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ITINERARIO ARTISTICO I Quattro, grosso modo, sono i “periodi” attorno ai quali si è soffermato, in vent'anni di presenza artistica, Mario Bocchini che la sua città onora, con questa mostra antologica. Il pittore inizia la sua attività disdegnando, intanto, la Scuola “pervasa - com'egli afferma - da un clima freddo, imposto dalle cose calcolate e per niente spontanee”, aggiungendo poi, di nutrire una certa apatia per l'Accademia (presso la quale si è regolarmente diplomato), poiché, per temperamento, è uomo d'aria pura: preferisce fare scuola all'aperto, a contatto con la gente semplice della strada che recita dal vero, che posa con spontaneità. E' interessato alle pollivendole ed ai sensali che popolano i mercati, con i loro atteggiamenti frusti, se volete, ma sempre genuini che sollecitano una schiettezza d'ispirazione e premono sul gusto accompagnando, così, la sua mano in direzione di quella libertà espressiva, di cui registra, appunto, con un segno pulito, l'originale integrità delle figure. Figure che non cadranno mai nella descrizione retorica, ma usciranno, invece, vive, imperniate sull'agile ritmo del moto che fa spicco. Il pittore, dunque, è alla continua ricerca di emozioni dalle quali far scaturire i soggetti. Riprende i tanti momenti di vita in centinaia di schizzi; coglie, nelle figure, il significato intimo di ogni piega del viso, di ogni ruga che accentua il taglio dell'occhio ammansito allo sguardo furbo. II suo è un continuo gironzolare per le strade della cittadina piena di tensioni, calate in un tessuto sociale tutto da analizzare, da conoscere, da fermare su dei fogli di carta. E' proprio durante uno di questi suoi itinerari mattutini che il suo passo tranquillo, in compagnia della sua sete di spunti, è immobilizzato dal trillo acuto del fischietto di un vigile: l'ha ripreso mentre attraversa la strada col rosso! Ieri il semaforo non c'era! Il semaforo emette ordini imperativi, ai quali bisogna obbedire! E' mai possibile che da un tubo di ferro, dentro cui corrono dei fili e dei contatti elettrici, tre occhioni di luce colorate riescano ad imporre l'arresto o il riavvio a file di autoveicoli, a motorette, a ciclisti ed a pedoni? Il semaforo sostituisce la persona fisica del pizzardone. Il pennello, allora, trasforma sulla tela il mostruoso aggeggio che gli ha prodotto un moto di ribellione, servendosi di un tessuto cromatico composto di bruni trasparenti, di azzurri terrosi e di blu-freddi. I colori sono impastati fino a raggiungere un equilibrio tonale meditato, voluto per ragionate atmosfere scaturite, appunto, da un primo impulso esecutivo, ma dettato anche, da una necessità psicologica. Proprio e soltanto legando il colore alla forma, o all'embrione di forme, l'aspetto figurale dovrà risultare sempre più diluito, sempre più ridotto all'essenziale, senza, però, essere mai lasciato al caso. Deve estrinsecare, con prudenza, le diverse suggestioni liriche, perché l'istinto di scelta non è solo legato a motivi apparenti, ma ha scavato di dentro, ed il reale dev'essere più dilatato, fin quasi a raggiungere la "decomposizione", proprio perché il gioco ossessionante del rosso, del verde e del giallo si rincorrono con un intermittenza che mette il capogiro. E la gamma dei colori, che Bocchini sente più di altri, diventerà la sua firma. Non è vero che, ciascuno di noi, ha perfezionato, fin dall'adolescenza la propria firma, cosciente che tale resterà per tutta la vita? Così è per la cromìa di base della tavolozza: meno colori dispone, più i dipinti riescono policromi. Però, bisogna saper sceglierli e accostarli: con un nero e con un azzurro si ricevano decine di tonalità. II Certo, Bocchini, che è pervaso costantemente dalla saggia inquietudine dell'ape laboriosa, è disposto, ed è sempre stato disposto, a pagare cara la libertà del suo pensiero; ecco perché ha coraggio a non intrupparsi se non con le sue ristrettezze, se non con un volontario abbandono del campo locale, se non con il continuo andare alla ricerca di un proprio linguaggio. Non appartiene, certamente, a quella larga schiera di persone che si sentono più o meno sicure secondo dove poggia la parte con cui ci si siede. Sa che, per un artista vero, l'umiltà è la condizione prima per poter produrre opere valide, anche se questa, il più delle volte, può venire oscurata o subordinata da elementi esterni. Il suo agire, pertanto, sarà sempre controllato, come il suo spirito anche se di marca irrequieta. La sua testa, infatti, è come un motore in attesa che, in un qualsiasi istante, sia innestata la marcia... e un mattino, in cui l'aria fresca tarda a snebbiargli gli occhi, s'accorge che il campanile, tanto di casa nel suo sguardo, perché posto sull'itinerario che quotidianamente deve percorrere, si è abbassato, non domina più il cielo, ha lasciato il posto a un mostro grande che cresce al suo fianco. Bocchini si sente al pari di un uccello fuori stagione, e subito trasmigra a Milano dove la sordida parata di case fredde della periferia, le strutture di cemento armato salgono a dismisura, sconvolgendo il tradizionale paesaggio urbano. Pilastri e colonne rigide, scheletri di casellari, arnie sovrapposte, scatole rettangolari che s'innalzano sempre più in alto, a lacerare il cielo. I suoi occhi vedono, così, il sorgere dei “pirelloni” le cui creste si installano da padrone nel cielo turchese-verdastro o rosa-violaceo; s'incuneano dentro a superfici piovose e fredde, abuliche. Sono blocchi di cemento che mettono l'ansia in gola. E' una piorrea di muri freddi come cimiteri viventi, dentro ai quali viene a mancare il tradizionale calore della stufa a carbone o quello della cucina economica a legna. “Alveari umani”, li battezzerà Luciano Budigna, dentro cui, forse, soltanto i sogni incustoditi riusciranno a liberarsi nel cielo di nebbia che acceca, dentro cui si aggiungeranno sempre elementi nuovi che spezzano il sonno, che uccidono il silenzio. Le stesse strade larghe, al loro cospetto, sono ridotte a vicoli stretti, dove ormai anche le stagioni sono sottomesse all'orgoglio di un calendario urbano che gareggia con la pantera del compromesso. La tavolozza di Bocchini registra tutte queste sensazioni, le trasferisce sulla tela con una ricerca formale che va verso il misterioso, più che verso l'irreale. E nell'impasto cromatico usciranno le vertiginose pareti di un cantiere edile; sarà sottintesa un'unghiata di ruspa o un lacerante urlo di sirena che segna l'inizio e la fine dell'orario di lavoro. Troverà diritto di cittadinanza la stessa aria consumata, piena di scorie e di smog, la stessa ondata di miserie umane che naufragano nell'ostinata tempesta di ogni giorno. Il pittore dipingerà questa grande prigione senza inferriate dove l'impotenza dell'uomo arriva al limite del concepibile e la superficie della tela subirà l'impatto con un racconto spesso lacerato come da resti informali lasciati da un cataclisma: paesaggi, a volte, quasi impossibili per gli stessi evidenti contrasti insiti nella materia, la cui tessitura cromatica acquisisce risultati al confine della figurazione, provocando sensazioni certamente astratte, poiché riempiono l'organo sensorio di immagini definite, anche se, formalmente, ambigue, in cui il ritmo dell'oggetto è ancora, e più che mai, una somma di idealità poetiche calate in una pregnante realtà. Il pennello, allora, arriva a sintetizzare il paesaggio urbano coperto da quella leggera foschia che fa sottintendere larvati riferimenti e nascoste apprensioni. III Mario Bocchini va in America per conoscere più da vicino queste torri, quattro, cinque volte più alte dei grattacieli di Milano. E' a New York nel 1963, quindi in Jugoslavia, nel Medio Oriente, poi in Russia dove la stessa Irina Fursteva “acquista” una tela con un “alveare americano”, ora ospitata nelle sale dei maestri contemporanei all'Hermitage di Leningrado. Ritorna in America nel '64 dove donerà, all'allora Presidente degli Stati Uniti, un grande dipinto riproducente, sulla falsariga di una rarefatta atmosfera grigio-vermiglio, una stupenda immagine della Piazza Rossa di Mosca. Questo suo peregrinare gli metterà in testa la visione del porto con le sue immagini fredde: è come una lapide che scrive il ritorno felice di chi era partito con poca speranza; che tiene conservata l'amarezza di chi non è più ritornato. Di fronte alle grandi tele di questo periodo, colpiscono proprio il colore riflesso nell'acqua, come cose vere alle quali non si può mentire. Materia e sentimento costruiscono interessanti riferimenti esterni; l'immediatezza cromatica delle tonalità è più che mai suggestiva: ora un tono plumbeo feroce o un grigio materico addolcito da pennellate cineree, danno la misura di una realtà vista con occhi puri. Resta affascinato dal porto in genere, ma in particolare da quello di Haifa dove l'aria non è impregnata di salsedine e di puzzo di nafta, dove i colori sono fin troppo ossigenati, dove può uscire anche un tramonto scialbo che ignora la speranza, ma il cielo terso, dietro una larvata foschia, è di un limpido pieno di vento, dentro il quale si può anche immaginare uccelli di passo che vanno verso nuove dimore. Bocchini dipana, così, piatti percorsi di colore che si appaiono e si circoscrivono l'un l'altro, inframmezzati da zone coloristicamente armoniche, temperate da gamme forti, subito mitigate, da striature opportunamente calibrate, descritte col suo personale linguaggio, ridotto all'essenziale. Dal '68 al '71 sacrifica, alla sua città, tre anni interi di lavoro artistico per mettere su il "Museo della civiltà contadina” che ha sede nella Rocca. Quanto di più completo e di più ricco potesse avere questa classe sociale romagnola, travolta dall'era del processo tecnologico, è stato cercato e ordinato con passione, con amore e con acume. Casa per casa, cascina per cascina, dal robivecchi e dal solfanaio, Bocchini ha setacciato in lungo e in largo la sua Regione. Questo periodo di “ferma” gli servirà anche per fare il punto della sua attività. Per diversi anni ha insistito, prevalentemente, in un vedutismo urbano dalle luci spettrali dove trovano collocazione anche i sottovia di cui la conseguente espansione automobilistica ha imposto la sostituzione del semaforo, insufficiente a districare gli ingorghi stradali. Nel contempo il suo pennello si è soffermato anche sui fiori che non si debbono, che non si possono cogliere. Messi in un vaso è come chiuderli in prigione: debbono stare dove sono nati. Ed ecco, allora, perché dentro un vaso troveremo dei fiori con quel tanto di patina che li avvicina alla plastica, collocati, dal pittore in una realtà aerea, poiché trovano sempre meno spazio in questo nostro tempo spavaldo, puntellato d'ansie che, nella sua voragine, ingoia il sentimento. IV L'artista, ancora una volta, vuoi conoscere, vedere, capire, trasmettere momenti di un mondo che non è più quello di ieri ma del quale, proprio questo di oggi, è già destinato a restare memoria: un prodotto che si consuma troppo in fretta. A differenza di quindici anni prima, non intende più fermarsi su aspetti che denuncino un'epoca precisa. Però, ha la convinzione di avere già detto molto intorno alla presenza dell'uomo e, decisamente, sceglie il mare, il nostro Adriatico, che da Cesena dista appena dieci minuti d'auto. E' preso dal frusciare dell'acqua sulla risacca; lo sciabordìo irrequieto delle onde che s'inseguono a riva, di sbieco, fanno la biscia. L'altalena di spuma lungo il cordone della spiaggia è colma di riflessi che abbagliano. Questo lamento di barche arenate sulla spiaggia, spruzzate di sole e di catrame sono un ricordo stanco, in attesa del silenzio infinito. Ma lo colpiscono, soprattutto, questi relitti aggomitolati nelle pieghe dell'alba, passivi come in un campo l'erba docile al vento. Ecco che l'agire spontaneo della sua mano sa risolvere, più che mai con duttilità, il problema della forma: lui che ama partire dalle basi di un figurativo solido per andare, via via, all'amalgama di ombre e di luci che assumeranno rapporti e valori identici "sino a raggiungere la tonalità psicologica della realtà”, arrivando a formare “le accensioni più evidenti di una predilezione per la memoria delle cose”, come scrive, al riguardo, e molto opportunamente, in una recente presentazione, il poeta Elio Filippo Accrocca. Questi relitti, questi scheletri come ultimi valori di una civiltà di artigiani del mare, questo timone che era il cervello della barca e ora è fra il fasciame di legno marcio, rappresenta il mondo attuale, in disfacimento, proprio nelle sue più intime fasi. La tavolozza di Bocchini, che vuole fare denuncia, si anima di un bleu profondo per le distese senza confine che assorbono il cielo mentre il segno, prima esaltato, del resto come in tutta la sua pittura, si perde col colore, in disfacimento. In una misurata tessitura di luci per sfondo ad un primo piano di barche sfasciate, il pittore ci narra anche del sole che fa l'occhio a feritoia mandando l'ultima sua fetta di luce sottile e distesa: un'ombra sul muro cartavetrato dell'acqua, mentre la spazzola grigia della sera comincia a stringere, nel suo morsetto, la malinconia. E' fuor di dubbio che questa “Antologica” ci offre l'occasione per affermare, o riaffermare, che ci troviamo di fronte ad un artista che sa mettere a pieno rendimento il proprio gusto raffinato, muovendosi dentro un mondo fatto di cultura vera; senza concessioni idilliche, con un sentire genuino, lontano da compiacenze e da virtuosismi, dimostrando, così, di possedere indiscusse doti di chiarezza e di vigore, perché i suoi dipinti trovano sempre un'autonoma collocazione: una morale che gli è costata non soltanto la ferma volontà di tenere fede a dei principi nei quali crede, ma anche la necessaria profonda conoscenza dell'essere umano. Romeo Forni (Marzo 1975) |
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