MARIO BOCCHINI
pittore cesenate, artista senza confini


RECENSIONI

UN PITTORE TIPICAMENTE ROMAGNOLO

Una delle più rilucenti e vivide caratteristiche della gente di Romagna è quel pungente e pulito senso della creativa allegrezza, il ricercato gusto della risata, alta, squillante, e che vi sia sangiovese, albana e trebbiano o certi stupefacenti vinetti senza nome, gialli come oro liquido oppure verdolini come olive. Da una razza siffatta, in perenne e rischiosa vena di boccaccesche mattane, si crede di trovare soltanto una giocondità di umori, un rincorrersi felice di luminose burle, e invece al freddo e puntuale lume dei fatti e delle cose, saltano fuori certe personalità artistiche sommerse da una angoscia sconvolgente.

Basta fare un passo indietro, fermare la memoria fra le pieghe del passato, ed ecco apparire la tristezza di Lega, e quella amara e crocefissa realtà che inchiodò nella miseria Spadini, o il morale struggimento di Torchi, e sì che stavano tutti bene a tavola. nell'ondoso e profumato fumo delle locande, a tessere una sapiente tela di atroci scherzi da provare sulla pelle degli anici.

Ma coi pennelli e coi colori, di colpo, la loro natura riassumeva il suo vero e inconfondibile aspetto; la malinconia, ha scritto Rimbaud, è viola, e questa dolce afflizione, oggi, ha mutato toni, poiché gli artisti più rappresentativi della Romagna., vivi e combattenti, sono già dentro le oppressive soglie di un bruno cupo, di un nero smorto, pallido e inquietante.

Uno dei centri più agguerriti e modernamente desti è, senz'altro, Cesena: una sorta miracolosa di punta avanzata che si muove coralmente nel campo figurativo, e dietro ai nomi e alle opere di Sughi, di Caldari e di Cappelli, ecco emergere quelle di Bocchini: ognuno di essi, pur seguendo strade diverse, completa un ampio ed originale mondo poetico. Se lieta può essere la sorpresa di incontrare pittori già così validi e maturi, si rimane però stupiti per quella drammatica aura che grava sui loro quadri, come se l'esistenza fosse ancora più cruda e desolata di quel che è.

Da questi caratteri forti, vibranti, generosi, si sgranano opere una più tragica dell'altra; le loro tavolozze abbondano di grigio, nero, rosso pompeiano, bruno, e rari sono i freschi e vaporosi colori della primavera o dell'estate calda, frenetica, per il verde e l'oro delle stoppie, o dell'autunno che, illanguidito da un sole pallido, rende tenere e sfumate le siepi, i campi e i dorsali delle colline, e pare che soltanto l'inverno, cupo e fosco, dia un ampio respiro allo loro fatica creativa.

E s'avverte il senso acuto e profondo della solitudine, quando l'uomo, nella città scura, minacciosa e ostile vista da Mario Bocchini, resta un essere indifeso, abbandonato, spaurito e tremante come un bambino davanti alle ombre gigantesche di una sterminata colonna di mostri. Forse proprio qui è nascosta la più ossessiva delle visioni, perché una nebbia perenne si ammassa in ogni quadro, e l'altezza sconvolgente dei grattacieli, come da un fiume in piena, fa straripare sulla gente il peso di un acerbo sconforto.

Poesia della disperazione, dell'ansia, del timore: su questo binario cammina sostenuto dall'ausilio di splendidi mezzi espressivi Mario Bocchini, che, quando la sua arte sarà più rasserenata, donerà agli uomini opere più distese, chiare e luminose.

Antonio Meluschi

Un dipinto di Mario Bocchini del 1959

Dipinto di Mario Bocchini, 1966


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 27/08/2015