PAGINE DI ECONOMIA


XEPEL

Economia borghese ed economia marxista
Gli austriaci e la critica alla teoria marxista del valore

Tutto quello che è acquisizione e tutto quello che costituisce fondi e ricchezze,
non proviene che dal lavoro dell’uomo…
Senza il lavoro queste occupazioni non darebbero alcun profitto.
Ibn Khaldun (filosofo arabo del XIV secolo)

Introduzione

La teoria del valore è l’asse portante di ogni teoria economica e in particolare della teoria economica marxista. Gli economisti borghesi, sin dall’affacciarsi del marxismo nell’agone scientifico, hanno tentato in ogni modo di dimostrare le incongruenze logiche della teoria del valore-lavoro.

La questione non risultava facile, perché la teoria marxista era presentata dallo stesso Marx come il necessario sviluppo della teoria borghese[1]. Marx dimostrò che se si prendevano gli economisti classici sul serio e si portavano alle logiche conclusioni le loro tesi, si doveva necessariamente giungere a difendere il punto di vista della classe operaia nel conflitto che la opponeva alla borghesia[2].

Una simile conclusione, talmente intrinseca alla struttura della teoria che lo stesso Ricardo non vi andò lontano (nel famoso capitolo “Sulle macchine” della sua opera più nota), rendeva inevitabile un cambio di strategia. E così fu. Come era possibile che la scienza che costituiva – e costituisce – il fulcro stesso dell’agire borghese, la sua forma ideologica, dimostri che i salariati hanno ragione e i loro padroni torto? Per questo, “il pensiero economico successivo ai classici gradualmente abbandona la teoria del valore-lavoro in concomitanza delle prime manifestazioni della lotta operaia”[3].

La scienza economica venne rifondata su un piano completamente differente, tanto che ne cambiò addirittura il nome, da political economy a economics. Che la scuola ricardiana avesse incontrato difficoltà insormontabili già a partire dagli anni venti dell’Ottocento fu lo stesso Marx a osservarlo, ma queste difficoltà furono appunto superate dall’analisi marxiana.

Così, dopo qualche decennio di “sincretismo esanime”, in cui gli economisti cercarono a tentoni un’alternativa alla scuola classica, dopo l’episodio della Comune di Parigi, l’economia rinacque con la scuola soggettivista, declinata nelle diverse tradizioni nazionali: Walras a Losanna, gli austriaci, gli inglesi.

Non si trattava di idee nuove, dato che l’utilitarismo è il filo rosso di buona parte del pensiero borghese sin dalle origini. In effetti, si trattava di teorie scartate dagli stessi studiosi borghesi quando si trattava di analizzare le basi reali del modo di funzionamento del capitalismo. Ma ora tornavano utili.

Rifondata la scienza economica in chiave soggettivista, occorreva a questo punto attaccare il marxismo. Per due ottime ragioni. Innanzitutto, era l’erede, ancorché indesiderato, della scuola economica classica; in secondo luogo, era la spina dorsale scientifica del movimento operaio. Per questo, buona parte degli economisti “neoclassici”, secondo la definizione ufficiale, ovvero aderenti ai diversi filoni della scuola soggettivista, si dedicò ad attaccare il marxismo.

Questi furiosi tentativi di scomunica scientifica si ponevano (e si pongono) a livelli diversi di profondità teorica e onestà intellettuale. L’ansia politica di arginare la crescente forza del movimento socialista condusse, nella gran parte dei casi, a una scarsa o nulla comprensione delle tematiche marxiste. Ma l’incapacità di capire le basi scientifiche, o il loro travisamento, non sono frutto necessariamente di cattiva fede. La filosofia della scienza parla di intraducibilità delle diverse teorie scientifiche per descrivere questo fenomeno di effettiva difficoltà nel trasferire i concetti di una teoria nei termini di una teoria rivale. Ciò si verifica anche nella fisica o nella biologia, ma è tanto più vero in questa circostanza in cui la nuova teoria nasceva esattamente allo scopo di nascondere, eliminare i risultati, i metodi e persino l’oggetto di studio della tradizione precedente, classica e poi marxista.

Tutto ciò non ha certo impedito a uno stuolo di professori borghesi di dichiarare confutato Marx dopo averne costruito un’immagine farsesca, confacente ai propri pregiudizi. Tra le scuole che più si distinsero nella professione di confutazione del marxismo merita una particolare attenzione la scuola austriaca, che già con il suo fondatore Wieser cercò di criticare le basi scientifiche del marxismo[4]. Non fu a caso che l’attacco cominciò in quel periodo:

“è a partire dal 1895 che il numero degli scritti accademici consacrati a Marx e al marxismo aumenta rapidamente (20 prima del 1883; 66 tra il 1883 e il 1895; 214 tra il 1895 e il 1904). E' evidentemente l’ascesa del movimento operaio che spiega questo sforzo di riappropriazione”[5]

Negli ultimi vent’anni del XIX secolo, la classe operaia europea, ripresasi dalla sanguinosa sconfitta della Comune, aveva ricreato le proprie organizzazioni. Lo sviluppo del movimento operaio era impressionante, particolarmente in Germania e Austria. La crescita rigogliosa delle organizzazioni socialiste segnò anche il trionfo del marxismo, simboleggiato dall’apparizione trionfale di Engels al congresso dell’Internazionale socialista del 1893.

Se quando uscì Il capitale l’intellettualità borghese poteva permettersi di passarlo sotto silenzio, questa tattica non funzionava più perché il marxismo aveva comunque conquistato i cuori e le menti della classe operaia europea. Bisognava passare all’attacco: “Marx doveva essere confutato, e la storia, dopo aver passato in rassegna tutti i possibili candidati, scelse appunto Böhm-Bawerk come colui che dava maggiore affidamento”[6].

Il celebre economista austriaco decise di partire all’attacco della teoria del valore marxista. Giustamente, poiché, se si accetta quella teoria, il resto viene più o meno da sé, tanto che un economista tedesco scrisse, l’anno dopo la pubblicazione del Capitale: “il rifiuto della teoria del valore è il solo compito di chiunque combatta Marx; giacché, una volta ammesso questo assioma, bisogna concedere a Marx quasi tutte le conseguenze tratte con la logica più rigorosa”[7]. Lo stesso Böhm-Bawerk spiega:

“I pilastri fondamentali del sistema marxiano sono il suo concetto di valore e la sua legge del valore. Senza di essi, come lo stesso Marx ripeté più volte, sarebbe impossibile qualsiasi conoscenza scientifica degli avvenimenti economici.”[8]

Sebbene l’economista austriaco si rivelò, e in un certo senso fu costretto ad esserlo, tra i più seri critici della teoria economica marxista, non bisogna sopravvalutare la sua capacità di approfondimento. Böhm-Bawerk non riesce comunque ad andare oltre gli argomenti soliti della scuola neoclassica. Tipico del metodo di Böhm-Bawerk e dei suoi simili è valutare Marx come uno di loro, come un economista borghese con idee curiose che vanno confutate.

Tuttavia, a differenza di molti altri, Böhm-Bawerk trattò Marx con rispetto e si rifiutò di scendere ai livelli infimi, così usuali della marmaglia scientifica che, non potendo confutare il marxismo, si accanisce su aspetti del tutto secondari[9] quando non sulla vita personale delle figure storiche del movimento operaio. Qui siamo a un altro livello anche se, ovviamente, traspare la ragione politica della critica: l’attacco di Böhm-Bawerk, come lui stesso riconosce qui e là, è un atto di lotta di classe.

Lavoro contro utilità

Nella teoria socialista del valore quasi tutto è errato. Essa non riconosce l’origine del valore, che sta nella utilità invece che nel lavoro – F. Wieser

Nel primo capitolo del Capitale in forma di ragionamento logico e altrove con spiegazioni storico-sociali, Marx analizza il capitalismo quale raccolta di merci, di prodotti cioè creati per lo scambio in un regime di divisione inconsapevole del lavoro. Marx ben sapeva che quel capitolo sarebbe stato il più ostico del libro, così nella Prefazione avverte il lettore che si tratta del problema centrale e che è di difficile comprensione.

Nel capitalismo, la produzione ha come scopo la massimizzazione del profitto dei proprietari dei mezzi di produzione che agiscono in concorrenza tra loro. Dato che lo scopo della produzione è l’accrescimento del capitale e dunque del denaro del capitalista, il valore di scambio di una merce sussume completamente il suo valore d’uso.

Sin dai classici era stato osservato che vi sono merci con grande valore d’uso ma basso (o nullo) valore di scambio, così come l’esistenza di beni senza alcun valore di scambio eppure indispensabili all’uomo, come l’aria (almeno per ora gratuita). Questa obiezione fu mossa anche dall’economista austriaco Knies a Marx: la teoria classica e marxista del valore sarebbe errata in quanto non considera beni quali un prato. In realtà, si tratta di un’obiezione molto debole, affrontata già agli albori della teoria classica. Marx vi torna criticando il programma lassalliano con cui nacque la socialdemocrazia tedesca, che confonde il lavoro e la ricchezza (cioè appunto i valori di scambio e il valore d’uso):

“la natura è la fonte di valori d’uso... altrettanto quanto il lavoro... e il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi anche di ricchezza, in quanto l’uomo è fin dal principio in rapporto, come proprietario, con la natura, fonte di tutti i mezzi e oggetti di lavoro, e li tratta come cosa che gli appartiene”[10]

Ma sul punto aveva già detto qualcosa nel Capitale stesso. Infatti, nel primo capitolo, dove spiega che il valore d’uso è il contenuto materiale della ricchezza Marx sostiene:

“Nella sua produzione l’uomo può solo operare come la natura stessa, cioè soltanto modificare le forme dei materiali. Ma vi è di più. In questo stesso lavoro di formazione l’uomo è costantemente assistito da forze naturali. Quindi il lavoro non è l’unica fonte dei valori d’uso da esso prodotti, della ricchezza materiale.”

Ogni produzione si serve di processi naturali che il proprietario dei mezzi di produzione si appropria senza compenso (dal miele delle api all’energia solare, dai giacimenti di minerali al vento), incorpora dunque una parte di ricchezza che non deriva dal valore umano. Il punto è che qualunque processo naturale, per entrare nella produzione umana, cioè nella divisione sociale del lavoro, deve essere appropriato da qualcuno e nel momento in cui viene appropriato, la ricchezza si trasferisce dalla natura all’uomo, appunto tramite il lavoro. Le api producono il miele ma senza l’apicoltore che lo raccoglie, la ricchezza miele non esisterebbe per la società.

Il lavoro umano non è il creatore di ogni ricchezza, ma è creatore del valore, ovvero del lavoro socialmente necessario per riprodurre e sviluppare la società. La legge del valore è la legge che divide il lavoro in una società in cui il processo produttivo è distribuito anarchicamente tra produttori indipendenti. I prezzi sono il mezzo con cui si può suddividere la forza-lavoro nella proporzione quali-quantitativa necessaria al processo produttivo.

Lungi dall’essere in contraddizione con la teoria marxista del valore, il rapporto tra ricchezza e lavoro ne costituisce l’aspetto centrale per comprendere la parabola dei modi di produzione nella storia. Una simile analisi è del tutto persa in un contesto teorico in cui il valore di scambio è identificato con l’utilità marginale di un bene, il mantra della scuola soggettivista.

L’essenza della svolta data da questa scuola alla teoria economica è l’idea che il valore d’uso sia ciò che decide del consumo e pertanto della produzione dei beni. Il valore di scambio, dunque in ultima analisi il prezzo di un bene, sarebbe determinato dall’utilità marginale (cioè dell’ultima unità consumata) quanto al lato della domanda e dal costo marginale (cioè dell’ultima unità prodotta) quanto al lato dell’offerta.

Il ragionamento di Marx può sembrare astratto ed essere preso per deduttivo: tutte le merci, se si toglie ciò che è inessenziale, hanno una qualità in comune, essere il prodotto del lavoro umano. Böhm-Bawerk critica Marx perché questa tesi non presenta dimostrazioni empiriche né convincenti dimostrazioni teoriche, è come una deduzione ma fallisce proprio nel suo carattere definitorio perché l’utilità è una proprietà più estesa del valore.

“Due vie naturali si aprono spontaneamente a chiunque voglia provarsi realmente a fondare la tesi in questione: un modo empirico e un modo psicologico. O si osservano semplicemente i rapporti effettivi di scambio delle merci e si controlla se riflettono una proporzionalità tra la grandezza del valore di scambio e la erogazione di lavoro. O, procedendo simultaneamente per induzione e per deduzione - come si fa spesso nella nostra scienza - si analizzano i motivi psicologici che guidano le persone, da una parte, nel corso dei loro scambi commerciali e nella fissazione dei prezzi, dall’altra, nella loro partecipazione alla produzione. (…) Marx non ha seguito né l’una né l’altra di queste due vie. (…) Il suo procedimento consiste in una dimostrazione puramente logica, in una deduzione dialettica che ha il suo punto di partenza nella natura dello scambio.”[11]

Si noti come l’economista austriaco non sia in grado di staccarsi dal soggettivismo e riduca l’analisi non empirica ai “motivi psicologici”. Invece, il ragionamento di Marx non è “psicologico” ma storico. Lo si vede con chiarezza nella celebre lettera a Kugelmann dell11 luglio del 1868 in cui Marx sembra quasi rispondere all’obiezione di Böhm-Bawerk:

“l’analisi dei rapporti reali, data da me, conterrebbe la prova e la dimostrazione del reale rapporto di valore anche se nel mio libro non vi fosse nessun capitolo sul ‘valore’.”

E va avanti:

“Il cianciare sulla necessità di dimostrare il concetto di valore è fondato solo sulla più completa ignoranza, sia della cosa di cui si tratta, sia del metodo della scienza. Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa. E ogni bambino sa pure che la quantità di prodotti, corrispondenti ai diversi bisogni, richiedono quantità diverse, e qualitativamente definite, del lavoro sociale complessivo. Che questa necessità della distribuzione del lavoro sociale in proporzioni definite, non è affatto annullata dalla forma definita della produzione sociale, ma solo può cambiare il suo modo di apparire, è self evident. Le leggi di natura non possono mai essere annullate. Ciò che può mutare in condizioni storiche diverse non è che la forma in cui questa distribuzione proporzionale del lavoro si afferma, in una data situazione sociale nella quale la connessione del lavoro sociale si fa valere come scambio privato dei prodotti individuali del lavoro, è appunto il valore di scambio di questi prodotti.”

La funzione necessaria del lavoro come elemento di valorizzazione del capitale non deriva solo dalle ore non pagate, pure necessarie, ma da tutte le ore lavorate. Senza lavoro non c’è movimento dei mezzi di produzione, non c’è produzione, non c’è capitalismo.

Al contrario, si può ben dare utilità senza produzione. Che la produzione sociale necessiti di una determinata composizione qualitativa data dei mezzi di produzione e della forza lavoro è ovvio. Altrimenti non vi sarebbe neppure divisione del lavoro o scambio di merci, il quale implica divisione del lavoro non cosciente.

Che cos’è dunque una merce, la cellula della società borghese? E' qualunque bene che soddisfi un bisogno (reale o fantastico, diretto o indiretto), essa è dunque immediatamente un oggetto utile.

Questo immediato si riferisce a due aspetti parimenti importanti. Innanzitutto, significa che il valore è qualcosa che la merce acquisisce solo mediatamente e in particolare solo quando la validazione del mercato ne sancisce il contenuto in termini di lavoro sociale. In secondo luogo significa che il valore d’uso esiste in quanto c’è l’uso, ovvero esiste solo per il consumo.

Se la merce non è usata ma venduta, il valore d’uso, la sua qualità immediata, scompare dalla vista. Il valore delle merci ne consente la circolazione e, come atto finale, l’uso, il consumo. Per aversi la circolazione occorre che tutte le merci partecipino di una sostanza comune. Ma questa sostanza non è “trovata” escludendo ciò che non le accomuna, come pensano gli austriaci. E' invece la forza reale che le genera, il lavoro umano, senza il quale i valori d’uso non diventano merci. Il lavoro sociale (medio) è ciò che riconduce a unità i valori d’uso che esistono in quanto sono appunto oggettivati da lavoro sociale. Marx sa bene che l’insieme dei valori d’uso è più vasto, ma la maggiore vastità è irrilevante senza l’intervento umano:

“Una cosa può essere valore d’uso senza essere valore di scambio. Ciò accade quando la sua esistenza per l’uomo non è mediata attraverso il lavoro…Una cosa può essere utile e può essere prodotto di lavoro umano senza essere merce.”[12]

Come succede, ad esempio, con i lavori domestici e l’auto-produzione. E' dunque il lavoro sociale oggettivato nella merce che ne decide la natura.

Ma questa natura è duplice. Il carattere duplice della merce deriva dal fatto che essa non è immediatamente sociale. Essendo la divisione del lavoro non pianificata, la socializzazione del lavoro è qualcosa di non diretto. La merce diviene sociale, passando per lo scambio.

La duplicità deriva anche dalla duplicità del lavoro. Il lavoro con cui vengono prodotte le singole merci è un lavoro concreto, ma la sua natura di lavoro sociale generale viene riconosciuta, quantitativamente, quando la merce arriva sul mercato. A questo aspetto della misurazione era già arrivato anche Aristotele che spiegava, come riportato da Marx: per aversi scambio si deve avere equivalenza e dunque commensurabilità. Non basta perciò riconoscere una identica sostanza in tutte le merci, il lavoro astratto, esso va anche misurato e tale misura – il tempo di lavoro necessario medio – costituisce la grandezza di valore.

A questa analisi, che appunto era già nel pensiero del grande filosofo greco, Marx aggiunge la dialettica. La duplicità delle merci non sta nell’aversi due aspetti coesistenti, semplicemente paralleli. Questi due aspetti sono tra di loro in un rapporto di unità dialettica, si negano dunque vicendevolmente e insieme si co-implicano.

La natura di oggetto concreto della merce deve essere negata per aversi lo scambio, così come il lavoro concreto che l’ha creata è negato dalla sua dimensione metrica di lavoro astratto. Lo scambio oggettiva la duplicità e incorpora il feticismo. Se la merce è per sua natura duplice, la duplicità genera inevitabilmente reificazione, ovvero la negazione della sua natura sociale, la convinzione feticistica che si tratti di un puro oggetto.

Il carattere feticistico delle merci è appunto questo: l’idea che si tratti di beni e che gli uomini se li scambino in quanto beni, laddove ciò che gli uomini davvero scambiano sono i rapporti tra di loro, la vita stessa. La strada intrapresa dalla teoria borghese era dunque obbligata. Marx spiega perché essa ha preso la strada del soggettivismo psicologista, delle apparenze:

“Il senso della società borghese consiste appunto in questo, che a priori non ha luogo nessun cosciente disciplinamento sociale della produzione. Ciò che è razionale è necessario per la sua stessa natura, si impone soltanto come una media che agisce ciecamente. E poi l’economista volgare crede di fare una grande scoperta se, di fronte alla rivelazione del nesso interno, insiste sul fatto che le cose nel loro apparire hanno un altro aspetto. Infatti egli è fiero di attenersi all’apparenza e di considerarla definitiva. A che serve allora una scienza?

Ma qui la faccenda ha ancora un altro sfondo. Assieme alla introspezione nel nesso crolla, di fronte alla rovina pratica, ogni fede teorica nella necessità permanente delle condizioni esistenti. Qui vi è dunque l’assoluto interesse delle classi dominanti di perpetuare la spensierata confusione.”[13]

Impigliata nelle apparenze, la scienza borghese rinuncia a spiegare la radice dei processi sociali e rimane alla loro superficie. Poiché la legge del valore non si pone come oggetto immediato della conoscenza, la ignorano e si limitano a studiare i prezzi, la “legge della domanda e dell’offerta”, l’utilità.

Questa confusione di metodo e di sostanza degli economisti non è solo un problema di reificazione scientifica. E' anche un problema politico. Scoprire il funzionamento della legge del valore al di sotto della superficie della società borghese significa scoprire il segreto dell’evoluzione storica e dunque anche della caducità, della contingenza di questa società.

Viceversa, l’utilità è un concetto totalmente generale e astratto tanto da poter ben racchiudere ogni forma di vita. Ad esempio, la propensione incoercibile delle piante a orientare le radici verso il centro della Terra e il fusto verso il Sole è indubbiamente un processo definibile come la massimizzazione dell’utilità che luce e terreno forniscono alla pianta. La pianta ottimizza le proprie risorse come qualsiasi consumatore ligio all’economia neoclassica.

Secondo la logica di Böhm-Bawerk, l’utilità in quanto più generale fornisce una base “migliore” per comprendere la società. Al contrario, ne impedisce ogni comprensione. Böhm-Bawerk critica l’astrazione fatta da Marx, ma non la capisce. Non comprende infatti che una merce non è un qualsiasi prodotto, ma il prodotto della divisione sociale del lavoro giunta a un certo grado di sviluppo.

Dunque sostenere che l’utilità è una un’estensione euristica maggiore non implica nulla. In primo luogo perché, come visto, l’utilità non implica scambiabilità e nemmeno un valore. Vi sono molteplici beni e servizi utili senza valore. In secondo luogo, perché non si analizzano i rapporti che nelle società mercantili vi sono tra valori d’uso e di scambio. Ad esempio, il fatto che si distruggono derrate alimentari per tenere alti i profitti mentre milioni di persone muoiono di fame è una prova definitiva del dominio del valore di scambio sul valore d’uso. Che questi alimenti abbiano un valore d’uso per gli indigenti è auto-evidente, eppure questi beni non possiedono valore di scambio, o meglio non permettono al complesso della produzione agro-alimentare di possederne a sufficienza. Dunque sono buttati. L’economista austriaco, insistendo sul valore d’uso rimane invischiato nel feticismo delle merci: i rapporti tra uomini schiacciati dai rapporti tra beni.

Alle posizioni austriache rispose un giovanissimo Hilferding (sia Il capitale finanziario che la risposta a Böhm-Bawerk furono scritti prima che compisse 25 anni)[14]. L’esponente socialdemocratico comincia dimostrando l’inutilità di una teoria del valore-utilità: quando si scambia una merce significa che essa ha sì un valore d’uso per altri ma anche che non ne ha più per il suo possessore:

“Che tale merce sia utile ad altri è una premessa della sua scambiabilità; ma essendo per me inutile, il valore d’uso della mia merce non è in alcun modo una misura neppure della mia valutazione individuale, tanto meno poi una misura per una grandezza oggettiva di valore. Non serve a nulla dire che il valore d’uso risiede nella capacità di questa merce di esser scambiata con altre merci. Infatti, ciò significa che la grandezza del “valore d’uso” è data ora dalla grandezza del valore di scambio, non già che la grandezza del valore di scambio è data dalla grandezza del valore d’uso”[15]

Ecco perché una teoria che si basi sul valore d’uso per spiegare l’economia capitalistica non ha alcun senso: che utilità ha per il proprietario della fabbrica di scarpe il milionesimo paio di scarpe? Nullo e perciò non dovrebbe costare niente, se si producesse ai fini dell’utilità che ricava dal bene. Il fatto è che storicamente avviene “la separazione fra l’utilità delle cose per il bisogno immediato e la loro utilità per lo scambio. Il loro valore d’uso si separa dal loro valore di scambio” (cit., p. 118) e lo sussume completamente. Quanto alla critica di aver escluso le altre proprietà delle merci, osserva Hilferding:

“Nella maggior parte dei casi, le cose debbono essere prima lavorate per diventare utili. All’inverso, per giudicare dell’utilità di una cosa è indifferente sapere se è costata lavoro e quanto. Il fatto di essere un prodotto del lavoro non fa ancora di un bene una merce. Ma soltanto come merce un bene è determinato in modo antitetico come valore d’uso e come valore. Ma un bene diviene merce soltanto quando entra in relazione con altri beni, relazione che diviene visibile nello scambio; e la valutazione quantitativa appare come il valore di scambio del bene. Così la proprietà di fungere da valore di scambio crea il carattere di merce del bene. Una merce non può tuttavia riferirsi da sola ad altre merci: questa reciproca relazione oggettiva dei beni può soltanto essere espressione del rapporto personale dei loro possessori. Come possessori di merci, essi sono però anche portatori di determinati rapporti di produzione. (…) La merce è dunque espressione economica, cioè espressione di relazioni sociali di produttori indipendenti gli uni dagli altri, nella misura in cui tali relazioni sono mediate dai beni. Ora la contrapposta determinazione della merce come valore d’uso e come valore, il suo contrasto quando si manifesta come forma naturale o come forma di valore, si dimostra ora un contrasto tra la merce che si presenta da un lato come cosa naturale e dall’altro come cosa sociale. (…) La merce è una unità di valore d’uso e di valore, soltanto il modo di giudicare è duplice: in quanto cosa sociale è oggetto di una scienza sociale, cioè dell’economia politica. Dunque oggetto dell’economia politica è il lato sociale della merce…” (cit., p. 120)

Il prezzo contiene nel senso che esprime determinate relazioni sociali. La teoria del valore è l’espressione di tali rapporti. A prescindere dal “lavoro contenuto” originariamente nella merce, senza lavoro la merce non ricade nella divisione del lavoro:

“la merce può essere espressione di rapporti sociali soltanto in quanto essa stessa viene considerata un prodotto della società, una cosa sulla quale la società ha impresso il suo sigillo. (…) i membri della società possono avere tra di loro una relazione economica soltanto se lavorano gli uni per gli altri. Questa relazione materiale si esprime come forma storica nello scambio di merci. Il prodotto totale del lavoro si rappresenta come valore totale, che nella singola merce appare quantitativamente come valore di scambio.

Se la merce per la società è un prodotto del lavoro, tale lavoro ora acquista per questa via il suo preciso carattere di lavoro socialmente necessario (…). Così dal punto di vista economico i lavori privati appaiono piuttosto il contrario: cioè lavori sociali. Le condizioni del lavoro creatore di valore sono dunque determinazioni sociali del lavoro ossia determinazioni di lavoro sociale.” (cit., p. 121)

E dunque:

“il lavoro è il principio del valore, e la legge del valore è una realtà perché il lavoro è il legame sociale che tiene insieme la società scomposta nei suoi atomi, e non perché sia il fatto tecnicamente più rilevante. Prendendo come punto di partenza il lavoro socialmente necessario, Marx è in grado di scoprire il meccanismo interno di una società basata sulla proprietà privata e la divisione del lavoro.” (cit., p. 124)

La teoria del valore serve dunque a capire come la società divide il proprio lavoro complessivo tra le produzioni dei vari beni. Tale divisione implica scambi regolari, ma per scambiare occorre un terreno comune: i lavori privati vengono considerati solo se creano valore sociale, solo in quanto sono specificazioni del lavoro sociale complessivo. Ecco perché la merce è un prodotto sociale: è il risultato della divisione sociale del lavoro e dei rapporti di produzione.

Per questo la teoria del valore è l’essenza stessa della teoria economica: “dacché il lavoro nella sua figura sociale diviene misura del valore, l’economia si costituisce come disciplina storica e come scienza della società.” (cit., p. 123). Quando l’economia ha rifiutato la teoria del valore-lavoro, è finita come scienza.

Le altre obiezioni mosse da Böhm-Bawerk alla teoria del valore-lavoro dimostrano sempre la confusione tra il concetto di valore d’uso e di valore di scambio. L’economista austriaco contesta l’idea marxiana (e aristotelica) dello scambio come relazione tra equivalenti.

Per Böhm-Bawerk non c’è equilibrio perché parte, da bravo neoclassico, dal valore d’uso: “là dove regnano l’uguaglianza e l’equilibrio perfetto non subentra, di solito non avviene alcuna variazione dello stato di quiete esistente” (cit., p. 63). E' ovvio che se si scambia un orologio per un paio di scarpe c’è una modificazione nel valore d’uso del bene scambiato, altrimenti non si scambierebbe. Ma il punto è che se le scarpe non valessero obiettivamente, socialmente, come l’orologio, il proprietario dell’orologio non accetterebbe lo scambio. Per usare la famosa formulazione di Marx, il capitalismo è dominato dallo schema D-M-D’ e non più M-D-M, dunque, è ovvio che si scambiano non cose qualitativamente uguali ma merci equivalenti in valore: l’uguaglianza è tra valori sociali delle merci, non tra utilità o qualità concrete della cosa.

L’economista austriaco contesta anche il concetto di lavoro complesso come lavoro semplice “moltiplicato”. Secondo Marx, il lavoro qualificato è pagato di più perché il costo sociale della sua riproduzione è maggiore (per i costi di formazione, ad esempio).

A questa idea, a dire il vero abbastanza ovvia, Böhm-Bawerk fa una curiosa obiezione: il lavoro complesso non vale come lavoro semplice moltiplicato perché valere non è essere e “la teoria mira all’essenza delle cose”.

Tale affermazione contiene una contraddizione e un errore. La contraddizione è l’essenzialismo che suona stonato in bocca a un economista neoclassico che critica la teoria del valore marxiana perché non si riduce all’analisi dei prezzi, alla superficie delle cose[16].

L’errore è l’identificazione delle qualità di una merce (sia essa anche il lavoro) con il suo valore. Se un chiodo vale un euro, è un euro? Che significa in concreto? Sarebbe come dire che un chilo di grano deve costare come un chilo d’oro perché sono tutti e due un chilo. Di nuovo, anche questa critica si riduce alla totale confusione che gli economisti borghesi fanno tra valore d’uso e valore di scambio.

Il primo e il terzo libro del Capitale. Valori, prezzi e il saggio medio del profitto

Non fu dato a Marx di rifinire e pubblicare il III volume del Capitale. Sebbene schiere di studiosi abbiano criticato i criteri redazionali di Engels, e pur dando per scontato che il lavoro finito di Marx sarebbe stato migliore, rimane il fatto che ciò che Marx volesse dire nel rapporto tra valori e prezzi è chiarissimo, per chiunque voglia comprenderlo e abbia letto non solo il III libro ma la complessiva opera marxiana in argomento[17].

Ribaltando l’osservazione fatta per criticare Marx su un altro punto, e cioè che “la teoria mira all’essenza delle cose”, su questo punto Böhm-Bawerk non si occupa affatto dell’essenza del problema, preferendo rimanere alla contraddizione del nesso esterno tra valori e prezzi. Vigono i prezzi di produzione, ovvero il fatto che nel capitalismo a ogni quota di capitale, a prescindere dalla sua composizione, spetti un identica remunerazione, e dunque massa di profitto e che ciò cozzi prima facie con l’originaria estrazione di plusvalore.

Accontentandosi di rilevare la contraddizione, Böhm-Bawerk osserva che “la teoria del saggio medio del profitto e dei prezzi di produzione non si concilia con la teoria del valore. Questa è un’impressione che, a mio parere, chiunque ragioni secondo la logica non può non ricavare” (cit., p. 27) e da tale considerazione ricava la famosa predizione:

“Il sistema marxiano ha un passato ed un presente, ma non ha un futuro durevole. (…) Lo spirito umano può lasciarsi suggestionate momentaneamente ma non in modo permanente da un’abile retorica. A lungo andare, riacquistano validità soltanto e sempre i dati di fatto, cioè una solida concatenazione non di parole e di frasi ma di cause e di effetti." (cit., pp. 108-109)

Ora, né Marx ne i suoi successori scientifici hanno mai negato che la contraddizione esista, al contrario, essa è indispensabile al funzionamento del capitalismo. Senza tale contraddizione non vi sarebbe innovazione tecnologica e il sistema sarebbe crollato da tempo.

La teoria della conoscenza borghese nega l’esistenza di contraddizioni che vengono relegate nel campo delle aberrazioni logiche. Per i marxisti invece anche le cose più semplici e scontate come la vita e il movimento sono un insieme di contraddizioni, che la logica formale non può risolvere. Marx non si strappò i capelli quando trovò la contraddizione perché appunto la trovò e non se la inventò.

La contraddizione è il risultato di un processo storico reale, non il cozzare di idee contrapposte nella mente di uno scienziato, sia pure geniale. In quanto reale la contraddizione viene risolta, ovvero superata, nel reale ed è da lì che occorre partire: la teoria deve vedere come la storia e la società hanno concretamente superato, sintetizzato la contraddizione e registrarlo. Tentare di eliminare la contraddizione può darci una teoria più logica, ma sbagliata.

E' vero: valore e prezzo di produzione sono due realtà differenti. Il valore determina il movimento generale della società, i prezzi di produzione il riproporzionamento del profitto tra i settori. Lo stesso Böhm-Bawerk sintetizza abbastanza correttamente il ragionamento di Marx come segue:

“La legge del valore determina il valore complessivo di tutte le merci prodotte nella società; il valore complessivo delle merci determina il plusvalore complessivo in esse contenuto; quest’ultimo, ripartito tra il capitale sociale complessivo, regola il saggio medio del profitto; questo, applicato al capitale impiegato per la produzione di una singola merce, frutta il profitto medio concreto che, finalmente, entra come elemento nel prezzo di produzione della suddetta catena.” (cit., p. 51)

Secondo l’economista austriaco ciò significa che siccome il prezzo di produzione diverge normalmente dal suo valore, “nella determinazione del plusvalore complessivo interviene perlomeno una causa determinante estranea alla legge del valore” (cit. p. 53).

Al contrario, la legge del valore, nell’epoca della concorrenza capitalistica, è la legge dell’uguaglianza del saggio (tendenzialmente calante) del profitto. Il modo di esistere della legge del valore ne è una negazione, per certi versi, ma una negazione dialettica, cioè una negazione-continuazione. Alla base del funzionamento della legge vi è la concorrenza tra i molti capitali.

Ovviamente non si può comprendere tale funzionamento se si riduce la concorrenza a una specie di istinto, come fa Böhm-Bawerk che dice: “la “concorrenza”…è una sorta di nome collettivo per tutti gli impulsi e i motivi psichici che regolano il comportamento delle parti sul mercato e che perciò influenzano la fissazione dei prezzi” (cit. p. 83), una sorta di pulsione dunque e non, come per Marx, un processo sociale in base al quale funziona una società in cui i mezzi di produzione sono nelle mani della classe borghese.

Così interpretata la concorrenza è davvero “esterna”, come la “domanda e l’offerta”, questo binomio con cui si spiega tutto e niente, alla legge del valore. Il problema invece è di comprendere lo sviluppo della società mercantile quando la produzione viene piegata all’unico scopo di massimizzare i profitti. Poiché i capitalisti stanno di fronte tra loro in base al capitale posseduto, la concorrenza, quando funziona liberamente, ridistribuisce tra di loro il plusvalore originariamente creato nella produzione. il plusvalore esiste in potenza nella singola merce, ma viene validato socialmente quando questa viene venduta e il prezzo di mercato, pur senza oscillazioni, deriva dalla massa del capitale impiegata.

Böhm-Bawerk rifiuta tutto ciò e sostiene che alla fine Marx scelse il lavoro come fonte del valore prima di ogni indagine induttiva o deduttiva per ragioni politiche e ideologiche. Poi partì alla ricerca delle pezze d’appoggio che fra l’altro non trovò. Si dimentica che Marx aveva preso il lavoro come fonte del valore e dunque sua misura in prima approssimazione dai classici, ed è ridicolo sostenere che Smith e Ricardo avessero formulato la teoria del valore-lavoro mossi da intenti anticapitalistici.

Di nuovo, a tali argomentazioni risponde il giovane Hilferding che inizia spiegando che quando Marx pubblica il primo volume del Capitale aveva già scritto anche il terzo:

“Quanto alla ritirata [di Marx], coloro che ne parlano dimenticano che il primo volume fu pubblicato soltanto dopo che era stato terminato il capitolo del terzo volume contenente il punto in discussione. (…) Parlare quindi di una ritirata significa attribuire a Marx di aver proceduto per un miglio e quindi di essere arretrato di un miglio, per poter rimanere in un determinato punto. Ma è proprio questa la concezione che l’economia volgare ha dell’essenza del metodo dialettico che rimane per essa un mistico abracadabra, giacché non riesce mai a vedere il processo bensì soltanto il risultato finito.” (cit., p. 140)

La contraddizione tra la teoria del valore tout court e i prezzi di produzione non è comprensibile, come si è detto, senza capire la dialettica. Il fatto che solo la parte variabile del capitale crei valore è vero ma inopponibile tra capitalisti. Questo implica che i settori in cui la composizione organica del capitale è più alta saranno premiati da questa “indifferenza”.

Ma l’aspetto decisivo, spiega Hilferding, è che la teoria dei prezzi di produzione non viola la legge della produzione del valore, che sancisce che il profitto nasce nella produzione. Il prezzo aggregato è uguale al valore aggregato proprio come il profitto aggregato corrisponde al plusvalore aggregato. Semplicemente:

“La ripartizione del plusvalore non avviene secondo la spesa si lavoro che il singolo produttore ha impiegato nella sua sfera per produrre plusvalore, ma si regola sull’entità del capitale anticipato.” (cit., p. 141)

Questo cambiamento è decisivo per comprendere lo sviluppo del capitalismo ma non modifica in nulla l’origine del valore e sarebbe anche superficiale parlare di “deviazione” della legge del valore imposta dal capitalismo, come se esistesse una legge pura, pre-esistente storicamente.

Il capitalismo nega e insieme conduce al suo massimo grado di funzionamento la legge del valore. Tale sviluppo della legge del valore nella legge dei prezzi di produzione non è ovviamente casuale, ma indispensabile per lo sviluppo delle forze produttive, anzi è questo stesso sviluppo che fa sì che il capitale – nel senso di macchine e mezzi di produzione – acquisti un peso crescente, il che si riflette nel metodo con cui la società “premia” il produttore più innovativo, quello a composizione organica maggiore.

Non a caso, nella critica a Marx Böhm-Bawerk astrae sempre dalla composizione organica del capitale e cioè dal fatto che il capitale ha due componenti delle quali solo una è produttrice di valore. Seguendo tale strada, si impedisce la comprensione del ragionamento marxiano e soprattutto dello sviluppo del capitalismo.

I “difensori” di Marx e la crisi della teoria borghese

Finora, come visto, non abbiamo trovato alcun punto di accordo con le argomentazioni dell’economista austriaco. Qui dobbiamo citare l’unico: la critica alla “difesa” del pensiero di Marx operata da Sombart e altri teorici idealisti. Sostennero infatti, questi teorici vicini al neo-kantismo, che la teoria del valore vale come concezione e non come dato di fatto empirico. Ma giustamente Böhm-Bawerk rileva che Marx stesso non potrebbe che rifiutare una simile interpretazione idealista. Se la teoria del valore non corrisponde a processi economici reali a che servirebbe?

"nella scienza anche le “idee” e la “logica” non possono con tutta disinvoltura astrarre dai dati di fatto. (…) è lecito ogni volta astrarre soltanto dalle peculiarità irrilevanti per l’esame del fenomeno da studiare, ma sottolineo, realmente ed effettivamente irrilevanti” (cit., p. 101)

Siamo d’accordo, a parte la fiducia positivista nei “fatti”, e pur tenendo conto che la concezione marxiana del rapporto tra fatti e teoria (la famosa dialettica dell’astratto e del concreto, l’astrazione determinata) è infinitamente superiore e più complessa di simili banalità. Il problema è che l’economista austriaco non è la persona più indicata per difendere il metodo scientifico dal soggettivismo. Infatti osserva:

“Questi [Sombart] vorrebbe in ultima analisi ricondurre ad una polemica metodologia di principio il contrasto che sussiste tra il sistema marxiano da un lato e le concezioni del sistema teorico opposto e segnatamente dei cosiddetti economisti austriaci dall’altro. Marx sarebbe infatti sostenitore di un estremo oggettivismo mentre noi propugneremmo un soggettivismo che sfocia nello psicologismo.” (cit., p. 105)

Per lo stesso economista austriaco questa è un’osservazione “sottile e intelligente” ma inadeguata, nel senso che riducendo la polemica a diatriba di metodo ne perde la sostanza. Dal canto suo, contro Sombart, Hilferding ribadisce come “il livellamento dei diversi saggi del profitto ad un solo saggio del profitto sia il prodotto di un lungo processo”. Non è dunque un “concetto” nel senso di un’invenzione della fervida mente di Marx, è un fatto e per comprenderlo occorre analizzare il capitalismo come una totalità organica:

“Proprio il fenomeno delle variazioni del prezzo di produzione ci ha dimostrato come i fenomeni della società capitalistica non possano essere compresi se la merce o il capitale vengono esaminati isolatamente. Soltanto il rapporto sociale che intercorre tra di essi e le sue modificazioni dominano e chiariscono i movimenti dei singoli capitali che sono unicamente parti del capitale sociale complessivo.” (cit., p. 165)

Böhm-Bawerk, al contrario, subordina le sue analisi “alla propria mentalità individualistica, e perviene così a contraddizioni che attribuisce alla teoria”. Per Böhm-Bawerk il lavoro crea valore nel senso che nel determinare la valutazione delle merci si fa una specie di valutazione, di stima del lavoro occorso per produrle, tornando così a Smith. Ma seguendo questa interpretazione inevitabilmente si arriva alla conclusione che la teoria sia incoerente:

“Se si identifica il valore delle merci con la valutazione che di tali merci danno gli individui, appare arbitrario assumere proprio il lavoro come l’unico fondamento di tale valutazione. Dal punto di vista soggettivistico, che è quello su cui Böhm fonda la sua critica, la teoria del valore del lavoro appare quindi invalidata a priori.” (cit., p. 166)

E' questa impostazione che impedisce all’austriaco di vedere che “a Marx non importa nulla della motivazione individuale della valutazione, perché i proprietari dei prodotti non hanno fatto nessuna fatica, mentre hanno fatto fatica coloro che li hanno fabbricati ma non li possiedono”. L’idealismo impedisce agli economisti di comprendere la teoria del valore, e il legame che sussiste tra teoria e storia:

“secondo il metodo dialettico, lo sviluppo teorico procede dovunque parallelamente a quello storico, in quanto lo sviluppo della forza produttiva sociale nel sistema marxiano si presenta una volta nella sua realtà storica e una seconda volta come rispecchiamento teorico.” (cit., p. 174)

All’epoca, quando era ancora marxista, Hilferding sapeva ben comprendere che il soggettivismo non era un’opzione teorica come un’altra, ma l’essenza della crisi del capitalismo, della parabola discendente della borghesia e parlando delle concezioni di Böhm-Bawerk sostiene: “questa teoria economica equivale alla negazione dell’economia; l’ultima replica dell’economia borghese al socialismo scientifico è l’autodistruzione dell’economia politica”. Tragicamente, per sé e per il proletariato europeo, negli anni a venire non ne trasse le dovute conclusioni politiche.

La critica alla teoria soggettivista

Mentre i teorici socialdemocratici giustificavano ideologicamente le stragi della prima guerra mondiale, la tradizione di critica scientifica all’economia borghese ricadde sulle spalle dei bolscevichi.

Per l’argomento della discussione risulta di particolare interesse un notevole libro di Bucharin scritto nel ’14 ma poi pubblicato solo nel 1926, L’economia politica del rentier. In quest’opera il dirigente rivoluzionario analizza approfonditamente i temi centrali della teoria austriaca dimostrandone la miseria e l’incoerenza teorica.

Bucharin si pone l’obiettivo di analizzare queste teorie in quanto gli austriaci erano ritenuti “i più forti avversari del marxismo”. Il fatto che la più coerente teoria economica borghese sia tenacemente soggettivista riflette un cambiamento profondo nella natura della borghesia che in quanto ormai parassitaria, non sa nulla e non vuole sapere nulla della produzione, è individualista, odia la classe operaia e tutto ciò che sa di materiale e di obiettivo. E' dunque soggettivista.

Bucharin spiega che, storicamente parlando, questi economisti non inventarono nulla. Tutto quello che dissero lo aveva già anticipato addirittura il sensismo di Condillac, che nella sua opera Le commerce et le gouvernement considérées relativement l’un à l’autre, uscita a Parigi nel 1795, parla già di utilità e rarità e distingue i beni a seconda che assecondino utilità presente o futura. Dopo l’abate francese, ripetono quei concetti molti altri, tra cui, curiosamente il padre di Walras, Auguste, che pubblica nel 1831 De la nature de la richesse et de l’origine de la valeur nonché l’economista tedesco Gossen che dà alla teoria del valore-utilità una formulazione rigorosa già negli anni ’50. Solo che nessuno li prese sul serio. Il perché non ha ovviamente a che vedere con la teoria, ha a che vedere con la storia.

La critica agli austriaci concerne la teoria del valore e la conseguente teoria del profitto, dato che lo stesso Böhm-Bawerk, correttamente, osserva che “la teoria del valore forma il centro dell’intera dottrina dell’economia politica”.

Bucharin è anche consapevole del tema dell’intraducibilità teorica che anticipa osservando: “se la concezione del valore è completamente differente in tutti gli aspetti…se non ha affatto punti di contatto con quella di Böhm-Bawerk, come sarà possibile formularvi delle critiche?”.

Il teorico bolscevico analizza il cuore idealista della dottrina austriaca, mostrando quanto il soggettivismo si insinui ovunque nei loro ragionamenti a partire dagli esempi. Gli austriaci iniziano a discutere della teoria del valore con esempi tipo “un uomo è seduto in una sorgente” (così inizia letteralmente Böhm-Bawerk), oppure, come fa Karl Menger con “gli abitanti delle foreste”, o “una città assediata”, robinsonate senza capo né coda.

Non si rendono conto che senza merci non c’è valore. Società mercantile significa organizzazione della produzione. Nessun problema di questo tipo può sorgere in società senza merci, siano esse dei cacciatori primitivi o lo “Stato socialista” di cui parlano gli austriaci.

La teoria economica sorge solo con lo sviluppo delle società mercantili e, sostiene Bucharin, muore con esse: “in una società socialista, l’economia politica perderà la sua ragion d’essere: rimarrà solo “geografia economica”, essendo scomparso ogni feticismo. Il capitale, per Marx, è una relazione sociale che appartiene a un determinato grado di sviluppo della società, ha un carattere sociale definito. Non è la somma dei mezzi di produzione.

Al contrario, Böhm-Bawerk parla di capitale come di “una somma di prodotti che servono come mezzi per l’acquisto di merci”. Gli austriaci sono così costretti a distinguere tra un valore soggettivo, che attiene l’opinione del soggetto, e il valore oggettivo che riguarda il “risultato obiettivo” che si ottiene con una merce. Ma che rapporto c’è tra soggettivo e oggettivo? Da dove vengono i “bisogni”? E come misurare l’utilità marginale (ordinale e individuale)? Bucharin ritiene che questa difficoltà non possano essere superate. Ottanta anni e passa di teoria economica gli hanno dato ragione. Il problema rimane irrisolto.

In base a questa teoria del valore, del tutto vacua, sorge una teoria del profitto altrettanto astratta e astorica, in cui il capitale è il fondo con cui acquistare mezzi di produzione dunque eterno. Il profitto deriva dal fatto che il capitalista può attendere che la produzione si compia, l’operaio no. Insomma, il capitalista guadagna anticipando i soldi e i profitti derivano dalle imperfezioni del mercato del credito, a pensarci bene. Il bene futuro quota a sconto.

Ecco la profonda innovazione di Böhm-Bawerk, quella che lui stesso chiama “il nucleo e centro della sua teoria dell’interesse”. Ovviamente è spazzatura. La produzione non è sequenziale ma si trova in ogni stadio possibile nello stesso tempo. Se gli austriaci usassero un decimo del rigore con cui pretendono di analizzare Marx nel dare un’occhiata alle proprie teorie, ne constaterebbero la totale incongruenza.

Engels spiegò che la storia della filosofia poteva sintetizzarsi in una lotta tra materialismo e idealismo, con una serie di scuole (agnostiche, sincretiche) a cercare un’impossibile mediazione. Lo stesso succede nella storia della teoria economica. Bucharin analizza la scuola del cosiddetto marxismo legale russo, che ha prodotto economisti di grande rilevanza tra cui il più famoso è forse Tugan-Baranovsky il quale sostiene una teoria duplice: “le sue teorie investigano due fasi diverse dello stesso processo di valutazione economica. La teoria dell’utilità marginale spiega i fattori soggettivi della valutazione economica, mentre la teoria del valore-lavoro spiega i suoi fattori obiettivi”.

Ovviamente questo Giano bifronte teorico non va da nessuna parte. Ma criticando il soggettivismo nemmeno basta, come fanno alcuni sedicenti marxisti, sostenere che per Marx la teoria del valore è “obiettiva” in quanto non si occupa del perché uno scambia, cioè delle ragioni del soggetto.

E' una ben misera replica. Il punto è che il processo produttivo crea le ragioni stesse per cui un individuo ritiene di scambiare liberamente. La società non decide solo del valore dei beni ma anche dei valori che circolano nella testa delle persone. Il soggettivismo è un processo obiettivo. Come le preferenze, l’utilità, la “scarsità”.

Per questo, Bucharin può concludere che la teoria soggettiva del valore riflette l’epoca della trasformazione della borghesia in classe di rentier: “la teoria “austriaca” esprime, secondo noi, l’ideologia del borghese eliminato dal processo produttivo, del borghese sul viale del tramonto”[18].

La produzione e dunque il lavoro, scompaiono dall’analisi perché i rentier non sono legati alla produzione. Con la nascita delle società per azioni, dei trust, della borsa, tutti i capitalisti divengono “pigri e oziosi”, tutti acquistano la psicologia del rentier. Non cercano più legami obiettivi tra le classi (il valore) e tra di loro (i prezzi), ma solo di eternare la loro posizione soggettiva.

In questo ambito, l’incomprensione del marxismo è implicita, inevitabile. Il materialismo rifiutato. Ovviamente, anche se il soggettivismo è un processo obiettivo non si deve per ciò stesso accettarlo. Se pure l’incomprensione delle ragioni della classe operaia costituiscono un fatto e non un vezzo, pure non stiamo parlando di una legge ineluttabile quasi si trattasse del movimento dei pianeti. Con un po’ di onestà (e la fortuna di avere genitori che conoscevano e apprezzavano il marxismo), il grande economista contemporaneo William Baumol poté giungere a comprendere che i pregiudizi degli economisti quando si occupano del Capitale “sono solo un riflesso dei nostri pregiudizi come borghesi”[19], ma si tratta di eccezioni, peraltro svanite dopo la caduta del Muro di Berlino.

Tuttavia, occorre una considerazione finale. Sebbene sia corretto sostenere, come fanno in periodi diversi Hilferding e Bucharin, che l’economia borghese diviene idealista seguendo la parabola discendente della classe di cui rappresenta la religione, è altrettanto vero che tutta la teoria economica rimane impigliata nel feticismo, non riesce a comprendere il fondo della questione, la duplicità delle merci, del valore, del lavoro: anche nel periodo di ascesa del capitalismo, vi erano limiti obiettivi alla comprensione che i suoi rappresentanti scientifici avevano del sistema. Come osserva Marx, anche Ricardo ha le sue robinsonate.

Bibliografia

  • Böhm-Bawerk E., Hilferding R., Sweezy P. M., Economia borghese ed economia marxista
  • Böhm-Bawerk E., La teoria dell’interesse di Marx
  • Bucharin N., L’economia politica del rentier
  • Grossman H., Marx, l’economia politica classica e il problema della dinamica
  • Marx K., Il capitale
  • Marx K., Lettere a Kugelmann
  • Marx K., Critica al programma di Gotha
  • Wieser F., Il valore naturale

[1] “La mia teoria del valore, del denaro e del capitale era nei suoi tratti fondamentali il necessario svolgimento ulteriore della dottrina dello Smith e del Ricardo”, Poscritto alla 2° edizione del Capitale.  (torna su)

[2] Ciò non significa che Marx, come pretesero schiere di economisti “di sinistra”, sia stato semplicemente un economista classico. Il rapporto tra classici e Marx è piuttosto di una continuazione dialettica, cioè una negazione che però coglie e mantiene i tratti euristicamente fecondi della vecchia teoria, come, in altro campo, il marxismo fa con la dialettica hegeliana. Per una posizione che privilegia l’aspetto della rottura su quello della continuità si veda H. Grossman, Marx, l’economia politica classica e il problema della dinamica. (torna su)

[3] G. Carandini, Lavoro e capitale nella teoria di Marx, p. 12. (torna su)

[4] Si veda F. Wieser, Il valore naturale, (1889). A dimostrazione della crassa disonestà intellettuale del fondatore della scuola austriaca basti questa citazione: “i socialisti vorrebbero insegnarci che il valore di ogni sorta di lavoro deve essere valutato semplicemente in base al tempo; …il che significa che un lavoro diligente è considerato alla stessa stregua di un lavoro brutto e un lavoro qualificato è considerato al pari di un lavoro comune” (p. 784). Ovviamente una simile obiezione è stata affrontata decine di volte nei classici. Non serve nemmeno leggere Ricardo o Marx per comprendere quanto sia poco seria, eppure un economista di vaglia la utilizza come una confutazione decisiva. Come osservò Meek: “troppo spesso avviene che degli scrittori mostrino di ritenere che, trattando di Marx, sia lecito trascurare quella dignità accademica che non si permetterebbero di violare trattando di altri economisti” (R. Meek, Studi sulla teoria del valore-lavoro, p. 224). (torna su)

[5] E. Mandel, La formazione del pensiero economico di Marx, p. 181. (torna su)

[6] P. M. Sweezy, Presentazione a Economia borghese ed economia marxista, p. XI. (torna su)

[7] Cit. in V. Vygodskij, Introduzione ai Grundrisse, p. 61. (torna su)

[8] E. Böhm-Bawerk, La conclusione del sistema marxiano, ora in Economia borghese ed economia marxista, p. 7. Tutto il dibattito di cui si parla in questo scritto è stato pubblicato in italiano nel libro citato Economia borghese ed economia marxista nel 1971. In particolare il libro contiene, oltre a una presentazione di Sweezy del 1949, l’articolo di Böhm-Bawerk del 1896, la risposta di Hilferding del 1904 (da questi due sono tratte, salvo quando diversamente specificato, le citazioni) e infine un saggio di L. Bortkiewicz del 1907 di cui in questa sede non ci occuperemo. (torna su)

[9] Tipico, in questo senso, il caso dell’economista italiano di recente scomparso, Paolo Sylos Labini, che nel libro Carlo Marx è tempo di un bilancio ritiene confutato Marx essenzialmente sulla base di brevi estratti da tre lettere personali di Marx. (torna su)

[10] K. Marx, Critica al programma di Gotha, p. 23. (torna su)

[11] E. Böhm-Bawerk, La teoria dell’interesse di Marx, ora in AA VV, La teoria dello sviluppo capitalistico, cit., p. 310 (torna su)

[12] K. Marx, Il capitale, I, cap. 1. (torna su)

[13] K. Marx, Lettere a Kugelmann, lettera dell’11.7.1868. (torna su)

[14]. Il comportamento risoluto e brillante di Hilferding in questa circostanza non può farci dimenticare che “la sua attività, così come quella dello stesso Partito socialdemocratico fu un ininterrotto fallimento” (P. M. Sweezy, Presentazione, cit., p. XVII), come si vide anche nella sfortunata esperienza ministeriale weimeriana che corrispose all’iperinflazione, un episodio che ebbe non poco peso nel favorire l’ascesa nazista, ascesa che peraltro, ancor più colpevolmente, Hilferding sottovalutò al punto da finire arrestato dalla Gestapo e essere ucciso. (torna su)

[15] Cit., p. 117. (torna su)

[16] Non a caso è Marx a dire che la scienza sarebbe inutile se la superficie delle cose coincidesse con la loro essenza. (torna su)

[17] Non ci soffermeremo a lungo su questo punto che abbiamo già trattato in altri saggi presenti sul sito. (torna su)

[18] N. Bucharin, L’economia politica del rentier, (1926), p. 52. C’è da ricordare che, sebbene solo con la prima guerra mondiale la natura parassitaria della classe borghese sia divenuta manifesta anche ai meno accorti, i marxisti lo avevano osservato da molto prima: “il capitalista non ha più nessuna attività sociale che non sia l’intascar rendite, il tagliar cedole e il giocare in borsa” (F. Engels, AntiDuhring, 1878, p. 303). (torna su)

[19] W. Baumol, Wages, virtue and value: what Marx really said, in AA VV, Marx and Modern Economic Analysis, (1991), p. 59. (torna su)

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12/09/2014