INTERVISTE CINEMATOGRAFICHE


AGNÈS VARDA, filosofa dell’immagine

AGNÈS VARDA
lunedì 24 ottobre 2005

La cosa più affascinante, con le immagini, è che la gente non dice mai quello che ti aspetti, ognuno ha la propria visione. Poi il contributo dell'osservatore scorre via, come un'onda, e resta solo la foto, con il suo mistero. E' proprio questo rapporto con l'immagine che amo nella fotografia; un rapporto che il cinema riesce a registrare. Una trappola per pensieri e sentimenti. Agnés Varda

Alzi la mano chi conosce Agnés Varda, chi ha visto almeno un suo film... Lo sapevo, quasi nessuno. Nemmeno sentita nominare? E' un vero peccato...

Eppure ha diretto 38 film in 51 anni di carriera su ben 77 di vita. Un'autentica veterana, senza dubbio. Possiamo definire Agnés come la nonna del cinema francese. Di più: è forse la cineasta più anarchica, l'ardita sperimentatrice, sognatrice, battagliera e allo stesso tempo dolce signora che il cinema europeo abbia mai conosciuto. Agnés Varda è stata ed è un modello per molti, soprattutto per molte, che si sono avvicinate all'arte della cinematografia e della fotografia. Eppure il cinema "che conta", quello cioè che viene distribuito in pompa magna, non l'ha mai considerata più di tanto. Ingiustizie del mercato.

Spirito forte, animo libero, sensibilità poetica. Pacifista, femminista, d'una sinistrità forse un po' antica, vecchio stile, ma ancora affascinante. Una vita passata a usare l'arte per migliorare questo mondo. E lei lo ha fatto: con i suoi documentari e lungometraggi sempre attenti alla realtà sociale, sempre pronti a raccontare gli ultimi, gli invisibili, e allo stesso tempo capaci di cogliere la poesia che vive dentro i più piccoli frammenti di vita e di natura.

E' a Firenze, su una terrazza romantica lungo l'Arno, a cento metri da Ponte Vecchio, che ho avuto l'onore ed il piacere di incontrarla. Il suo passaggio fiorentino è stato breve come un colpo di vento: una mattina per ricevere un premio, un pomeriggio per incontrare il pubblico del Festival di cinema delle donne. E poi se ne è volata via verso la sua Francia.

Bonsoire Madame Varda. Lei è considerata una rivoluzionaria del cinema, avendo anticipato la Nouvelle Vague di cinque anni, e un'artista dotata di un forte senso della libertà. Oggi, a quasi 80 anni, nell'arte e nella vita, di quale rivoluzione sente più il bisogno, se ne sente, e di quale libertà?

Nella vita mi hanno chiamata con tanti nomi. Fra questi “la nonna della Nouvelle Vague”, perché il mio primo film uscì cinque anni prima dell'esplosione di quella corrente. Ma, nonostante questo, la definizione di "rivoluzionaria" non mi si addice, e preferisco considerarmi semplicemente una "innovatrice" dell'arte cinematografica. Un altro nome con cui mi hanno chiamata - da quando ho fatto Les glaneurs et la glaneuse - è "la signora patata a forma di cuore", perché nel film vengono trovate delle patate a forma di cuore. In quel film ho voluto appunto mettere insieme lo spirito documentaristico e il "cuore".

Di cosa sento il bisogno? Più che di "rivoluzione" sento il bisogno di libertà, di uno spirito libero, lo spirito del cineasta. Sembra una parola semplicissima ma sono pochi i cineasti che riescono a mantenere per 50 anni - e ne sono passati 51 dal mio primo film - il proprio spirito libero. È questo spirito che mi permette di realizzare un cinema narrativo ma fortemente ancorato alla realtà, come in Senza tetto né legge (Leone d'oro al Festival di Venezia 1985, n.d.r), o in Les glaneurs et la glaneuse (girato nel 2000) che è stato distribuito in tutto il mondo tranne che in Italia - e brava l'Italia! Per fortuna è stato notato dal Festival di cinema delle donne e dal Comune di Firenze che lo hanno voluto per questa manifestazione - ed ha riscosso successo in mezzo mondo, dal Giappone alla Svezia all'America.

E' un piccolo film, modesto, perché il soggetto è modesto: parla di persone che mangiano quello che noi gettiamo, che raccolgono nell'immondizia o nei campi. Non sono dei miserabili, sono certamente poveri, persone che hanno capito che si può vivere di ciò che la società considera da buttare (che super-spreco!).

Dunque, per tornare alla libertà, penso di aver fatto sicuramente un documentario sociale, ma non una tesi di sociologia. Un film di denuncia, ma senza collera. E, alla fine, se vedo un bel cavolo rosso, filmo un cavolo rosso. O i miei gatti, o la campagna... Insomma, in questo film c'è tutto il mio amore per il cinema, e per il documentario specialmente. E quando alla fine della proiezione ricevo degli applausi, penso sempre di aver fatto conoscere delle persone straordinarie (gli "spigolatori" e la "spigolatrice" del titolo, n.d.r.) e che gli applausi vanno a queste persone. E queste persone sono così piaciute e sono state così amate dal pubblico, che due anni dopo ho realizzato il "seguito", dal titolo, appunto, Due anni dopo. Sono tornata a cercare le stesse persone del primo film, ma non è stato facile perché molti di loro sono nomadi, gente senza casa... Cercandoli ho capito che libertà è anche passare da una cosa all'altra, dalla campagna alla città, da un bottone lasciatomi da uno dei miei glaneurs alla scatola di bottoni di mia nonna, e fare film con questi elementi ma che piacciano alla gente.

Come europea - fra l'altro lei è nata a Bruxelles, e questo ha un valore se non altro simbolico - come artista e come donna, che opinione ha della "nuova" Europa che si va costruendo, e del ruolo che le donne possono avere in questo processo unitario?

L'Europa è necessaria. Perché noi siamo come dentro un sandwich con da una parte la forza americana e dall'altra quella cinese. La forma politica di tutto ciò per il momento è un orrore... Non amo molto la politica ma ho ben chiaro che esistono dei progetti necessari, come quello dell'Unione. Come artista, la mia unica giustificazione è l'esistenza. È come essere una piccola canzone nel caos del mondo. Il mio scopo è quello di creare qualcosa da poter condividere: la bellezza, l'amore, i sentimenti. Come donna, sono sempre stata e resto femminista, e ho partecipato a lotte molto concrete: il diritto di scegliere quando e come avere bambini, l'uguaglianza dei diritti e dei salari, e in ultimo il diritto di abortire. Come cittadina rivendico tutte le lotte portate avanti in questi decenni per i diritti delle donne. Soffro tutti i ghetti, compreso quello femminista, e ho sofferto a lungo la grande discriminazione nei confronti delle donne che era presente nel mondo del cinema, dalla grande distribuzione ai più importanti festival internazionali.

Fotografa sofisticata, cineasta sperimentale, il suo rapporto con "l'immagine" è quanto mai significativamente intenso. Permetta una provocazione: cosa prova all'idea che la società di oggi sia definita "società dell'immagine", non nel senso che lei incarna ma in senso dispregiativo, "televisivo"?

Sia l'immagine fotografica che l'immagine in movimento mi interessano moltissimo. Ritengo che sia necessario lavorare molto sull'immagine proprio perché siamo bombardati dalle immagini, dalla televisione, dalla pubblicità. E queste immagini da cui siamo bombardati spesso sono svuotate del loro senso. Certo ci sono delle immagini tremende - come quelle che ci sono giunte recentemente dal Pakistan e dal Cachemire - che ovviamente non sono svuotate di senso. Spesso però da questo emerge tutta la crudeltà di questa società che le trasmette per cinque minuti e insieme a due imbecilli di politici che chiacchierano e si esibiscono, per poi magari mandare di seguito una sfilata di moda. Ecco quindi che quelle immagini giustamente tremende annegano in questo vomito di immagini senza senso che è la televisione. L'unica cosa che l'artista può fare è, modestamente, cercare di creare un piccolo spazio di circolazione di emozioni e idee.

In una delle tre sezioni del film Cinevardaphoto (2004), per esempio, io dialogo con un'immagine artisticamente lavorata. E alla fine, lavorandoci sopra, ti rendi conto che l'immagine ha una relazione con delle storie, delle epoche, un'immagine che da sola sarebbe quasi niente. In un'altra sezione ho ripreso migliaia di fotografie che avevo scattato a Cuba nel 1962, e che sono la testimonianza di come una determinata persona, una donna francese in mezzo a tanti altri punti di vista espressi in quel momento, ha percepito quella rivoluzione come esaltante, piena di speranze, di possibilità. A quarant'anni di distanza risulta essere un documento molto interessante, perché oggi non possiamo più vedere Cuba nello stesso modo. Ed io che credevo di aver fatto un film sulla fotografia di Cuba e la musica cubana, invece con il tempo ho scoperto che ne è venuto fuori un documento sulla Cuba di quel momento, su quegli anni e quella storia. Questo dimostra che in ogni caso quello facciamo entra in qualche modo nella Storia, e che noi siamo testimoni di essa.

Agnés, lei è giunta in questi giorni in Italia per ricevere il premio Il Sigillo della Pace. Che significato dà a questo premio, che possiede questo nome così impegnato e altisonante?

Quando mi hanno avvertita di questo premio, sono andata a cercare su internet cosa fosse questo Sigillo della Pace e ho trovato il simbolo di Firenze, il giglio. Precedentemente avevo ricevuto a Praga un premio simile, ma il tema di fondo erano i diritti umani. Certo, sono contenta di ricevere un premio che richiami l'idea della pace, però questa pace mi suona come qualcosa di utopistico e irrealistico. Chissà - penso ogni tanto - prima o poi mi daranno anche un premio degli "amici del gatto"... Comunque, l'importante è che questo premio sia riferito al mio lavoro di cineasta, perché significa che il mio lavoro è compreso, conosciuto, apprezzato. E quindi condiviso.


a cura di Edoardo Semmola - www.alteredo.org
(Giornalista e Critico cinematografico)

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte
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Aggiornamento: 27/08/2015