ARTE ANTICA MODERNA CONTEMPORANEA |
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Arte fiamminga
Robert Campin, Annunciazione (1430) - Museo del Prado, Madrid
Rogier van der Weyden, Deposizione (1435) - Museo del Prado, Madrid Robert Campin (1375-1444) è conosciuto anche come Maestro di Flémalle o di Mérode (il Trittico di Mérode e servito di base per la ricostruzione della sua personalità pittorica). Egli è posto accanto a Jan van Eyck nella creazione della pittura fiamminga: pittura a olio, attenzione al volume dei corpi e delle cose, concentrazione sul dettaglio, virtuosismo mai fine a se stesso, sbalorditiva abilità cromatica. L’annunciazione del Prado è insolita nella pittura di Campin. Il Maestro fiammingo ripresenta una visione gotica, fortemente impregnata di spiritualità e di simbolismo, secondo canoni ormai esausti per ossessiva ripetizione degli stessi nell’area nord europea. Qui Campin apre l’architettura gotica e all’interno vi pone figure meno legate a quella mentalità, ma ancora disposte a subire gli effetti di una religiosità imposta e al contempo emozionante. Ciò che trasmette, principalmente, la pittura fiamminga è questo fascino della fede che solleva dalle pene terrene e fa sognare un mondo ideale. L’artista, Campin, suggerisce, con la sontuosità delle immagini, una sorta di comprensione del sacro e di condivisione della sua importanza, da parte dell’uomo, per la morale esistenziale. La ricchezza fiamminga si traduce, in questa esibizione artistica, con la dimostrazione della raggiunta e opportuna dignità di saper riprodurre il giusto clima spirituale divino: tutto questo da una posizione subordinata, ma non servile. Campin dimostra il possesso di una certa coscienza nella trattazione delle cose “superiori”, ed è una coscienza devota quanto orgogliosa della devozione esplicitata. L’artista pone l’orgoglio del risultato figurativo al centro della preoccupazione esecutiva. L’eleganza e la raffinatezza del dipinto sono nella sua resa lenticolare, sono nell’impegno di presentare adeguatamente ogni particolare. Campin agisce come se stesse componendo un mosaico: si occupa di ogni tessera e a ogni tessera dà importanza assoluta. In effetti, l’insieme risente della costituzione di parti e le figure dell’angelo e della Vergine sembrano apposte alla fine della laboriosa ricostruzione della cattedrale, come spiata nella sua sacralità. L’artista non fornisce un’immagine armoniosa e ordinata probabilmente per due motivi: isola la sua attenzione nell’impegno figurativo perfetto (nel proposito di creare qualcosa di degno per il pensiero divino) e non osa insistere nella trattazione spirituale per una qualche inadeguatezza intellettuale che non riesce a rimuovere, né vuole farlo, bastandogli l’estasi, pur se provocata. Rogier van der Weyden (1399?-1464) fu un allievo di Robert Campin. Divenne maestro indipendente a oltre trent’anni. Viaggiò parecchio e fu in Italia (a Milano, Mantova, Ferrara, Firenze e Napoli) dove apprese molto e molto lasciò (al suo allievo Zanetto Bugatto, ad esempio). Fu pittore ufficiale di Bruxelles e della corte di Borgogna. Realizzò numerose opere (ritratti per nobili, per ricchi borghesi, opere ecclesiastiche) e fu tra i primi a usare la tela a nord delle Alpi. Rogier van der Weyden prese probabilmente da van Eyck, oltre che da Campin, la monumentalità scenica, la figurazione di grande respiro, per dare maggior valore alle immagini proposte. Ma poi fu autonomo nell’esecuzione, abbandonando la stretta rigidità delle figure e azzardando una plasticità sconosciuta ai pittori fiamminghi. L’ispirazione plastica gli venne sicuramente dalla visione delle opere italiane, ma certo la sua determinazione nel proporla in patria, pur con le dovute attenzioni, fu un atto di straordinario coraggio che gli valse plauso e successo presso committenze più libere rispetto a quelle tradizionali. Ad esempio, la “Deposizione” gli fu commissionata dalla gilda dei balestrieri di Lovanio e posta quasi a forza nella chiesa locale. Il movimento del corpo di Cristo e la caduta della Vergine potevano disturbare la concentrazione dei fedeli, distrarli: c’era il rischio del ricevimento di una banalizzazione nella trattazione del tema sacro e intoccabile nei suoi stilemi classici. La scena è teatrale e lo stesso pittore se ne rende conto, correndo ai ripari con le figure di contorno. Ne esce un’opera disequilibrata, ma proprio per questo affascinante. Con una specie di sforzo sovrumano, van der Weyden cerca di eseguire una narrazione concitata, ma ordinata nella concitazione grazie ad uno sfondo convenzionale. Le altre figure seguono la scena assumendo posizioni rigide, qualcuna un po’ sgraziata a sottolineare pesantemente la tragicità di ciò che sta avvenendo sotto i suoi occhi. Miracolosamente, il pittore fiammingo riesce a rendere accettabile questo insieme non omogeneo, avvalendosi di una perizia esecutiva eccezionale e una capacità coloristica straordinaria. Il dipinto abbaglia, la scenografia complessiva è molto curata, il senso del sacro ha una sua profondità, il plasticismo, neanche tanto contenuto, suscita una pietas immediata, sanguigna e allo stesso tempo aggraziata. Dello stesso autore:
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