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RECENSIONI La nebbia avvolge gli uomini dovunque Può sembrare strano che a presentare un pittore (ma ne aveva proprio bisogno, Mario Bocchini? non erano già sufficienti le sue opere, che i raffinati cultori d'arte conoscono e apprezzano da un decennio, e che in ogni parte dei mondo trovano la loro esaltazione nelle gallerie e nelle collezioni più famose, da New York a Mosca, da Leningrado a Londra, da Gerusalemme a Parigi, da Belgrado a Budapest?), può sembrare strano, dicevo, che a presentare un pittore, per una sua ennesima personale, sia stato chiamato un giornalista e non un critico d'arte, un cronista giramondo e non un esperto di chiara fama e di chiaro nome, come s'usa, ormai, e com’è universalmente accettato. Ma, forse, a questa che può sembrare una stranezza, la spiegazione c'è. Ed è, come tutte le spiegazioni, di molteplici e plurimi aspetti. Innanzi tutto, come ho detto, Mario Bocchini sul piano artistico si presenta da sé, per quelle sue trasparenze irreali, magiche, per quelle sue profondità emotive, per quei suoi colori che sembrano scaturiti dal guizzo fiabesco di un raggio di sole all'alba o al tramonto più che dal pennello maneggiato dalle dita di una creatura umana. “Une touche fondue, un sens rare de la lumière et une stylisation des masses, tout concourt à un effet surnaturel où, cependant, nous reconnaissons là notre univers familier“: così ha scritto di lui un noto critico d'arte francese, C. Millet, su "Revue moderne", e mi sembra che questo sia più che sufficiente per dare a Mario Bocchini quella qualificazione, quella valutazione, quell’etichettatura che il mondo moderno fatto da compartimenti da cervello elettronico esige per catalogare una persona. Invece, più che sul piano artistico, a me sembra che Mario Bocchini, chiedendo alla mia indegna macchina per scrivere di buttare giù qualche riga per lui, all'atto in cui si ripropone ad pubblico milanese, abbia voluto identificare in sé, nella propria arte, proprio quell'aspetto prettamente umano che, appunto, un cronista, per sua stessa formazione mentale, per sua stessa strutturazione professionale, va a cercare in tutte le espressioni della nostra stanca esausta sfinita umanità. Mario Bocchini ha, del cronista, la dote fondamentale: la curiosità. Quei suoi occhi chiari, penetranti, quel suo infaticabile agitarsi, quel suo inquieto ricercare il nuovo, sono, appunto, il frutto di questa curiosità che non ha tregua. Mario Bocchini è curioso: ma non è, la sua, una curiosità staccata, indifferente, cinica; è invece, la curiosità appassionata, ansiosa, quasi dolorosa, quasi spasmodica, di un uomo che vuole scoprire che cosa nasconda dentro di sé l’umanità, che cosa si celi dietro quel velo di nebbia che avvolge implacabile gli immensi alveari umani che le mostruose macchine costruiscono in questi diabolici agglomerati che la civiltà ha inventato per irreggimentare il mondo. Milioni e milioni di individui si affannano, dentro quelle caserme di cemento, sospesi sopra quelle strade e sopra quei ponti, incolonnati dietro quei semafori, allineati davanti a quelle macchine, per conquistarsi un qualsiasi diritto alla vita. La civiltà glielo impone, ed essi ubbidiscono inerti alla civiltà. Come robot, come macchine essi pure, senz'anima, senza spirito. Eppure un'anima, uno spirito, questi milioni e milioni di individui li possiedono. Solo che la civiltà moderna glieli ha annientati, glieli ha cancellati, glieli ha quanto meno soffocati sotto il peso di quella coltre di nebbia che Mario Bocchini cronista attento, ha trovato a New York come a Milano, a Mosca come a Belgrado, in Africa e in Asia, dovunque, implacabile, ottundente come una narcosi collettiva. E l’umanità che vive in questi accantonamenti, in questi lager con bagno e doccia, non si accorge che così la sua esistenza è diventata un'esistenza da incubo, una spaventosa estrinsecazione di solitudine senza rimedio, ciascuno gomito a gomito con gli altri, ma tutti soli, tutti senza più la possibilità di parlare, di comunicare con chicchessia, muti tutti, sordi tutti, ciechi tutti, incatenati da questo egoismo che, appunto, Mario Bocchini esprime con la sua nebbia opprimente, con il suo alone indistinto che indica il mutismo, la sordità, la cecità di questa massa condannata. Ma la curiosità di Mario Bocchini a questo punto avverte che una salvezza ci deve pur essere, al di là degli alveari umani, dei ponti, delle strade, dei semafori, delle macchine: e si rivolge agli spazi immensi del mare, al cielo senza fine, che l’umanità, forse, più non riesce a vedere, ma che esistono, per fortuna, ancora, la civiltà non li ha ancora potuti intaccare, contaminare, e, anche se l’umanità li scorge ottenebrati nella propria cronica nebbia asfissiante, non vi è dubbio che costituiscono le uniche speranze che Mario Bocchini, cronista pessimista ma con un superstite filo di ottimismo, indica per la salvezza dell’uomo. Ed ecco le sue scogliere, ecco le sue sfavillanti aurore: gli obiettivi di quel ritorno alla natura che il cronista Mario Bocchini, che ha girato il mondo e il mondo ha conosciuto, ravvisa giustamente come unica e sola e pulita oasi per l’umanità. Mario Bocchini, pittore, come tale è un poeta; come cronista lo è doppiamente, perché scava e scevera e flagella, ma ravvisa anche il porto del bene. Proprio, appunto, come il cronista giramondo che conosce le genti di tutti i paesi, le brutture, le nefandezze, i crimini, ma, saturo dentro di sé di tanto male, sa che qualcosa ci deve pur essere per sopravvivere. Per questo, con piena convinzione, sottoscrivo l'arte di Mario Bocchini: e lo ringrazio per avermi chiesto, per avere voluto dare a un giornalista questa breve cronistica chiacchierata su di lui. Franco Martinelli A CURA DEL TEATRO "LA PICCOLA COMMENDA" DI MILANO |
Mario Bocchini al ricevimento del Consolato Generale d'Italia (in secondo piano la marchesa di Montezemolo, consorte del Console Generale d'Italia a New York)
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