LA SCIENZA DEL COLONIALISMO
Critica dell'antropologia culturale
La scientificità dell'antropologia culturale
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I
Le pretese scientifiche dell'antropologia culturale sono una diretta conseguenza delle pretese scientifiche dell'antropologia fisica o biologica, ch'era però tutto meno che “scientifica”, in quanto rigidamente evoluzionistica, inguaribilmente eurocentrica e tendenzialmente razzistica.
È vero, quando nacque l'antropologia culturale, con gli inglesi Tylor e Frazer e con l'americano Morgan, si cercò di rinunciare al razzismo e all'eurocentrismo; si cercò di separare le questioni biologiche da quelle culturali; ci si sforzò di guardare le comunità indigene con gli occhi del relativismo culturale; ma nella sostanza si rimase evoluzionistici e positivistici. Prima che l'antropologia avverta l'importanza delle teorie socialiste bisognerà attendere la fine della II guerra mondiale e soprattutto la contestazione operaio-studentesca degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. (1)
Si era in sostanza convinti che tutte le popolazioni fossero destinate a proseguire un cammino storico simile a quello occidentale, in cui le differenze avrebbero potuto riguardare soltanto i tempi, i mezzi e i modi, ma non il risultato finale (questo però senza tener conto che uno stile di vita borghese aveva iniziato a imporsi in un tempo piuttosto remoto, intorno al Mille, nei primi Comuni italiani).
La fondamentale certezza del valore dell'evoluzionismo era data dal grande sviluppo della tecnoscienza, dei mercati internazionali e degli Stati nazionali, politicamente e militarmente molto forti. Nulla poteva essere paragonato alla potenza dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti. L'unica eccezione era costituita dal Giappone, che però non ha mai avuto la pretesa di rappresentare un “modello mondiale”, ma, al massimo, “asiatico”.
L'idea centrale di questi antropologi evoluzionistici era che la “primitività” delle popolazioni indigene dipendeva dalle loro religioni animistico-totemiche e politeistiche, troppo infarcite di credenze feticistiche, magiche e mitologiche. Essi pensavano che sarebbe stato un grande passo avanti abbandonare queste religioni per abbracciare almeno il monoteismo: ciò in quanto tutti erano convinti che, prima o poi, la scienza avrebbe sostituito qualunque forma di religione.
Se tali antropologi borghesi avessero letto il capitolo del Capitale di Marx, dedicato al “feticismo delle merci”, l'avrebbero inevitabilmente considerato, come già gli economisti borghesi e persino gli strutturalisti marxisti, il frutto di una mera elucubrazione filosofica priva di senso. Con ciò però avrebbero perso un'occasione preziosa per capire che proprio in quel testo l'autore aveva scoperto che il modo borghese di trattare la “merce” era straordinariamente somigliante al modo cristiano di trattare la “divinità”, alla faccia delle presunta scientificità dell'economia politica classica.
Di regola per “autori classici” dell'antropologia culturale contemporanea non s'intende la suddetta triade (Tylor, Frazer e Morgan), ma un terzetto che ha operato tra le due guerre mondiali e nel secondo dopoguerra: Franz Boas (1858-1942), caposcuola tedesco dell'antropologia statunitense e maestro di una generazione di brillanti studiosi (Alfred Kroeber, Edward Sapir, Ruth Benedict, Margaret Mead, Robert Lowie, Abram Kardiner, Ralph Linton); poi il polacco Bronislaw Malinowski (1884-1942), teorico del funzionalismo antropologico, che trovò grandi estimatori in Alfred R. Radcliffe-Brown (1881-1955) (2) e in Edward E. Evans-Pritchard (1902-73); infine il franco-belga Claude Lévi-Strauss (1908-2009), massimo esponente dell'antropologia strutturale mondiale. (3)
Costoro iniziarono a separarsi dalla sociologia nei primi anni del XX sec., ritenuta inidonea per capire le realtà primitive. Émile Durkheim si muove ancora in una via di mezzo tra le due discipline: da un lato s'interessa dei fenomeni di massa delle società capitalistiche, dall'altro delle religioni australiane indigene. Se vogliamo l'antropologia culturale contemporanea è una sociologia che, nell'applicarsi allo studio delle comunità indigene, ha bisogno di dotarsi di strumenti diversificati, come p.es. quelli semiotici e linguistici.
Franz Boas frequentò le riserve di alcuni nativi americani della costa nord-ovest degli Stati Uniti. Era convinto che la testimonianza del ricercatore potesse ritenersi scientifica solo se “oculare”. Di qui il suo motto: “Tutti sul campo!”. Il metodo di ricerca doveva per forza essere induttivo, sul modello delle scienze naturali: 1) osservazione diretta dei fatti concreti, evitando le precomprensioni e cercando di apprendere bene la lingua della comunità da osservare: in tal senso Boas viene considerato un precursore della etno-linguistica; 2) elaborazione di leggi e teorie successiva alla raccolta e all'analisi comparativa dei dati, che doveva avere una componente “storica”, diversamente da come facevano gli evoluzionisti. La debolezza di questo metodo stava proprio nel primo punto, là dove si pretendeva che l'antropologo potesse spogliarsi del proprio background, calandosi in prima persona nel contesto vitale della comunità indigena.
Secondo Boas e la sua scuola (influenzata dalla psicologia delle forme e dalla psicanalisi) ogni cultura possiede delle peculiarità che la rendono unica e irripetibile, per cui è inutile collocarla in uno schema universale, come appunto quello degli stadi evolutivi (“diverso” non significa “inferiore”). Questo “particolarismo storico-culturale” veniva considerato una premessa irrinunciabile per poter attribuire una validità euristica a ogni cultura, in rapporto all'ambiente in cui essa si è formata e sviluppata. Per lui quindi non aveva senso il comparativismo legato a un processo evoluzionistico lineare.
Tuttavia, applicando a delle comunità indigene, soggette al colonialismo occidentale, gli stessi metodi delle discipline scientifiche, la sua metodologia finiva col diventare riduzionistica dei problemi sociali di quelle stesse comunità. Nel senso che se da un lato era giusto negare che tutte le comunità dovessero per forza diventare come le società occidentali, dall'altro però si sarebbe dovuto ammettere che l'occidente pretende, con la propria “pratica capitalistica”, che, in qualche modo, lo diventino. Se anche in natura non esiste un processo uguale per tutti, la storia finisce con l'imporlo ugualmente.
Le comunità umane si sono condizionate reciprocamente per molti millenni, ma è stato solo il colonialismo europeo a costringere quelle tecnologicamente più deboli a rinchiudersi in se stesse per poter sopravvivere o a integrarsi, contro la loro volontà, nel sistema dominante, perdendo progressivamente la propria identità. Vedere questa chiusura o, al contrario, questa assimilazione come fenomeni originari e naturali, non derivati da precisi condizionamenti, è quanto meno una posizione ingenua, se non addirittura scientemente strumentale alle stesse dinamiche colonialistiche. Nel proprio forzato isolamento o nella propria integrazione le comunità indigene, avendo già perduto la propria specificità, avrebbero mentito anche a un antropologo che avesse chiesto di sottostare a un rito specifico per diventare un loro membro a tutti gli effetti.
In presenza di una civiltà cristiano-borghese, che ha pretese di diffusione mondiale, ritenendosi la “salvezza dell'umanità”, fonte dispensatrice di verità assolute, religiose e scientifiche, è impossibile non valutare ogni comunità secondo parametri esterni a quella stessa comunità. Gli antropologi non possono rinunciare ai condizionamenti culturali che li formano come “scienziati”, non possono spogliarsi di quel che sono, restando “antropologi” di realtà diversissime da quelle da cui provengono. È impossibile calarsi in uno stile di vita pre-borghese senza assumerlo definitivamente come proprio, rinunciando alle proprie origini culturali. Si può essere relativisti quanto si vuole, ma non lo sarà mai sino in fondo la cultura da cui si proviene, proprio perché la “cultura borghese” è “centralistica” per definizione. Che al “centro” vi sia l'Europa occidentale o gli Stati Uniti o il “globalismo capitalistico” diffuso su tutto il pianeta, non fa molta differenza. Si può transigere sulle “forme” dell'imperialismo, ma non sul fatto che il mercato è opposto all'autoconsumo, che il valore di scambio ha un primato assoluto sul valore d'uso, che lo scambio monetario non ha nulla a che fare col baratto delle eccedenze, che la democrazia rappresentativa è superiore a quella diretta, e così via. In una parola non serve a niente cercare un contatto con delle realtà primitive quando poi lo stile di vita di queste realtà non viene minimamente usato per contestare lo stile di vita delle società avanzate cui tutti noi apparteniamo.
Passiamo ora a Bronis?aw Malinowski, che trasferì in campo antropologico la precedente formazione ottenuta in campo fisico-matematico. Egli frequentò in tre momenti diversi (ogni volta da sette a dodici mesi) le isole Trobriand (1914-18), un arcipelago situato al largo delle coste della Nuova Guinea, abitato da una popolazione di papua-melanesiani (di cui imparò la lingua), ma era già stato in Australia nel 1913. Dalle sue osservazioni nacque Argonauti del Pacifico occidentale (1922), un classico dell'antropologia.
Pur volendo comprendere la visione del mondo di quella popolazione indigena, evitò di porre domande su temi astratti e generali, come per es. la giustizia o la punizione dei reati, preferendo l'analisi di fatti concreti. S'interessò di tutta la loro vita quotidiana, servendosi della collaborazione di alcuni informatori. Usava carta, matita e macchina fotografica; molto utili furono anche le tavole riassuntive sinottiche, soprattutto per le genealogie e i riti magici.
La sua analisi ruota attorno al concetto di “funzione”, a partire dalla sua dimensione biologica, secondo cui un organo compie la funzione cui è preposto, sia singolarmente che in relazione ad altri organi. Una società è un complesso funzionale, in cui ogni realtà singola è indispensabile al sistema nella sua interezza. La funzione di un oggetto cambia a seconda del contesto in cui lo si usa, anche nel caso in cui resti invariata la sua forma. (4)
Anche la religione, secondo lui, svolge una funzione utile. Essa infatti è in grado di rispondere ai bisogni dell'uomo nei confronti dell'ambiente; aiuta a dare corpo alla speranza, a placare l'ansia di fronte alla morte, alla malattia, a tutto ciò che sfugge a un controllo razionale. Sotto questo aspetto non esiste una differenza sostanziale tra magia e religione: la magia aiuta ad affrontare le difficoltà causate dalla natura.
Dunque, gli usi, le tradizioni e le istituzioni di una società sono tra loro correlati, sicché il cambiamento di uno comporta la modifica di tutti gli altri. Si può iniziare a studiare qualunque oggetto, partendo anche dal più banale: prima o poi però si deve per forza arrivare all'insieme.
Perché anche questa era una posizione ingenua? Semplicemente perché in presenza del colonialismo (quello inglese finanziava il suo soggiorno) non si può affatto sapere se la conservazione di un aspetto della comunità indigena sia in grado di assicurare l'insieme della comunità stessa. Non era raro vedere gli stessi indigeni illudersi di poterlo fare.
Se si accetta, olisticamente, che tutte le parti di un organismo siano tra loro collegate, non si può però escludere che alcune parti siano più importanti di altre (per es. è assolutamente prioritaria la possibilità di usare liberamente le risorse di un determinato territorio). Se queste parti fondamentali vengono meno a causa del colonialismo, ne risentono inevitabilmente anche tutte le altre; sicché alla fine ciò che l'antropologo può osservare è solo una sopravvivenza destinata col tempo a scomparire. E non ci sarà modo che elementi meno importanti della comunità (per es. le relazioni parentali) possano ripristinare ciò che si è perduto. Questo spiega perché il funzionalismo strutturale avrebbe senso solo se la comunità indigena fosse libera di gestire il proprio ambiente vitale. (5)
Vediamo ora brevemente Claude Lévi-Strauss (per l'approfondimento si veda il capitolo specifico). Egli si è posto in maniera inversa a Boas, nel senso che la sua principale preoccupazione è stata quella di cercare quegli elementi ricorrenti e quindi universali che orientano i comportamenti umani sul piano sociale, collettivo, e che si trovano alla base di tutte le culture. Diceva che questa sua preoccupazione derivava da alcuni testi di Rousseau, da lui considerato il vero fondatore dell'antropologia.
La sua metodologia è stata definitiva “strutturalista” non solo perché influenzata dalla filosofia strutturalista presente in Francia tra il 1960 e il 1970, ma anche perché veniva elaborata con strumenti logico-matematici, con cui si esaminavano gli aspetti di lunga durata nella vita delle comunità, cioè le strutture portanti che le tenevano in piedi. Lévi-Strauss era convinto che nella mente umana vi sono strutture comuni a tutti gli homo sapiens: per es. il bisogno d'imporre un ordine o una classificazione agli aspetti della natura, alla relazione dell'uomo con la natura, alle relazioni tra esseri umani. Uno dei mezzi più comuni usati per classificare è l'opposizione binaria: bene e male, vecchio e giovane, maschio e femmina, guerra e pace, cielo e terra ecc. Il bisogno umano di convertire le differenze di grado in differenze di specie è universale. Dall'unione di queste dicotomie risulta una totalità organizzata. L'opposizione non è un ostacolo all'integrazione, anzi, la favorisce. Lèvi-Strauss non vedeva contraddizioni inconciliabili, cioè la pretesa di far valere un elemento dell'opposizione binaria su un altro.
Egli si concentrò principalmente su due campi d'indagine: i miti e i rapporti di parentela. Sulle strutture di parentela decisiva è stata l'influenza del linguista russo Roman Jakobson, che, non a caso, era uno strutturalista. In questo campo Lévi-Strauss individuò una legge universale dei legami di parentela: il tabù dell'incesto, cioè la proibizione dell'unione sessuale con parenti stretti, e quindi l'obbligo dell'esogamia, la regola di sposarsi al di fuori del proprio gruppo di appartenenza. Lo scambio esogamico delle donne, secondo lui, non serviva soltanto per preservare l'integrità fisica della discendenza da malattie derivanti dalle unioni tra consanguinei (6), ma aveva anche la stessa funzione dello scambio linguistico nei rapporti comunicativi e di quello delle merci in economia: doveva servire per tenere in pacifico contatto i diversi gruppi e per far progredire la loro cultura. In ciò era debitore delle riflessioni di Marcell Mauss (1872-1950), riportate nel Saggio sul dono del 1923-24, ma anche delle ricerche psicanalitiche di Lacan, per il quale la struttura delle relazioni sociali prevede, a livello inconscio, la reciprocità e lo scambio.
Egli scoprì anche che in genere sono le donne a spostarsi nella tribù del marito, per cui la discendenza segue la linea maschile. In ciò contraddiceva i risultati delle ricerche di Malinowski, che rimase stupito dalla grande libertà sessuale prematrimoniale delle trobriandesi e dal fatto che la discendenza fosse matrilineare, al punto che la figura maschile più importante del nucleo familiare non era il marito ma il fratello della moglie, cui spettava la tutela e l'educazione dei nipoti.
D'altra parte nelle società primitive i legami parentali svolgevano una funzione determinante per la vita sociale, proprio perché non si era degli sradicati. Il sangue, la genealogia, i matrimoni strategici, la vita del clan costituivano la base della società civile. A noi occidentali queste cose paiono superate proprio perché siamo fondamentalmente individualisti e lasciamo che enti estranei, come lo Stato e il mercato, dominino il nostro vissuto quotidiano.
Egli si era anche accorto che nei miti si potevano costruire storie molto diverse tra loro semplicemente invertendo l'ordine degli elementi, cioè convertendo l'elemento positivo di un mito nel suo corrispondente negativo. Due miti apparentemente diversi finivano con l'essere due variazioni di una struttura comune, cioè pure trasformazioni linguistiche.
Sulla questione dei miti si può fare la seguente osservazione. (7) Oggi, dopo mezzo millennio di colonialismo, è impossibile sapere se i miti indigeni siano davvero un prodotto spontaneo, originario, autoctono o non piuttosto un prodotto derivato da una reazione a una realtà che impedisce d'essere se stessi. Si raccontano miti, fiabe o favole per puro divertimento o con intenti educativi, per insegnare qualcosa di utile usando un linguaggio figurato, simbolico, per molti versi avvincente, che rimane impresso molto facilmente nella memoria. Ma una cosa è farlo in uno stile di vita basato su libertà e uguaglianza; tutta un'altra è farlo quando si è costretti a subire il dominio di una potenza straniera. I miti servono per spiegare cose il cui significato razionale sfugge o servono proprio per spiegare, usando altre parole, un senso ancestrale delle cose, ma se vengono elaborati per sostenere che non esiste una vera razionalità nella vita quotidiana o nell'universo, allora si può anche pensare ch'essi siano stati influenzati da un regime oppressivo.
Qui possiamo aggiungere che i primi miti sulla creazione della natura da parte di un dio maschile che separa il cielo dalla terra, risalgono a circa 5000 anni fa, in pieno Neolitico. Fino ad allora l'unico dio esistente era la stessa natura. La radice culturale neolitica, che considera la natura un insieme di oggetti senz'anima, che il Padreterno mette a disposizione degli esseri umani, è stata ereditata dalla cultura giudaico-cristiana (8), che l'ha poi trasmessa, in forma laicizzata, alla cultura cristiano-borghese. Da un punto di vista “eco-filosofico” non vi è alcuna differenza tra una concezione teocentrica e una antropocentrica della vita, in quanto entrambe costituiscono una forma di violenza nei confronti di una concezione “eco-centrica”.
L'antropologia della seconda metà del Novecento cambia registro, essendo influenzata dalle idee del socialismo, ma lo fa fino a un certo punto. In realtà è l'eclettismo a dominare.
In particolare negli anni Settanta si è cominciato a mettere in dubbio che il punto di vista dell'antropologo sia davvero obiettivo, realistico. Anzi, si cominciò a pensare che le sue relazioni scritte servissero piuttosto a dare solidità al colonialismo. Ciò sulla base della convinzione secondo cui le culture primitive non sono affatto così ancestrali come si vuol far credere, ma frutto di mutamenti significativi causati dal colonialismo stesso. Il fatto stesso di vedere la cultura di una comunità come qualcosa di isolato (e quindi di inalterato) rispetto ad altre culture, facilmente analizzabile proprio in forza di tale isolamento, fa già parte di una visione distorta della realtà. L'isolamento, infatti, è sempre una reazione anomala a un condizionamento indesiderato. La cultura indigena ha subìto modificazioni regressive, implicanti relazioni sociali molto più difficili. Gli stessi primitivi rischiano di non sapere più chi sono, proprio perché troppo influenzati dal colonialismo culturale.
Questo forse spiega il motivo per cui l'antropologia moderna non venga quasi più applicata, di preferenza, allo studio delle comunità primitive: non solo perché di quelle poche rimaste si sa già praticamente tutto, ma anche anche perché esse tendono a scomparire sotto il peso della globalizzazione del capitale, che ha investito anche i paesi che si sono liberati del classico colonialismo, rozzo e brutale.
L'antropologia, che in fondo è una scienza borghese come tante altre, desiderosa di soddisfare nuove curiosità intellettuali, non fa che adeguarsi a tale processo, limitandosi a modificare il proprio oggetto d'indagine o addirittura il proprio statuto epistemologico. Non studia più il “primitivo”, ma esplora gli “altri”, in senso generico, nella consapevolezza di non possedere più le sicurezze d'un tempo. Anche le società industriali, soprattutto nelle loro aree periferiche o spersonalizzate, sono oggetto di ricerche antropologiche. In questa maniera però la specificità della disciplina si esprime, di volta in volta, a seconda dell'aspetto trattato, usando argomenti sociologici, psicologici, filosofici, ecc.
A dir il vero esiste una corrente antropologica che si oppone nettamente al particolarismo culturale della scuola di Boas, avvertendo l'esigenza di tracciare delle linee universali dello sviluppo umano. L'archeologo britannico di origine australiana, Vere Gordon Childe (1892-1957), precursore di molte teorie archeologiche della seconda metà del Novecento, l'ha definita “neo-evoluzionismo”. A suo dire esiste una molla del progresso storico che caratterizza l'intero pianeta: è il modo in cui l'essere umano si procura i mezzi di produzione. Detto questo, è facile individuare i tre principali stadi dell'umanità: il paleolitico (caccia, raccolta, uso della pietra), il neolitico (agricoltura e allevamento specializzati) e le civiltà (urbanizzazione, classi sociali, divisione del lavoro, Stati nazionali...). Il processo è lineare: non si può più tornare indietro. L'ultimo stadio è il migliore. Pur essendo vicino al marxismo, Childe utilizza Marx come se fosse stato un teorico della borghesia. (9)
L'antropologo statunitense, Leslie White (1900-75), fa, in un certo senso, la stessa cosa. Egli ritiene che ogni società, quindi anche una comunità primitiva, possa essere suddivisa nei suoi tre aspetti fondamentali: il sistema tecnologico (gli strumenti materiali con cui si cerca di dominare la natura); il sistema sociologico, riguardante le relazioni umane; e il sistema ideologico (idee, arte, linguaggi, religioni, miti...). Dei tre sistemi egli ritiene il primo il più importante, e solo per questo presume di rifarsi al marxismo!
Medesima presunzione la si ritrova in Marvin Harris (1927-2001), che propone una ripartizione triadica non molto diversa: 1) infrastruttura (tecnologia, economia e demografia); 2) struttura (forme di parentela o di discendenza, modelli di distribuzione e consumo); e 3) sovrastruttura (religione, ideologia, cultura, gioco). Marvin usa una terminologia marxista solo perché i tempi lo richiedono, ma poi la fa confluire verso la psicologia comportamentistica, la demografia di Malthus, la selezione naturale di Darwin: un pout-pourri privo di vero senso critico. (10)
Harris fa anche un discorso anticolonialistico, ma solo per sostenere che, in ultima istanza, gli aspetti tecnologici prevalgono su tutti gli altri. Siccome tutto è integrato, quando si interpretano i fattori sociologici e ideologici, bisogna verificare quale influenza gli aspetti tecnologici hanno avuto su questi ultimi.
Come si può notare, i suddetti antropologi uniscono un materialismo culturale di provenienza marxista con un neo-evoluzionismo di provenienza borghese. Si sforzano di guardare le cose in maniera olistica, attribuendo una certa importanza agli aspetti tecno-scientifici o materiali, che consentono a una comunità di esistere (in tal senso si dà per scontato che la natura vada “dominata”). Poi ovviamente non resistono alla tentazione di dire che la migliore tecnologia è quella occidentale, per cui le comunità indigene devono uscire dal loro “primitivismo”. Il loro è un materialismo eclettico, che prende dal marxismo l'analisi preliminare degli strumenti produttivi, ma poi va a cercare altrove il contesto ideologico in cui collocare tale analisi, che, guarda caso, è sempre a favore dello sviluppo capitalistico.
Per giustificare la mancanza di senso critico dell'antropologia contemporanea, lo statunitense Clifford Geertz (1926-2006) è arrivato addirittura a sostenere che le comunità primitive non possono più apparire per quello che sono, ma soltanto sulla base di quanto esse dicono di essere. Sicché l'antropologo scrive testi che in realtà sono soltanto interpretazioni di interpretazioni. Le società, incluse quelle primitive, sono fenomeni troppo complessi per poter essere analizzate adeguatamente. Il pensiero non può essere che “debole”. Una qualunque teoria generale rischia di essere solo molto approssimativa.
Con ciò però il discorso è chiuso. Se per Geertz non è possibile che una comunità sia sincera di fronte a un ricercatore, a che pro continuare a interessarsi delle sue caratteristiche? Inevitabilmente si finisce col fare un bel regalo a quelle teorie globalistiche che ambiscono a vedere tutto il mondo uguale, dipendente da poche multinazionali che producono ogni cosa. Se anche nelle comunità primitive permangono delle diversità, queste vanno considerate delle varianti che possono suscitare semplici curiosità intellettuali. Gli occidentali han forse bisogno di conoscerle? Magari a livello turistico sì.
In genere l'impostazione borghese dell'antropologia culturale contemporanea resta ben visibile là dove vengono messe sullo stesso piano la disparità delle ricchezze, le minacce all'ambiente, le nuove pandemie, le differenti religioni, ecc. Tutto sulla stessa bilancia, come se non vi fosse una causa a monte e tanti effetti a valle. Si dà per scontato che il capitalismo sia inamovibile, ineludibile. (11) D'altra parte come possono esistere aspetti sociali più gravi di altri, quando ogni cosa viene considerata equivalente a un'altra? Peraltro, non è forse vero che oggi tutto risulta interconnesso, soggetto a medesimi condizionamenti? I flussi di capitali, di messaggi, di migranti, di merci da un capo all'altro del mondo non hanno forse reso quest'ultimo una realtà molto piccola, dove è impossibile vedere cosa costituisce una “causa” e cosa rappresenta un “effetto”?
Peccato che in una tale visione pseudo-olistica delle cose si eviti accuratamente di dire che le realtà interdipendenti non sono affatto tra loro paritetiche, ma profondamente disuguali, di cui una pretende d'essere egemonica, mentre le altre devono sentirsi subalterne. La stessa progressiva scomparsa delle comunità indigene non viene vista come una grandissima tragedia dell'umanità, che, in tal modo, non sarà più in grado di guardare al proprio passato per capire come risolvere i problemi del proprio presente; viene vista invece come un destino ineluttabile, cui nessuno può farci niente. La teoria evoluzionistica, che Darwin aveva applicato alla natura, continua ad essere applicata anche agli esseri umani.
Campioni dell'antropologia post-modernista sono James Clifford e George Marcus, con loro manifesto Scrivere le culture, con cui mettono in discussione l'attendibilità scientifica del resoconto etnografico. Per loro non esiste un osservatore neutrale, ma soltanto un interprete (l'antropologo) che si confronta con un altro interprete (l'indigeno). Entrambi raccontano cose condizionate dai rapporti colonialistici. Di oggettivo non esiste nulla. Sembra che questi eminenti studiosi abbiano “riscoperto” l'America!
Noi non possiamo migliorare le condizioni della natura in poco tempo. Con la tecnologia attuale non possiamo che peggiorarle. Non esiste una tecnologia industriale che non abbia sulla natura alcun impatto devastante. Per es. l'idea di sostituire le auto a idrocarburi con quelle elettriche è illusoria, oltre che pericolosa, perché sicuramente avremo altri, nuovi e non meno gravi problemi da risolvere (dove sotterreremo le batterie dismesse? e con quali materiali potremo costruirle per farle durare il più possibile? o per far durare il più possibile la loro ricarica?). E non è che fra un secolo potremo pensare di sostituire le macchine elettriche con quelle a propulsione nucleare. Andando avanti di questo passo finiremo con accelerare di molto la fine naturale del nostro pianeta.
La natura è stata rovinata in maniera irreparabile nell'arco di tre secoli. Se poi partiamo dalla nascita dello schiavismo (le prime civiltà antagonistiche che abbiamo sperimentato), il periodo è di circa seimila anni. Nei siti archeologici risalenti a epoche precedenti al 5500 a.C. non si riscontrano prove dell'esistenza di disuguaglianza sociale (abitazioni e tombe si somigliavano). In tutto questo tempo non siamo riusciti a capire che, su questo pianeta, prima è nata la natura, e solo dopo molto tempo è venuto fuori l'essere umano. Gli enormi deserti che abbiamo creato sono lì a testimoniare la nostra insipienza.
La natura ci precede di molto con le sue leggi oggettive, le quali, se vengono violate, provocano effetti catastrofici. Siamo arrivati a un punto in cui la natura è in grado di riprendersi ciò che le appartiene solo se noi non ci siamo. Considerando poi che nel nostro pianeta tutto è interconnesso e interdipendente, i disastri compiuti in un luogo hanno, prima o poi, conseguenze su tutti i luoghi, anche su quelli più remoti e impensati.
L'unico modo per permettere alla natura di risollevarsi, curando da sola le proprie ferite, è quello di ripensare completamente non solo l'uso della tecnologia ma anche la stessa tecnologia, rinunciando alle comodità “borghesi” ch'essa ci offre. Dobbiamo smetterla di cercare nel sottosuolo le fonti energetiche con cui vogliamo vivere sulla superficie terrestre. Quello che andiamo cercando, perforando la terra o scavando nelle miniere, finisce sempre nell'atmosfera, mentre lo usiamo, o siamo costretti a seppellirlo da qualche parte, dopo averlo usato, inquinando il sottosuolo. In un modo o nell'altro danneggiamo l'ambiente.
Di fronte alla attuale globalizzazione l'antropologia o ci aiuta a ritornare alle condizioni del comunismo primordiale, o non serve a nulla. Noi dobbiamo uscire quanto prima dalle nostre mistificazioni. Non abbiamo più tempo da perdere e non possiamo accontentarci di mezze misure. Se davvero vuole diventare una scienza olistica a favore della natura e della umanizzazione del nostro stile di vita, l'antropologia deve saperci dire con sicurezza quali sono le condizioni per realizzare una radicale inversione di rotta. Questo sarà il modo migliore per fare ammenda degli errori colonialistici compiuti nel passato. Prima si guardava il passato con gli occhi rivolti verso il futuro; ora si deve guardare lo stesso passato come il nostro unico futuro.
È limitata l'idea secondo cui l'antropologia deve ripensare se stessa e mettere alla prova le proprie categorie concettuali, facendo i conti con la realtà del mondo globale. Una volta stabilito che l'antropologia non può più essere la scienza del colonialismo, si deve arrivare alla conclusione che è l'intero sistema che ha prodotto la globalizzazione che deve ripensare se stesso. Altrimenti l'antropologia finirà con l'assumere posizioni rinunciatarie, rassegnate.
Antropologia deve poter voler dire “studio dell'uomo integrale”, cioè di un uomo che deve smettere di essere “artificiale”. Essa deve aiutare l'uomo a ridiventare se stesso, un “ente di natura”, un essere naturale. Quindi la prima cosa che deve fare non è quella di adeguarsi ai processi che hanno portato all'attuale globalizzazione, ma è quella di contestarli in maniera radicale.
Viviamo in un “villaggio globale”? È vero, ma secondo i princìpi dello sfruttamento della natura e della manodopera salariata. Chiunque sia costretto a vendersi per un salario, si prostituisce, e quindi mina la credibilità dell'etica umana. Chiunque usi le risorse naturali in maniera tale da impedire una loro agevole riproduzione, va considerato un soggetto molto pericoloso, che mette a rischio l'intera sopravvivenza di una comunità locale e quindi, considerando che il villaggio è “globale”, dell'intera umanità. Qualunque reato compiuto nei confronti della natura va considerato come un delitto contro l'umanità.
Note
(1) Recuperano qualcosa del marxismo in chiave antropologica, trattando il tema del colonialismo, i testi di Georges Balandier e dei suoi allievi, Claude Meillassoux e Jean-Loup Amselle. Ma bisogna studiarsi anche i testi di Marvin Harris, di Julian Steward, Leslie White, Ann Stoler, Eric Wolf (in particolare L'Europa e i popoli senza storia), Sidney Mintz (in particolare Storia dello zucchero). Per un'antropologia nettamente anti-razzista cfr Eugenia Shanklin, Leith Mullings e Takami Kuwayama.
(2) Alfred Radcliffe-Brown (1881-1955), fortemente influenzato dalle teorie sociologiche di É. Durkheim, è stato il fondatore dell'antropologia sociale inglese, di orientamento funzionalista-strutturale, in polemica con gli evoluzionisti e diffusionisti. Per lui i fenomeni sociali andavano trattati usando il metodo induttivo, come fossero fatti naturali tra loro interagenti, sulla base di leggi oggettive che hanno come scopo finale l'integrazione sociale (l'adattamento), al di là degli aspetti psicologico-culturali in senso lato. Ecco perché non analizzò mai come cambiano nel tempo le istituzioni sociali, ma solo il modo in cui funzionano. Il colonialismo non era un argomento che gli interessava, però le sue ricerche furono strumentalizzate proprio dal governo inglese colonialista. Soggiornò per un biennio, agli inizi del Novecento, nelle isole Andamane, nell'Oceano Indiano, scrivendo poi il libro Gli isolani Andamani (1922). I suoi contatti con gli aborigeni australiani nel 1910-13 sono invece documentati nel libro Organizzazione sociale delle tribù australiane (1931). Fondamentale è il testo Struttura e funzione nella società primitiva (1952), che indica il quadro teorico della principale antropologia inglese tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta. Suoi principali allievi furono E. E. Evans-Pritchard e Meyer Fortes. I suoi studi sui sistema di parentela anticiparono nettamente quelli di Lévi-Strauss, ma quest'ultimo ridicolizzò la pretesa ch'egli aveva di giungere a leggi universali o generali sommando le singole esperienze concrete, senza avere delle premesse logiche.
(3) A questo terzetto si può aggiungere il francese Marcel Griaule, ma non per l'importanza teorica. Frequentò per molto tempo il popolo dei Dogon nel Mali, pubblicando Dio d'acqua (1948), ed. Bollati Boringhieri, Torino 2002.
(4) Tra funzionalismo e struttural-funzionalismo la principale differenza sta nel fatto che il primo (Malinowski, Firth ecc.) analizza le azioni tra individui (soprattutto i rapporti tra bisogni individuali e soddisfazione di tali bisogni), nonché i limiti imposti agli individui dalle istituzioni sociali; il secondo invece (Radcliffe-Brown, Evans-Pritchard, Fortes, Goody, Schapera...) si preoccupa di meno delle azioni e dei bisogni individuali e di più della posizione degli individui nella costruzione dell'ordine sociale. Sono sfumature, in quanto entrambe le correnti definivano la società come un sistema biologico in cui i vari organi sono collegati tra loro. P.es. il sistema riproduttivo si collegava a quello della parentela, quello digestivo all'economia, quello nervoso alla politica, e (incredibile a dirsi) quello cardiocircolatorio alla religione!
(5) Fecero scalpore i suoi diari privati, pubblicati nel 1967, a venticinque anni dalla morte. Da essi infatti venne fuori un'immagine di lui molto diversa da quella che appariva nei testi ufficiali. L'antropologo dei “diari” era un uomo spesso a disagio, di volta in volta duro, compassionevole, intollerante e volgare nei confronti dei nativi, per nulla controllato e garbato. Alla luce dei suoi diari, Clifford Geertz scrisse che Malinowki passò gran parte del suo tempo sul campo desiderando essere altrove.
(6) Sul piano parentale la debole costituzione fisica dei faraoni egizi dipese proprio dal fatto che tendevano a sposarsi solo all'interno di una determinata dinastia.
(7) Per il resto si rimanda al libro già pubblicato: Ribaltare i miti: miti e fiabe destrutturati, ed. Amazon (qui si trova anche col titolo I miti rovesciati).
(8) Da notare però che nella tradizione giudaica la trasmissione dell'appartenenza al cosiddetto “popolo eletto” avveniva (ed è ancora oggi così) per via materna: ultimo retaggio matristico in mezzo a una serie di regole molto patriarcali.
(9) I testi di Childe tradotti in italiano sono i seguenti: L'uomo crea se stesso, ed. Einaudi, Torino 1952; L'evoluzione delle società primitive, Editori Riuniti, Roma 1974; La preistoria della società europea, ed. Sansoni, Firenze 1979; Il progresso nel mondo antico, ed. Einaudi, Torino 1963; La rivoluzione urbana, ed. Rubbettino, Soveria Mannelli 2004; I frammenti del passato: archeologia della preistoria, ed. Feltrinelli, Milano 1960; Progresso e archeologia, ed. Cooperativa Libro Popolare, Milano 1953.
(10) Di lui vedi anche Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, ed. Einaudi, Torino 1992, dove l'esotismo sembra avere la meglio su tutto.
(11) È molto raro sentire qualcuno ricordare che quando gli europei vivevano in tribù primitive, le civiltà commerciali più importanti fiorivano in Medio Oriente. Persino prima della rivoluzione industriale gli antenati di molti bianchi europei e americani vivevano in condizioni simili a quelle degli africani prima del dominio coloniale.
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