbiamo considerato la possibilità che il lavoratore lavori autonomamente, scambiando poi i suoi prodotti con altri prodotti di valore (tempo di lavoro) tendenzialmente equivalenti ai propri. Secondo Smith, in un contesto moderno questo principio dell’equivalenza del valore-lavoro non è più alla base degli scambi. Secondo Ricardo invece, esso resta valido anche in tale contesto. Tuttavia, in esso, cioè nel moderno sistema capitalistico, il lavoratore non lavora più per se stesso ma alle dipendenze di un imprenditore. Proprio per tale ragione, la distribuzione dei proventi derivanti dallo scambio tra i beni prodotti dal lavoro umano, è qui profondamente differente rispetto alla situazione sopra descritta. Ciò poiché l’imprenditore, esercitando un ruolo di preminenza rispetto all’operaio, in quanto gli fornisce gli strumenti alla base del suo stesso lavoro, può rivendicare una parte dei proventi commerciali ricavati dalla commercializzazione dei prodotti creati dall’operaio stesso. Se quindi in un dato tempo, l’operaio produce ad esempio 1 kg di grano, lo scambio sul mercato di tale prodotto-merce avverrà con un prodotto risultato di un analogo tempo di lavoro e quindi di pari valore economico. Tuttavia ora, il lavoratore o produttore diretto non acquisirà più l’intero ricavato della vendita, ma solo una parte di esso. L’altra parte difatti, verrà intascata dal datore di lavoro, il capitalista appunto, a titolo di profitto o rendita. Peraltro, i soldi ricavati dalla vendita dei prodotti non arrivano più direttamente al lavoratore, bensì sotto forma di salario elargitogli dal datore di lavoro, ovvero in forma mediata. Questa teoria, che più avanti analizzeremo più a fondo, è detta “teoria marginale del profitto”, ed è basata sulla contrapposizione tra salario e profitto, quest’ultimo visto come il margine di guadagno dell’imprenditore sulle attività del lavoratore, ovvero sul valore-lavoro da questi concretamente creato. Secondo tale visione (ripresa in seguito da Karl Marx) l’operaio produce, in sinergia con i macchinari e i mezzi produttivi fornitigli dall’imprenditore (su questo argomento, si veda il prossimo paragrafo), una certa quantità di merce attraverso una determinata quantità di ore di lavoro. Un tale prodotto, una volta venduto, frutterà una quantità di danaro equivalente al valore-lavoro impiegato per crearlo, ovvero al valore economico della merce. Ma tale quantità di danaro verrà divisa tra imprenditore e lavoratore, laddove il primo darà tendenzialmente al secondo quanto basta alla riproduzione della sua esistenza materiale, ovvero alla sua sopravvivenza nel periodo stesso del suo lavoro per lui. Questa teoria marginale del profitto si presta peraltro all’accusa rivolta all’imprenditore e più in generale al sistema capitalistico di sfruttare i lavoratori, ovvero di sottrarre loro appropriandosene indebitamente parte del valore-lavoro da essi prodotto. Del resto però, si deve anche riconoscere che senza profitto (ovvero senza un guadagno netto rispetto al capitale – salari più spese per materie prime e macchinari – impiegato dal capitalista nelle proprie attività economiche), l’imprenditore capitalista non potrebbe implementare le attività della propria azienda, mantenendola competitiva rispetto alle aziende concorrenti (il capitalismo infatti, è un sistema di produzione basato sulla competizione di mercato). d) Il ruolo di capitale fisso (mezzi di produzione non umani) e capitale variabile (lavoro umano) nella formazione del profitto capitalistico -> ovvero, solo il lavoro umano produce profitto! Prima di tutto è bene chiarire il rapporto che intercorre tra capitalisti e lavoratori. Il rapporto tra capitalista e lavoratori infatti, non si fonda solo su un arbitrario esercizio di autorità da parte del primo sui secondi. Vi sono difatti anche dei vantaggi oggettivi (in termini di maggiore capacità produttiva e quindi di maggiore disponibilità di merci e beni di consumo) dal tipo di organizzazione economica che chiamiamo capitalistica, e ciò non solo per il capitalista, ma anche per la società nel suo complesso e quindi, seppure in modo indiretto e con notevoli riserve, per gli stessi lavoratori salariati. Il capitalista infatti, in quanto detentore di grandi capitali finanziari (ovvero della possibilità di acquistare e mobilitare una grande quantità di forza-lavoro o, che è lo stesso, di valore-lavoro), è in grado di organizzare una produzione basata sul lavoro di un grande numero di operai (fabbrica o grande impresa), ognuno dei quali svolge una mansione ben definita, dando così vita – in base al principio economico della divisione del lavoro come fonte di produttività - a una organizzazione produttiva estremamente efficiente. Lo sviluppo della grande impresa capitalistica dunque, ha senza dubbio alzato il livello di benessere materiale delle nazioni in cui si è affermata, nonostante fenomeni di pauperismo intrinseci a un tale tipo di organizzazione e alla sua logica strutturale (basata, come si è visto, sullo sfruttamento del lavoro attraverso il principio del minimo salariale e in genere sulla logica dei mercati, fondata sul rapporto estremamente instabile tra domanda e offerta). Dunque, grazie ai propri grandi capitali finanziari il capitalista aggrega in un’unica organizzazione produttiva, estremamente articolata ed efficiente, un grande numero di lavoratori, in veste di salariati. Egli inoltre, fornisce a essi i mezzi di produzione alla base del loro lavoro, cioè materie prime e macchinari: mezzi che essi (in particolare per ciò che riguarda gli strumenti tecnologici, estremamente complessi e costosi) non potrebbero mai possedere e quindi utilizzare da soli. In quanto possessore di grandi capitali, insomma, il capitalista è colui che rende possibile la stessa organizzazione produttiva moderna, ovvero la produzione industriale. * Torniamo ora al discorso in merito al rapporto tra profitto e salario, ma aggiungendovi un elemento nuovo: i macchinari, ovvero più in generale il capitale fisso. Il capitalista infatti, deve poter pagare non solo i propri dipendenti (capitale umano o variabile), ma anche i mezzi di produzione da essi utilizzati, che egli e solo egli può fornire loro (capitale fisso). Egli deve cioè possedere un capitale monetario sufficiente a pagare sia i suoi operai, sia le macchine (e le materie prime) da essi utilizzate. Ovviamente questo capitale è il prodotto, in ultima analisi, della commercializzazione di ciò che i suoi dipendenti (con l’ausilio dei mezzi meccanici dati loro in dotazione) riescono a produrre. Cioè, i proventi della commercializzazione delle merci create all’interno della sua azienda o impresa saranno utilizzati dall’imprenditore per pagare sia la forza-lavoro alle sue dirette dipendenze, sia quella esterna alla sua azienda di cui indirettamente si serve: il che significa in sostanza, la manodopera che ha creato i macchinari (e, se esterna, quella che li mantiene, ovvero ne controlla la funzionalità ed eventualmente li ripara), nonché quella che gli procura le materie prime. Mentre la forza-lavoro alle sue dirette dipendenze è costituita dai suoi operai, l’altra parte della forza-lavoro utilizzata e pagata dall’imprenditore è costituita da lavoratori rispetto ai quali egli si pone non come datore di lavoro, ma come semplice cliente (per esempio, i macchinari che possiede sono stati costruiti da una qualche azienda, che ha speso per fare ciò del tempo e ha dovuto inoltre preliminarmente acquistare le materie e i macchinari attraverso i quali essi sono stati creati: essi hanno perciò un determinato valore in termini di ore di lavoro ovvero di valore-lavoro, un valore che si riflette nel prezzo al quale il nostro imprenditore li avrà acquistati). Il capitalista dunque, dovrà detrarre dai suoi proventi commerciali una parte che servirà a pagare i suoi dipendenti (salario) e un’altra che servirà a pagare il costo dei macchinari e della loro manutenzione, nonché quello delle materie prime. Egli avrà perciò due uscite: una inerente il capitale variabile (salario dei lavoratori) e una inerente il capitale fisso (costo dei mezzi di produzione). Tuttavia, mentre il prezzo dei componenti del capitale fisso non viene deciso dal capitalista, il quale in quanto cliente non potrà che prenderne atto e pagarli, il salario dei propri dipendenti, in quanto appunto egli ne è il datore di lavoro e come tale ha rispetto a essi una notevole forza di ricatto, dipende in gran parte da lui. E’ perciò solo nei confronti dei suoi dipendenti diretti che egli può per così dire “barare sul prezzo” della merce (il loro lavoro), dando loro meno di quanto a essi spetterebbe in base alla quantità di lavoro eseguito, ovvero in base all’effettivo valore economico delle loro prestazioni. Se, ad esempio, lavorando 10 ore un operaio produce (in sinergia con le macchine) 10 quintali di grano, il cui valore in termini monetari è di 10 sterline, e se le spese legate all’ammortamento del capitale fisso corrispondenti a tali 10 ore di lavoro sono di 2 sterline, ne segue per logica conseguenza che all’operaio spetterebbero come salario le rimanenti 8 sterline. Il lavoro produttivo infatti è diviso tra lui e i mezzi produzione: se questi costano (ovviamente solo in relazione alle 10 ore di lavoro qui considerate!) 2 sterline, il resto dei proventi commerciali del lavoro dell’operaio andrebbero all’operaio stesso: cosa che invece non avviene. Si ritorna quindi al discorso fatto nel precedente paragrafo: secondo questa visione, l’imprenditore toglie all’operaio parte del valore-lavoro da lui prodotto: un valore che gli spetterebbe di diritto in quanto egli è, assieme ai mezzi di produzione fissi o inanimati, l’unica origine dei beni d’uso creati. ** Ma in che misura, orientativamente, il capitalista sottrae ricchezza all’operaio? Secondo Ricardo, come già abbiamo detto, egli darebbe al dipendente solo quanto materialmente necessario alla riproduzione della propria esistenza nel lasso di tempo in cui lavora per lui. Se anche quindi, il lavoro dell’operaio desse vita a un’enorme quantità di valore-lavoro, il capitalista darebbe all’operaio solo quanto gli necessita per sopravvivere e riprodurre la propria forza-lavoro al proprio servizio, trattenendo il resto dei proventi per sé, ovvero come profitto o guadagno netto rispetto alle spese di produzione (capitale fisso e capitale variabile). Questa teoria è chiamata legge ferrea dei salari. D’altronde, queste misure di sfruttamento hanno, secondo Ricardo, una ragione precisa nella logica dei prezzi. La concorrenza commerciale difatti, impone a ogni imprenditore di vendere le proprie merci al prezzo più basso possibile, quindi di mantenere il prezzo di mercato fondamentalmente coincidente con il prezzo naturale delle merci (coincidente, si badi bene, con il loro costo di produzione, ovvero con la quantità di lavoro o valore-lavoro impiegata per creare le merci stesse). Dal momento quindi che egli, per creare profitto, non può (…ma questo non è esattamente vero, come vedremo avanti) alzare il prezzo delle proprie merci al di sopra del loro prezzo naturale, e che le spese legate ai mezzi di produzione utilizzati dai suoi operai non dipendono da lui ma da coloro i cui prodotti e servizi egli acquista esternamente (capitalisti che, peraltro, fanno nel loro ambito ciò che lui fa nel suo, vendendo i propri prodotti o servizi al loro prezzo naturale, e sfruttando e sottopagando i propri operai per creare profitto), il capitalista sarà di conseguenza costretto a lucrare sul salario dei propri lavoratori. Tutto questo dimostra, secondo la visione di Ricardo, che il profitto, anima stessa del capitalismo in quanto fonte della possibilità di ogni azienda di reinvestire i proventi al fine della propria crescita, può sorgere solo dallo sfruttamento del lavoro salariato, ovvero “barando” sul prezzo del capitale umano o variabile (il termine variabile non è casuale: infatti i lavoratori possono essere sottopagati, cioè il prezzo del loro lavoro varia a seconda dell’arbitrio del capitalista!). Questa visione dell’economia capitalistica, intesa come un’economia basata sullo sfruttamento del lavoro salariato, sarà ripresa da Marx per condannare moralmente tale modo di produzione (cosa che Ricardo non faceva) e indirettamente per preconizzarne la fine (infatti, se il profitto nasce dal lavoro salariato, dal momento che le spese per i macchinari o “capitale fisso” tendono a crescere costantemente, in conseguenza della competizione economica tra imprese che, imponendo di raggiungere sempre maggiori livelli di produttività, implica una sempre maggiore centralità della tecnologia nel processo di produzione, anche i profitti di impresa – anima del capitalismo – tenderanno col tempo a decrescere, mandando in crisi il funzionamento stesso dell’economia capitalista →legge marxiana della diminuzione tendenziale del saggio del profitto). Dunque, riassumendo, il prezzo delle merci coincide (tendenzialmente) con il loro costo naturale (ovvero con la quantità di lavoro in esse contenuto, espressa in danaro). E il profitto capitalistico sorge solo e unicamente a spese del salario dei lavoratori, tenuti (tendenzialmente) al livello della mera sussistenza per permettere al capitalista un margine quanto più alto possibile di guadagno netto o profitto sulla vendita delle merci da essi prodotte. *** D’altra parte, per quanto spietata e crudele, la legge del salario minimo o “legge ferrea del salario”, non si giustifica solo come una forma di sfruttamento arbitrario del lavoratore da parte del capitalista, avendo una base molto chiara anche dal punto di vista della teoria ricardiana dei prezzi (peraltro, l’idea secondo cui il salario dovesse ridursi al minimo, ovvero a coprire solo le spese di sussistenza dei lavoratori, era stata avanzata prima che da Ricardo, da altri economisti, tra cui lo stesso Adam Smith…). Essendo infatti il lavoro, cioè la prestazione lavorativa a pagamento, considerabile come una merce, il suo prezzo come quello di ogni altra merce deve essere equivalente al suo costo di produzione (prezzo naturale). Dunque, dal momento che, perché il lavoratore possa prestare la sua opera, è strettamente necessario che possieda solo i mezzi atti a reintegrare lo sforzo compiuto per adempiere a tale compito, il prezzo del suo lavoro (salario) dovrà coincidere con il valore (chiaramente espresso in danaro) necessario a procurarsi tali mezzi. (Vedi sintesi: RAPPORTO TRA PROFITTO E SALARIO NELLA VISIONE DI RICARDO) e) La legge della domanda e dell’offerta, e l’oscillazione dei prezzi e dei salari -> ovvero la legge del “prezzo naturale” ha una natura solo tendenziale Uno dei punti centrali della teoria del valore di Ricardo è, come si è visto, il concetto di prezzo naturale, ovverosia l’idea che il prezzo di una merce debba coincidere con il suo costo di produzione, il che significa con la traduzione in danaro o valore monetario, del valore-lavoro (tempo di lavoro) necessario per produrla, ovvero della quantità di lavoro racchiuso in essa. Chiaramente il tempo necessario di cui si parla è un qualcosa di standardizzato, cioè il tempo che un lavoratore mediamente efficiente impiega nel produrre quella merce. Un lavoratore particolarmente lento quindi, rischierebbe di essere penalizzato dal proprio datore di lavoro per il fatto di determinare una perdita di profitto all’impresa, producendo in (poniamo) 3 ore ciò che normalmente si produce in 2. All’opposto, un lavoratore particolarmente efficiente determinerebbe per essa un guadagno e potrebbe quindi ricevere premi e gratificazioni. Del resto, col tempo e con il progresso nell’efficienza produttiva che a esso solitamente si accompagna, il costo delle merci tende a calare, proprio perché il tempo di lavoro connesso alla loro produzione tende a diminuire. Infatti, una delle caratteristiche dell’economia di mercato, come si è già visto strutturalmente basata sul principio della concorrenza tra imprese, è la ricerca di una sempre maggiore produttività. E un tale incremento di produttività implica che una sempre maggiore quantità di merci si riversi sul mercato e a sempre minor prezzo, dal momento che il prezzo delle merci coincide con il loro costo in termini di valore-lavoro impiegato per produrle. Detto questo, Ricardo era ben consapevole del fatto che la legge dei prezzi naturali era solo una legge di massima, contrastata da fattori di diversa natura. Ma quali erano questi fattori? Alcuni di essi, particolarmente rilevanti, sono: la legge della domanda e dell’offerta; il tempo di produzione di una determinata merce; la sua rarità. 1) La legge della domanda e dell’offerta è tra tutti senza dubbio il fattore principale e più influente, ed ha inoltre forti implicazioni sull’andamento dei salari. In sostanza, esso implica che, se la richiesta di una certa merce eccede la sua disponibilità sul mercato, il suo prezzo reale superi il suo prezzo naturale. Quando invece accade l’opposto, la merce scende al disotto di esso. Ne segue che il prezzo naturale è il punto di gravitazione dei prezzi reali, nella misura in cui le merci oscillano tra queste due polarità: un eccesso di produzione e uno di domanda. Questa legge ha implicazioni anche sulla merce-lavoro, che come si è già mostrato non fa eccezione rispetto alla legge generale del prezzo naturale, la quale per tale merce si traduce nella legge del “minimo salariale”, premessa attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato per l’accumulazione del profitto da parte del capitalista. Anche il lavoro umano, in quanto merce, conosce alti e bassi, momenti in cui eccede la richiesta del mercato e altri in cui è insufficiente a coprirla. Per tale ragione, esso può a sua volta scendere al di sotto o salire al di sopra del suo prezzo naturale (il minimo salariale). Ma come per tutte le altre merci, anche in questo caso ogni eccesso finisce per riequilibrare se stesso. Una merce sottoprodotta infatti, a causa della richiesta del mercato che ne stimola la produzione, tende a essere oggetto di sempre maggiore produzione da parte dei capitalisti, fino al punto in cui finisce per essere sovraprodotta. Così, vi è un’oscillazione costante tra sottoproduzione e sovrapproduzione, pur con la presenza di momenti di equilibrio tra domanda e offerta (nei quali, ovviamente, il prezzo naturale dovrebbe coincidere con quello reale). Così il lavoro. Nei momenti in cui un settore economico si espande (cioè cresce la domanda di una determinata merce e quindi anche della sua produzione) i lavoratori in quel settore vengono pagati al di sopra del prezzo minimo o “naturale” del lavoro. Ma quando la situazione si rovescia, e la domanda di tale merce decresce, il salario tende a scendere sotto tale soglia. Del pari, nota Ricardo, nel momento in cui gode di una certa prosperità a causa degli alti salari, la manodopera tende ad aumentare di numero (crescita numerica delle famiglie), ponendo in tal modo i semi della svalutazione del proprio lavoro, ovvero la diminuzione del suo prezzo o salario. Questa svalutazione poi, portando alla decrescita dei salari porta l’impoverimento dei lavoratori, determinandone sui tempi lunghi la decrescita numerica, la quale a sua volta porta il valore delle loro prestazioni a aumentare. Ricardo aveva ben colto insomma, la natura altalenante dell’economia capitalistica, ovvero il costante alternarsi tra momenti di crescita e espansione e altri di decrescita o “crisi”. Come si vede infatti, la legge della domanda e dell’offerta è la base della visione economica ciclica di Ricardo. Essa completa insomma la teoria del valore sopra descritta, che di per sé al contrario ha una natura statica. Un’altra legge di sviluppo ricardiana consiste nell’idea di un tendenziale livellamento dei profitti capitalistici. Il capitalista infatti, è mosso dalla ricerca del maggior profitto possibile, quindi tende a investire il proprio capitale in quei settori in cui la domanda eccede l’offerta. In tal modo però, anche i settori in espansione giungono prima o poi a saturazione, determinando una decrescita dei profitti capitalistici investiti in essi. Al tempo stesso, nuovi o vecchi settori economici tendono a conoscere o a conoscere di nuovo una nuova fase espansiva, fino al momento in cui iniziano a loro volta a declinare. La visione dell’economia di Ricardo tende dunque a essere oscillatoria, comportando un movimento che sempre si autocompensa. 2) I tempi di produzione delle merci sono un altro fattore che sposta il prezzo delle merci al di sotto o al di sopra del loro costo di produzione. Infatti le merci che richiedono lunghi processi produttivi e implicano l’impiego di macchinari molto costosi, tendono a essere vendute a prezzi superiori a quelli di produzione, in ragione e come risarcimento del maggior tempo e delle maggiori spese che comportano. Al contrario, e per ragioni uguali ma opposte, le merci caratterizzate da un breve ciclo produttivo tendono a essere vendute a un prezzo inferiore al loro valore-lavoro. 3) Un ultimo fattore che disturba, o meglio che esula dalla regola del prezzo naturale, è quello della rarità di alcune merci. Mentre infatti i due punti precedenti (1 e 2) confermavano, pur costituendone un elemento di disturbo, la legge del prezzo naturale, il fattore della rarità di una merce ne costituisce un’eccezione assoluta. Ricardo difatti affermava che la legge secondo cui il prezzo di un prodotto corrisponde al suo costo di produzione è valida solo per le merci incrementabili all’infinito, ovvero per quelle merci la cui creazione o approvvigionamento non presenta particolari difficoltà. Al contrario una merce preziosa, come ad esempio l’oro, ha di per se stessa un grande valore, essendo presente solo in quantità limitata in natura e non essendo artificialmente riproducibile dall’uomo. Quando si va ad acquistare una certa quantità di oro, dunque, non si paga solo il lavoro alla base della sua produzione (ad esempio, quello necessario a trovarlo e estrarlo) ed eventualmente della sua lavorazione, ma anche e innanzitutto il suo intrinseco valore economico, prodotto della sua scarsità e rarità. Il valore derivante dalla scarsità di una merce quindi, si va a sommare a quello legato al lavoro che vi è pur sempre a base, dal momento che una merce non si “autoproduce” mai, spesso peraltro rendendolo pressoché irrilevante nella determinazione del prezzo, data la sproporzione tra essi esistente. f) Considerazioni su Ricardo e sulla teoria economica classica in genere -> Individualismo, atomismo e astrattezza logica Con Adam Smith e David Ricardo nasce la scienza economica. Già prima di loro, erano stati fatti dei tentativi di comprendere il funzionamento dell’economia degli stati (politica economica). In particolare erano state elaborate una serie di teorie oggi dette mercantilistiche e fisiocratiche. Ma tali teorie sono considerate ancora pre-scientifiche, nonostante molte intuizioni in esse contenute siano ritenute a tutt’oggi valide o comunque oggetto di riflessione e dibattito (ad esempio, l’idea mercantilistica che lo stato possa esercitare una tutela sull’economia nazionale a vantaggio sia proprio sia dell’economia stessa). Manca però in esse una visione chiara dei presupposti attorno ai quali ruota l’economia moderna, capitalistica e di mercato: aspetti che invece iniziano a prendere una forma più definita a partire dalle teorie smithiana e ricardiana. In particolare, il contributo che questi due pensatori diedero alla disciplina economica risiede nella comprensione lucida (Adam Smith) del fatto che il lavoro umano sia l’origine di ogni ricchezza economica, in quanto appunto produttore di valore d’uso, e di conseguenza l’identificazione tra valore economico e lavoro, e del fatto che la moneta costituisca un mero strumento di scambio della ricchezza (una merce universale, il cui fine è favorire lo scambio delle altre merci tra loro), piuttosto che una ricchezza per se stessa. Sempre Adam Smith per primo comprese lucidamente e affermò il ruolo della divisione specialistica del lavoro ai fini dell’incremento della ricchezza sociale. Del resto, un tale aspetto si lega profondamente per lui all’esistenza dei mercati. Infatti, laddove ognuno si specializzi nella produzione di un determinato prodotto incrementandone così la quantità e la qualità, è anche gioco-forza che scambi i propri prodotti con altri, risultato del lavoro specialistico di altri individui. In tal modo nasce il mercato. A Ricardo invece va ascritto, oltre a una definizione esatta del rapporto tra salario e profitto di cui abbiamo già parlato, il merito di avere compreso le implicazioni della specializzazione produttiva a livello internazionale. Egli infatti formulò il principio, nettamente a favore del libero commercio internazionale, secondo il quale ogni nazione o stato finirebbe col tempo per specializzarsi nella produzione di merci per essa di più agevole produzione, che rivenderebbe poi sui mercati esteri acquistandovene altre, per essa più difficili da produrre. In questo modo, l’applicazione del principio smithiano della divisione del lavoro e del mercato come cause di benessere sociale trova applicazione anche sul piano del sistema dell’economia internazionale. David Ricardo e Adam Smith sono dunque i teorizzatori dei benefici sociali dell’economia di mercato capitalistica (dove il capitalismo è una fase successiva rispetto a quella della produzione già specialistica, ma ancora puramente individuale o familiare), ovvero dei benefici della competizione e dello spirito individualistico in quanto basi stesse dell’organizzazione capitalista della produzione. Questa idea trova la sua raffigurazione nell’idea della Mano invisibile di Adam Smith, ovvero nel principio per il quale l’egoismo e la massimizzazione del profitto personale porterebbe tendenzialmente (attraverso un meccanismo indiretto ma necessario) all’incremento del benessere collettivo. La prima scienza economica sorge dunque come decifrazione dei meccanismi alla base dell’economia industriale e di mercato sviluppatasi in Europa a partire all’incirca dal XVII secolo (una “decifrazione” i cui primi tentativi si fanno risalire appunto alle teorie mercantilistiche del XVII secolo). Essa ha un carattere astratto o deduttivo-razionale, e si basa su un’idea essenzialmente atomizzata della società. I suoi meriti sono quindi legati alla definizione dei caratteri puri dell’economia industriale moderna, una definizione talvolta estremamente spregiudicata (ad esempio, quando Ricardo definisce il salario come il costo minimo del lavoro umano, ovvero il mero costo di riproduzione della vita dell’operaio) ma di solito con forti componenti di verità. I difetti di tale visione sono invece legati alla sua natura fortemente astratta e astorica, che prescinde totalmente dai fattori spirituali o culturali in cui tali dinamiche di mercato si collocano, mutandone anche profondamente la natura (ad esempio, in alcuni stati l’economia di mercato ha assunto caratteri maggiormente libertari, in altre è rimasta maggiormente legata alla tutela statale…). Essa pecca cioè, tra l’altro, di astoricità e di mancanza di un legame strutturale con il contesto socio-culturale in cui tali meccanismi di volta in volta si collocano. Proprio per reagire a tali parzialità, la scuola economica romantica (in particolare il List), prodotto della temperie culturale post-illuministica, inserì dei nuovi elementi o spunti “sociologici” e storici all’interno della dottrina economica, vedendo la sfera produttiva come una delle molteplici espressioni della vita di un popolo, profondamente integrata con tutte le altre e da esse influenzata (tra l’altro, molti economisti posteriori a Ricardo misero in discussione la sua teoria del valore-lavoro, in favore dell’idea del valore economico come risultato dell’utilità sociale dei beni d’uso). Senza dubbio inoltre, la visione meccanica e “atomistica” dei pensatori economici classici pecca, da un punto di vista storico globale, di sopravvalutazione del peso del mercato, ovvero della logica (così ben descritta da Ricardo) della formazione dei prezzi, motore stesso attraverso la ricerca del profitto della produzione dei beni d’uso. Già i romantici e poi Karl Marx mostrarono invece che esistono economie che, pur se non totalmente prive di mercati, non sono in ogni caso basate principalmente o esclusivamente su tale tipo di istituzione. Ovviamente, al di fuori della fase primitiva dell’economia di mera sussistenza (autoproduzione), sempre si afferma la specializzazione e divisione del lavoro e, quindi, lo scambio dei prodotti. Ma – questo deve essere ben chiaro – lo scambio inteso come commercio (ricerca dell’utile o profitto) non è il solo tipo di scambio codificato a livello istituzionale: esiste ad esempio, il baratto (di cui già parlava Adam Smith), una forma di scambio tra singoli produttori o possessori di beni il cui fine non è generare un guadagno netto ma scambiare alla pari differenti valori d’uso; esiste il tributo, ovvero l’obbligo dei singoli produttori o possessori di beni di versare parte del proprio lavoro a una più alta autorità (che in genere restituisce loro qualcosa in termini di servizi); esiste il dono o scambio rituale, tipico delle forme di organizzazione più arcaiche, il cui scopo era in gran parte lo stesso del baratto anche se a livelli più alti (il dono tra stati antichi, ad esempio, nascondeva la necessità di scambiare beni superflui con beni d’uso carenti ma necessari), così come il consolidamento di rapporti di alleanza tra diversi clan o stati… Ovviamente, nessuno nega che in linea di massima le economie più evolute e ricche si basino in gran parte sul mercato e sull’uso della moneta (e ciò non solo in Europa e Occidente…), ma pensare che l’economia come tale debba coincidere esclusivamente con questo tipo di organizzazione è una vera semplificazione e mistificazione storica e sociologica. I limiti del pensiero economico classico sono dunque principalmente due: 1) un’eccessiva astrattezza, legata all’individuazione dei meccanismi “puri” dell’economia di mercato, senza molta attenzione ai fattori di carattere culturale e in ogni caso non peculiarmente legati alla sfera produttiva e di mercato e alle loro pesanti ripercussioni su di essa; 2) il presumere che l’economia umana come tale debba basarsi (con la sola eccezione dei periodi più arcaici, in cui secondo Adam Smith lo scambio aveva una natura ancora molto primitiva: il baratto) sulla ricerca dell’utile e sulla triade rendita fondiaria – lavoro salariato – profitto capitalistico: in altre parole, la natura astorica del loro pensiero. g) Debolezze della teoria ricardiana dei salari Uno degli aspetti cruciali del pensiero di Ricardo, come si sarà capito, è la teoria dei salari, intesi come ciò che il capitalista dà ai lavoratori in cambio delle loro prestazioni e che coincide, secondo la sua visione, con ciò che consente loro di sopravvivere durante il periodo di lavoro per il capitalista, permettendo in tal modo di replicare lo sforzo al suo servizio. Questo discorso può essere valutato da due differenti punti di vista: dal punto di vista della logica di mercato, il lavoro essendo una merce come le altre, è giusto che come le altre merci abbia il minor costo possibile (quello coincidente cioè col suo costo di riproduzione); dal punto di vista produttivo invece (un’idea questa fatta propria da Marx, che a questo aspetto del pensiero di Ricardo si richiama in alcuni aspetti cruciali del suo) essendo il lavoro umano in ultima analisi l’origine di tutte le merci, una tale retribuzione costituisce una palese ingiustizia, ovvero l’appropriazione da parte del capitalista di parte dei frutti del lavoro dei suoi dipendenti. Questa teoria del salario è senza dubbio importantissima e cruciale nella storia del pensiero economico, ma ha alcuni punti di debolezza. Prima di tutto, si deve osservare la natura aleatoria dell’idea del salario minimo, atto a garantire la mera sopravvivenza dell’operaio: cosa si intende infatti con “sopravvivenza”? Si possono intendere varie cose, ovvero si può avere un’idea più o meno ristretta delle condizioni esistenziali minime dell’operaio (e umane in generale), e quindi idee anche molto diverse di cosa debba essere un salario minimo. Con tale concetto si intenderà il vitto, o il vitto e un alloggio (per quanto modesto), o il vitto e un alloggio e i diritti minimi alla salute e al limite anche a qualche svago? Detto ciò, è un fatto che il progresso tecnico e organizzativo che caratterizza l’evoluzione dei sistemi economici capitalistici e industriali porta tendenzialmente con il tempo a tempi di produzione delle merci sempre più ristretti e quindi, a parità di tempo, a una maggiore produzione. Se il tempo di lavoro diminuisce diminuiscono anche il valore e il costo delle merci e quindi il loro prezzo si abbassa. Questo comporta una maggiore capacità di spesa da parte dei lavoratori, ovviamente a parità di stipendio o salario, e quindi anche un innalzamento dei loro livelli di vita, ovvero tendenzialmente della misura del minimo salariale. Vi è, insomma, nel capitalismo, una tendenza progressiva all’innalzamento del benessere, conseguente all’aumento naturale della produttività industriale. Ovviamente, non si può escludere la possibilità che i capitalisti vanifichino gli effetti della diminuzione del costo delle merci abbassando in misura proporzionale i salari, ovvero riducendo il potere d’acquisto dei lavoratori, al fine chiaramente di conservare un alto margine di profitto sulle merci. Ma questo fatto non sempre avviene, ed anzi non solo non costituisce una regola ma al contrario, tendenzialmente, un’eccezione. Ciò poiché diminuire il potere d’acquisto delle masse lavoratrici significherebbe deprimere la domanda di beni sul mercato e cadere di conseguenza nel problema della sovrapproduzione (merci invendute o vendute sottocosto), ovvero in perdite finanziarie ben peggiori di quelle legate a un semplice aumento (o meglio, a una non diminuzione) dei salari. Ovviamente però, il singolo capitalista ha di solito una visione a breve termine dei meccanismi economici, ovvero guarda al proprio vantaggio immediato piuttosto che a quello secondario e a lungo termine: egli propenderebbe cioè più per una diminuzione del salario che per il mantenimento del suo precedente valore, o al limite per un suo innalzamento. Entra allora in gioco il ruolo di alcune istituzioni politiche e sociali moderne, i sindacati, che in nome di principi egualitari e di redistribuzione della ricchezza, rivendicano e cercano di ottenere un miglioramento delle condizioni salariali dei lavoratori, favorendo in tal modo l’espansione della domanda e quindi dell’industria stessa, con reciproco beneficio sia per i lavoratori che per i capitalisti. Si vede allora come nell’economia e nel pensiero economico moderno abbia fatto capolino, rispetto ai tempi degli economisti classici, una nuova componente: non solo cioè la preoccupazione (tipica dei primi) inerente la produzione (produrre con i più alti margini di profitto possibile per i capitalisti), ma anche quella inerente la domanda delle merci, che lo stato e la società in genere debbono cercare attivamente di sostenere (visione organica). Un altro limite dei pensatori classici, pionieri del pensiero economico moderno, risiede allora in una sottovalutazione del problema della sovrapproduzione (problema del quale però già Ricardo era ben cosciente, nella misura in cui sottolineava ad esempio che i capitalisti cercano di inventare sempre nuovi tipi di merci, al fine di non incorrere nel rischio di una caduta dei prezzi e degli utili in seguito a un eccesso di produzione). L’economia moderna al contrario, anche a causa dei problemi sempre più ricorrenti legati alle crisi strutturali di sovrapproduzione, ha evidenziato, accanto al problema originario della massimizzazione del profitto capitalistico in relazione al costo di produzione delle merci, l’importanza del sostegno strutturale della domanda: un sostegno che si ottiene in gran parte attraverso misure di stabilizzazione economica che non dipendono dalla logica del mercato puro, ma da organismi politici e decisionali capaci di trascendere l’interesse del singolo imprenditore in favore dell’interesse del mercato e della società globalmente intesi. Ciò ha determinato, se non la fine, quantomeno un forte ridimensionamento dei principi smithiani della Mano invisibile o del “laissez faire”, ovvero in sostanza del liberismo radicale dei pensatori classici. |