ARTE ANTICA MODERNA CONTEMPORANEA


LA GRANDE STAGIONE UMANISTICA

Antonello da Messina - Giovanni Bellini - Andrea Mantegna - Sandro Botticelli - Vittore Carpaccio

I - II - III - IV

Andrea Mantegna, Cristo morto, 1480
Pinacoteca di Brera – Milano

Antonello da Messina, Ritratto d'ignoto marinaio, 1470-1472
Museo Mandralisca, Cefalù (PA)

Giovanni Bellini, Pietà, 1465-1470
Pinacoteca di Brera – Milano

Dario Lodi

La mentalità umanistica – l’uomo al centro delle cose per il bene di Dio – si concreta artisticamente, nel ‘4-‘500, con opere di grande fascino e suggestione. Fra i molti artisti ne sono stati scelti sei, sicuramente fra i più incisivi: la pittura è la forma artistica che si sviluppa maggiormente nel periodo.

Antonello da Messina (1430?-1492), con questo Ritratto d’ignoto marinaio, è il primo artista che valorizza la figura umana in sé: è una valorizzazione totalmente laica, senza implicazioni metafisiche. La tecnica a olio, con velature (una novità in Italia, presa dai Fiamminghi) unitamente ad un’intelligenza visiva particolarmente efficace, consente al nostro artista la realizzazione di opere vitali, mosse interiormente e splendenti esteriormente, del tutto vive e vere.

Antonello assorbì con facilità le tensioni esecutive del momento, apprezzò e mise in pratica le lezioni geometriche umanistiche (ebbe contatti con Piero della Francesca, o di certo con la sua pittura), usò la sezione aurea, mise luce nelle sue opere, specialmente in quelle d’occasione, come il ritratto proposto. La vivezza del quale è una caratteristica originale di Antonello che si ritrova pienamente nella famosa “Annunciata”, uno dei quadri emblematici dell’Umanesimo. Ma emblematico è anche questo ritratto di marinaio, che è un’opera di rara schiettezza e di profonda umanità lasciata libera di esprimere un essere orgoglioso della consapevolezza di mostrare un’apparenza con senso finito, non sfuggente e non fantasticato.

La Pietà di Giovanni Bellini (1430?-1516) è sicuramente uno dei quadri religiosi più veri e più umani del fenomeno umanistico. Le figure rappresentate sono particolarmente suggestive e molto vicine al modo profondo di sentire di ogni essere umano. Bellini, famoso per le sue “Madonne” e per la sua pittura spettacolare, qui si contiene, si concentra su un sentimento, la pietà appunto, sacralizzato dalla figura cristiana, una figura di riferimento per le sublimazioni che comporta. Il quadro ha una tensione notevole ed è caratterizzato da una cristallizzazione sospesa su particolari catturati passionalmente e riportati razionalmente: la fusione genera una sorta di magia che si risolve nella sincera e viva commozione per ciò che avviene. Il fenomeno si rivolge a considerazioni quasi involontarie sulla povertà del vivere e sulle offese che si arrecano alla meraviglia in sé della presenza vitale. La pietà va dal vivere all’esistere e comporta un dolore cosmico per l’esistere calpestato dall’ignoranza e da ottusi concetti di sopravvivenza per cui le questioni spirituali non avrebbero alcun peso. Bellini ribalta la situazione, imponendo, con garbo, la necessità di una riflessione interiore. La sua pietà cristiana è un lampo che illumina il sentimento, facendolo vincente sulla razionalità modesta e colpevole dell’uomo. Il discorso belliniano procede verso la valorizzazione delle virtù umane che l’individuo deve onorare per propria dignità. Il sacrificio intellettuale rivolto al sentimento (ovvero a qualcosa che sfugge, qualcosa che non è materia) è la chiave per evitare il ripetersi di persecuzioni interne, un disastro e una vergogna per l’uomo interamente tale. Bellini, con la figura della Madonna, introduce una speranza, purtroppo lontana, ma non inutile. La dolcezza della Madre di Gesù è un miracolo fatto d’intensità non di questo mondo. Il pittore si fa prendere da questa figura, l’analizza e l’ammira come fosse una cosa a sé.

Sul piano tecnico, Giovanni Bellini è il maestro che rende preziosa la pittura veneta. Molti saranno i suoi “alunni” e seguaci. Il nostro pittore insegna anche l’autonomia intellettuale, la visione personale delle cose: così da artigiano il pittore diventa artista autentico.

Andrea Mantegna (1431-1506) è un illusionista poderoso, ricco di talento, un virtuosista eccezionale. Il suo “Cristo morto”, d’incerta datazione, eseguito a Mantova e ora a Milano nella Pinacoteca di Brera, è l’esempio più evidente della sua bravura e del compiacimento dell’autore per la stessa. E’ un autocompiacimento spontaneo, naturale, privo di malizia. Sorge da un’abilità pratica naturale: il disegno come espressione di un’intelligenza visiva ed esecutiva legate insieme. Poi Mantegna apprenderà il modo di affinare la sua arte e di indirizzarla verso spettacolarizzazioni delle aspettative religiose e laiche del momento. Il nostro artista imparò nella bottega dello Squarcione, a Padova. Francesco Squarcione, pittore e collezionista d’arte, amava l’archeologia, le sue opere riflettono questa passione e Mantegna adottò la fissità che le caratterizzava.

La fissità era figlia della monumentalità. Squarcione si esprimeva attraverso modelli come pietrificati, custodi di una grandezza significativa da celebrare.

Questa operazione fu esaltata da Mantegna, grazie ad un talento eccezionale. Il nostro artista fece tesoro della cultura di Donatello, di Piero della Francesca, di Rogier van der Weyden (molto attivo in Italia in quel tempo), fra i maggiori nell’applicazione tecnica della prospettiva all’opera artistica. Mantegna sposò le regole matematiche prospettiche e le portò al massimo dell’espressività estetica. L’artista non convince sul piano concettuale, mentre su quello formale appare formidabile. I suoi interventi sembrano votati interamente alla spettacolarità dell’evento, una spettacolarità esteriore, funzionale in sé, come fatto decorativo più che discorsivo.  

Mantegna ci trasmette delle frasi fatte, tanta convenzionalità, ma lo fa con un’eleganza insolita, con un virtuosismo di rara bellezza. Il nostro pittore sposò Nicolosia Bellini, sorella del grande Giovanni, fu a Roma per tre anni, dal 1487 al 1490, e quindi a Mantova sino alla fine. Qui realizzò parecchie opere: da vedere gli affreschi nella “Camera degli sposi”, nel Castello di San Giorgio. Sono cose di estrema raffinatezza, doni dell’immaginazione, dove la tecnica è soggetta a un contenuto semplice, privo di pretese superiori. Si riporta un particolare dell’oculo della Camera, un dipinto strabiliante da cui sicuramente prese ispirazione Correggio, fra i molti altri.
Domenico Ghirlandaio, Ritratto di vecchio con nipote, 1490 circa, Louvre, Parigi Vittore Carpaccio, Storie di S. Orsola, Ritorno degli ambasciatori alla corte inglese, 1490 circa, Galleria dell’Accademia, Venezia Sandro Botticelli, Madonna del Magnificat, 1485 circa, Galleria degli Uffizi, Firenze

Sandro Botticelli (Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, 1445-1510) era figlio di un conciatore di pelli. Fu forse garzone nella bottega di Filippo Lippi, più tardi con ogni probabilità in quella del Verrocchio, dove incontrò Leonardo. Ce lo conferma quest’ultimo, precisando che “Botticello” non amava temi profani, nel caso dovevano essere edificanti. Leonardo invece affermava che ogni cosa va dipinta alla perfezione perché ogni cosa ha diritto alla rappresentazione, anche la più umile.

Si vuole che la questione religiosa fosse sopravvenuta in Sandro con il governo del Savonarola a Firenze verso la fine del ‘400, nella realtà essa appare già adombrata in alcune opere precedenti, come in questa “Madonna del Magnificat”.

In essa sono ravvisabili i segni di una sorta di conversione e di pentimento per la trascrizione quasi automatica del pensiero umanistico fatta dal Nostro precedentemente e contemporaneamente. Botticelli è responsabile della “Primavera e della “Nascita di Venere”, due opere sicuramente d’occasione che rispecchiano la fusione fra natura e spirito divino: un avvenimento dovuto alla maturità dell’uomo. Neoplatonismo fiorentino e Cristianesimo appaiono fusi insieme per la gloria umana. Tuttavia forse troppo glorioso quest’uomo che rapidamente si è impossessato dello spirito superiore, grazie agli aiuti esterni, quelli pagani della Grecia classica e quelli divini della Bibbia, i cui punti di contatto apparivano evidenti a una umanità imbevuta di testi preziosi e di adeguate metabolizzazioni degli stessi.

Infatti, in animi sensibili, come quello di Botticelli, un timore di inadeguatezza nel trattare certi temi da pari a pari esplose con la crisi medicea e con l’elevazione al potere di Gerolamo Savonarola, un instancabile fustigatore delle pretese umane di sfidare il divino. Nelle opere successive, Botticelli badò alle proprie inquietudini, non accettò l’imporsi del pensare e del fare umanistico.

In questa Madonna, tutto appare come sospeso, colto in un momento di beatitudine. Non c’è né devozione irrazionale né trionfalismo intellettuale. Botticelli si esprime attraverso i colori, la cui consistenza appare insuperabile.

Il gioco cromatico è una festa sentimentale, composta di entrambi gli elementi, fede e ragione (con prevalenza naturale della fede), nascosti fra loro e confluenti verso un misticismo consapevole, cioè non casuale, non immediato e non inerte.

Domenico di Tommaso Bigordi (1449-1494) fu chiamato Ghirlandaio, secondo Vasari, per traslazione dal soprannome dato al padre, ghirlandaio perché, pare, inventore della ghirlanda e magnifico intrecciatore delle stesse. Il padre era orafo solo secondo Vasari, in realtà, ma pare anche qui, avrebbe voluto diventasse orafo il figlio, presto attratto, però, dalla pittura.

Il nostro pittore fu forse nella bottega di Alessio Baldovinetti, gran mosaicista e convinto assertore della bontà di ogni soggetto. Allora il paesaggio, in particolare, era considerato come cosa non definibile, vuoi per l’appartenenza alla sfera divina, vuoi per il timore di offrire qualcosa di inferiore alla divinità. Gli Italiani, grazie a personaggi come Baldovinetti, decisero, a differenza dei Fiamminghi, di definire responsabilmente la realtà, per ottenere quella credibilità morale diretta predicata dall’Umanesimo.

Il Ghirlandaio ebbe poi una propria bottega che divenne in breve la più importante di Firenze, grazie alla protezione dei Medici e della seconda famiglia fiorentina, i Vespucci. Michelangelo, allora tredicenne, esordì lì. Domenico, ormai famoso, fu a Roma e vi lavorò con successo, poi fu di nuovo a Firenze, dove fu richiestissimo come ritrattista dell’alta società fiorentina, oltre che come affrescatore di chiese in Firenze e nei dintorni. La sua operatività, intensissima, durò un ventennio; morì di peste a soli quarantacinque anni.

Il “Ritratto di vecchio con nipote” è un dipinto insolito nella sua produzione. Vi è rappresentato un crudo realismo, mitigato da un sentimento di rara pregnanza, proveniente dall’interiorità. Il vecchio è l’umanità che si fa domande e non si dà risposte vaghe. L’assenza del ricorso trascendentale e irrazionale fa sorgere l’idea di un abbandono cosciente in una razionalità che spieghi la trascendenza, così come è nell’intimo della mentalità umanistica. Il vecchio è nella fase iniziale dell’idea ed è già stanco di avere idee nuove, ma indulge nel voler dare comunque una testimonianza significativa di sé, senza tuttavia pretendere chissà che.

Di Vittore Carpaccio (1465?-1526?) sono più importanti i primi lavori. Il pittore veneto era sicuramente più adatto a rappresentare una realtà fatata, ovvero permeata di sacralità. Non dimentichiamo i committenti religiosi, ma non dimentichiamo neppure il clima comunque religioso che stava sopra la società. Possiamo pensare a un clima sottostante il potere laico, ma non certo emarginato, anzi pronto a rivivere in ogni momento.

Carpaccio era uno specialista in teleri (grandi tele) piene di storia. Quella di S. Orsola, tratta da Jacopo da Varagine, si prestava a una drammaticità intrigante. Si tratta di un racconto che Carpaccio divide in nove stazioni, di cui questa è forse la più significativa. Lo è per l’inserimento di visioni geometriche perfette in un racconto da fiaba. La fiaba mantiene la sua dignità, ma è “osservata” razionalmente: l’artista vi aggiunge della geometria vertiginosa, ponendola discretamente al servizio della trascendenza. Il Carpaccio, che lavorò moltissimo per la Serenissima, non va oltre lo sguardo umanistico, lascia che il sacro abbia preminenza, assecondando il convenzionalismo in auge da secoli. La sua è una devozione per così dire obbligata.

Egli accosta razionalità e irrazionalità, rispettando la fede cristallizzata e tentando incursioni virtuosistiche, secondo certi suggerimenti laici del tempo. Le immagini bloccate e poste come figurine di un presepio, saranno d’esempio per successivi artisti veneziani. Carpaccio finì in provincia dove poté riproporre instancabilmente bagliori datati e stanchi, belli in sé.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte
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Aggiornamento: 09/02/2019