LA SVOLTA DI GIOTTO
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LE PRETESE DI GIOTTO
In Italia, le ultime tracce della cultura bizantina si conservarono soprattutto nella pittura religiosa, che venne rivoluzionata da Giotto. Il maggior centro della cultura bizantina, in tutta l'Europa occidentale, era Venezia, dove si cercava di modificare quella tradizione iconografica restando però fedeli, in linea di massima, a certe regole stilistiche fondamentali. Invece in Toscana il superamento fu netto, sia a livello formale che di contenuto. Giotto s'inserisce in una tradizione ben precisa, che trova il massimo di compromesso possibile fra la salvaguardia dei canoni bizantini e le esigenze di modernità della borghesia: quella di Cimabue, che aveva esasperato a tal punto la maniera orientale di dipingere da rendere inevitabile, con Giotto, il suo definitivo eclissarsi. In effetti, la pittura bizantina italiana del XIII sec. rappresentava -agli occhi della borghesia e di quella generazione di artisti sorti in ambito borghese- un passato troppo remoto perché valesse la pena conservarlo limitandosi a modificarlo, attualizzandolo, in alcune sue parti (come appunto aveva fatto Cimabue). L'esigenza che s'imponeva era quella di una revisione radicale e totale dei canoni iconografici tradizionali. Il processo di svecchiamento di questi canoni fu in Occidente molto lento, perché la pittura d'icone era un'arte molto antica e complessa (alcuni studiosi ritengono che le sue origini risalgano alle maschere funebri egiziane): essa implicava non solo una grande perizia tecnica ma anche un'alta spiritualità da parte dell'iconografo (in Oriente il valore di ogni opera pittorica era relativo al modo come essa sapeva conservare la memoria del passato). Nell'Italia caratterizzata, più di ogni altra nazione europea, dallo sviluppo mercantile dei rapporti di produzione, tale pittura rappresentava la conservazione di rapporti sociali anacronistici, basati sul predominio delle classi possidenti e aristocratiche. Lo stesso potere religioso continuava a servirsi di quella pittura in contrasto con il suo progressivo distacco dalla tradizione e dalla teologia bizantina. Se ne serviva non tanto perché credesse nel suo valore artistico, quanto perché nessun'altra pittura era in grado di reggere il confronto. Esisteva quindi una duplice antinomia: una fra pittura bizantina e prassi borghese, un'altra fra pittura bizantina e teologia cattolica. La chiesa romana temeva che un mutamento improvviso di genere artistico potesse compromettere la sua stabilità, ma ben presto si renderà conto (grazie appunto all'impresa di Giotto) che un rinnovamento del genere avrebbe potuto contribuire proprio a tale stabilità. Per superare la tradizione orientale, Giotto recuperò le tradizioni latine naturalistiche dell'Occidente, dando ad esse una significato conforme agli interessi della piccola e media borghesia dell'epoca signorile (affreschi di Assisi). Per poter imporre la sua ricerca, egli approfittò del momento in cui la curia romana commissionò i lavori per la decorazione della basilica superiore di Assisi. All'inizio i lavori vennero eseguiti da alcuni famosi pittori d'ispirazione bizantina, come Cimabue, Duccio, Torriti e altri pittori romani. In seguito, nonostante l'avversione dei seguaci più intransigenti degli ideali francescani di umiltà e povertà, e con l'appoggio di coloro che volevano l'ordine maggiormente inquadrato nell'azione politico-religiosa della curia, Giotto ebbe il nulla osta definitivo. Addirittura fruì della possibilità di diventare unico protagonista del nuovo ciclo, per la parte inferiore della navata, in virtù dell'iniziativa spregiudicata del nuovo generale dei Francescani. La serie giottesca delle storie di Francesco non ha carattere biografico o agiografico, ma concettuale e dimostrativo, pur nel rispetto convenzionale delle fonti storiche e leggendarie dell'epoca. La bellezza della sua arte - dirà giustamente il Petrarca - si afferma più coll'intelletto che con gli occhi. Il suo rinnovamento infatti è soprattutto ideologico e, in questo senso, va considerato superiore a quelli avvenuti nell'architettura e nella scultura di quel periodo. Francesco, nei dipinti di Giotto, non ha l'umiltà disarmante ritratta dal Cimabue, né quel carattere di "unicità" che si riscontra nei pittori della scuola bizantina italiana; egli è piuttosto una persona piena di dignità e autorità morale (la cui azione riformatrice trova un riflesso anche sul terreno politico-istituzionale, in quanto il papato è visto da Giotto come suprema garanzia di ortodossia del movimento francescano). Francesco è in sostanza un riformatore etico-religioso della chiesa, legato a un grande e pacifico movimento, senza pretese politico-eversive, che la curia non avrebbe mai potuto riconoscere. Non è un uomo che rifiuta le norme sociali del convivere borghese proponendo una concezione di vita alternativa, ma è un uomo che si sforza di rendere più accettabile, più umana, la stessa vita borghese. Nella Rinuncia ai beni paterni Francesco appare come se fosse già stato accettato dalla chiesa e, in mezzo agli astanti borghesi, solo il padre (appunto in quanto "padre" e non anche in quanto appartenente a una "classe") si scandalizza. La borghesia cioè sembra già essere consapevole, proprio come la chiesa, che Francesco non sarebbe mai stato un rivoluzionario. Essa era già convinta che la sua scelta di povertà sarebbe stata fatta a titolo individuale, solo sul piano morale, per cui non avrebbe implicato alcun mutamento sociale. Le ambiguità dello stesso movimento francescano potevano facilmente indurre a formulare un'interpretazione del genere. Nel Presepe di Greccio l'intesa fra chierici e notabili è ancora più evidente. (per un'analisi del movimento francescano clicca qui) Nel Dono del mantello al cavaliere povero non v'è traccia della povertà. Il gesto è del tutto isolato. Il postulante non sembra affatto povero e neppure Francesco. Il paesaggio, sullo sfondo, è borghese ed ecclesiastico: i due poteri, che convivono in una felice sintesi, convergono entrambi nella figura centrale del santo. Lo spazio, alla sua sinistra, è stato riempito in maniera infelice da un cavallo a grandezza naturale, che sminuisce l'importanza del santo. Il gesto caritatevole di Francesco peraltro è rituale, formale, quasi dovuto o doveroso, non è spontaneo e neppure nasce da esigenze sociali visibili. Francesco è senza discepoli, al centro, a testimonianza che l'esperienza religiosa borghese può essere vissuta anche in modo del tutto individuale. Giotto infatti ha esaltato l'individuo singolo, legato alla natura, alla storia, alla quotidianità dei rapporti borghesi e, paradossalmente, ha finito col privilegiare il contesto spaziale, la costruzione geometrica, lineare, prospettica. Le parti più importanti e difficili non sono le figure o le teste dei protagonisti ma particolari secondari, decisivi però ai fini della costruzione spaziale. Tutte le sue innovazioni tecniche e stilistiche volevano essere in funzione anti-bizantina: dalla visione plastica realizzata mediante il chiaroscuro, al rapporto tridimensionale delle forme rispetto allo spazio, dall'equivalenza tra figure e natura, alla subordinazione del colore al disegno... Giotto non concesse nulla ai colori vivaci della tradizione orientale, anzi decise di abolire la "luce" (espressa con l'oro), sostituendola con la profondità dello spazio. La sua visione insomma è plastico-spaziale. La pittura bizantina esprimeva, in chiave profetica, il distacco dalle cose terrene per un ideale irrealizzabile nel mondo; la pittura giottesca invece aspira a realizzare una riconciliazione tra ideale e reale in nome dell'esigenze di rinnovamento della borghesia. In luogo della simbologia Giotto preferisce il realismo, in luogo della mistica spiritualità il materialismo e il razionalismo. Questo rinnovamento, di per sé, va considerato positivamente, almeno fino a quando lo sviluppo borghese della società presenta dei tratti progressivi. In effetti, non fa problema che Giotto, alla subordinazione dei personaggi religiosi rispetto all'insieme architettonico del tempio, abbia sostituito la subordinazione di tali personaggi alla società del loro tempo: il problema semmai subentra allorché le contraddizioni della società borghese diventano così acute da richiedere un'alternativa reale. Ecco, se in questo senso si può tranquillamente affermare che Giotto ha saputo togliere all'esperienza religiosa la sua presunta alternatività alla prassi borghese, non si può dire con altrettanta certezza ch'egli abbia anche saputo individuare un'alternativa laica, umanistica, veramente credibile, a tale prassi. Sin dall'inizio egli ha pensato di fare dell'esperienza francescana una proposta di vita meno esigente di quella che in effetti fu, e più alla portata della borghesia. Francesco infatti assume le sembianze, nella sua pittura, non di un portavoce degli oppressi, ma di un mediatore fra masse e potere, ufficialmente riconosciuto sia dal clero che dalla borghesia. Quel "poverello d'Assisi" divenuto tale proprio in seguito a una polemica anti-borghese, che pur mai si radicò in un'opposizione politica esplicita (come ad es. in un Arnaldo da Brescia), si trasforma nella pittura di Giotto in un'istituzione che legittima, seppure dal punto di vista moralistico della piccola borghesia, la società divisa in classi. In pratica la pittura di Giotto poteva benissimo diventare uno strumento utile alla grande borghesia e alle classi egemoni, strettamente legate al potere della chiesa, perché le classi medio-basse -dopo decenni di dura lotta politico-religiosa condotta dai movimenti ereticali- riconvergessero verso le istituzioni. La particolare grandezza di Giotto sta quindi nell'aver saputo superare la crisi della pittura bizantina, che in Occidente (e soprattutto nell'Italia del '200) non rispecchiava più in modo adeguato le caratteristiche dell'esperienza socio-religiosa della borghesia, divenuta classe egemone in molte città e signorie italiane. Egli ha saputo perfettamente riflettere, a livello artistico, la progressiva laicizzazione della religiosità tardo-medievale, ponendo così le basi di tutta la pittura moderna. Tuttavia, il suo realismo e il suo naturalismo umanistico non hanno mai raggiunto l'altissima profondità ideale e spirituale della migliore pittura bizantina, né sono mai riusciti a evidenziare una reale alternativa laica alla concezione di vita borghese. Giotto ebbe la pretesa di "umanizzare" o "laicizzare" la religione, adeguandola alle esigenze della borghesia, ma non è riuscito ad essere coerente con questa sua pretesa: non tanto perché si limitò a dipingere unicamente soggetti religiosi (allora era inevitabile), quanto perché non è riuscito ad andare sino in fondo nel suo originale tentativo di modernizzazione. Lo dimostra il ritorno (seppur limitato) ai moduli bizantini nel soggiorno padovano, ove egli s'accorge che la sua rivoluzione era suscettibile di una strumentalizzazione politica da parte del potere borghese ed ecclesiastico. Egli a Padova (che era influenzata dalla tradizione bizantina di Venezia) mira a superare, ma invano, quella strumentalizzazione accentuando gli aspetti patetici, lirici, sentimentali della propria pittura. In questo periodo fu molto sentito il suo rapporto con Dante, anch'egli profondamente deluso dagli atteggiamenti della classe borghese fiorentina. A Padova insomma c'è già la sfiducia nei confronti dell'agire borghese; c'è già, in nuce, la crisi del '300, ovvero il progressivo rinchiudersi dell'intellettuale e dell'artista borghese nel lirismo soggettivo, aristocratico, lontano dalla storia, dalle vicende concrete del movimento urbano. L'ottimismo epico espresso ad Assisi, sconfitto dalla prosaicità della prassi borghese, si tramuta, nelle pareti della Cappella degli Scrovegni con le storie della Madonna e del Cristo, in uno sconsolato e tragico pessimismo. Il suo capolavoro è il Compianto su Cristo morto, dove disperazione e rassegnazione, pur nella compostezza dei gesti, appaiono totali. Nella Pentecoste il fallimento dell'ideale è così evidente che l'edificio ecclesiastico s'impone di prepotenza sugli apostoli, li schiaccia, li comprime, alcuni di loro vengono addirittura nascosti. La Pentecoste avviene all'interno di un'istituzione già ben definita, chiusa. Nel Bacio di Giuda Gesù sembra che "debba" essere tradito e che la sua volontà si realizzi proprio nel rispetto del destino che gli è stato riservato. La sua estrema compostezza e rassegnazione lo indica. Tutto il resto conta poco, è puramente coreografico. La figura centrale non è Cristo ma Giuda, non è il "bene" ma il "male", non è la "speranza" ma la "disperazione", proprio perché il "bene" non può trionfare su questa terra e Pietro che recide l'orecchio di Malco appare come un illuso. Il gruppo di guardie che catturano Gesù è fermo, compatto, tranquillo, sicuro di vincere: ad esso si oppone soltanto l'incredibile imperturbabilità del Cristo. La riconciliazione di Giotto con la realtà meschina, gretta, della borghesia, si manifesta pienamente a Firenze, negli affreschi di Santa Croce (cappella Peruzzi e Bardi). Il compromesso fra istituzioni e lirismo (vedi anche l'incarico ricevuto da Bonifacio VIII per l'affresco del Giubileo) è cercato da Giotto come una necessità, certo non come un'esigenza. Questa volta a Francesco viene riservato lo stesso destino che a Padova egli riservò al Cristo. Nelle Esequie di s. Francesco appare chiaro che le istituzioni sono interessate solo a servirsi del "fenomeno", del personaggio singolare (un esponente del potere verifica addirittura l'autenticità della stigmata del costato), mentre i discepoli ne compiangono amaramente la morte (fra gli stessi discepoli si distingue chiaramente il gruppo di quelli che piangono dal gruppo di quelli che accettano con tranquillità la morte del santo). Che Giotto fosse un artista abilissimo nei suoi affari è risaputo: "fu forse l'unico artista fiorentino del Trecento che abbia saputo diventare veramente ricco" - ha scritto Antal. Affittava telai a tessitori troppo poveri per procurarsi questi strumenti e ne traeva un profitto annuo del 120%, aggirando così l'accusa d'essere un usuraio. E siccome operava anche come mallevadore di prestiti, se il debitore non era in grado di pagare, procedeva subito per le via legali e si arricchiva a loro spese: nel 1314 si valse di sei legali in atti contro debitori morosi o insolventi. Era di continuo occupato nell'esazione di crediti. D'altra parte Giotto non ebbe mai nulla a che fare col movimento francescano degli Spirituali ma solo con quello dei Conventuali, il potente ordine di frate Elia. Egli si servì della pittura per emanciparsi dalle miserie della vita contadina. * * * L'alternativa alla pittura simbolica bizantina non poteva essere quella realistica di Giotto e dei suoi seguaci rinascimentali. Alla profondità dello spirito umano espresso in forma religiosa (e quindi alienata o illusoria) non poteva essere sufficiente opporre la tridimensionalità, la prospettiva, il chiaroscuro, il realismo delle fattezze umane, il gioco dei volumi... Nella pittura moderna l'uomo ha smesso di guardarsi e ha cominciato a guardare la realtà a lui esterna in maniera matematica, geometrica, spaziale, in cui prima si disegnano le linee rette, oblique, perpendicolari, trasversali, parallele del contenitore... e solo dopo le fattezze umane, il contenuto. L'umano perde di valore, di dignità, non è affrontato più per quello che è. L'umano acquista valore solo nella misura in cui è vestito, anzi travestito, perché incapsulato in una dimensione architettonica, spaziale, che lo sovrasta, lo schiaccia, lo rende una parte nel tutto e non il tutto in ogni singola parte. Prima era il dipinto che guardava lo spettatore e cercava di coinvolgerlo, interrogandolo sommessamente. Ora invece è lo spettatore che guarda il dipinto e solo per cercare una conferma di sé, di quel che già è. La pittura di Giotto pretendeva rappresentare l'uomo per quello che è, ma quello che è, è borghese, ed è un uomo con ideali umanamente poveri, perché di parte, di una classe sociale, non sono ideali universali, autenticamente popolari. Prima l'umano veniva rappresentato per quello che avrebbe dovuto essere e che non riusciva ad essere, se non in misura molto limitata. Si rappresentava non l'umano ma l'idea di umanità, l'ideale cui tendere, ed era un ideale religioso, sospiro della creatura oppressa, sognatrice. Gli sguardi profondi delle icone erano un ideale da raggiungere e irraggiungibile, un compito etico e insieme la consapevolezza di un'impotenza. Alla fine, nella realtà, erano un modo illusorio di compensare le frustrazioni della vita sociale, dominata dai conflitti di classe. Gli sguardi vuoti, ambigui, biechi, ammiccanti, narcisisti dei soggetti borghesi sono di un realismo di basso livello, in cui ci si può riconoscere soltanto pensando che la vita non ha nulla di edificante da trasmettere. |