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DONNE NELL'ANTICA ROMA
di Fabia Zanasi
Provare a decifrare di più di quanto la
letteratura non abbia mai tramandato: è forse questa velleità a spostare l'attenzione
dell'interprete contemporaneo su aspetti della vita comune della società romana classica. Lo sguardo insegue allora
l'immagine di una donna in molti dei suoi possibili ruoli, oscillanti tra precetti e
proibizioni, simboli naturali e riti del tempo sacro.
A partire dunque dal piano concreto e
quotidiano del soddisfacimento delle esigenze primarie, le fonti scritte registrano classificazioni rigorose e
precise in merito ai cibi che la donna ha il compito di conservare, come la frutta e le
uova, e specifici divieti riguardanti la preparazione di alcuni alimenti, quale la
macellazione e la macinazione della carne, in quanto pratiche correlate alle mansioni
sacrificali di spettanza maschile.
La cura del focolare domestico e della
casa in genere lasciano immaginare una domina assai impegnata, nello svolgimento
delle proprie mansioni, in modo da evitare il più possibile la frequentazione e la
consuetudine con altre rappresentanti del gentil sesso.
L'elenco dei doveri muliebri ricordati da
Catone sembra abbastanza oneroso e cospicuo di per sé, tanto da pregiudicare ogni eccesso
in materia di svago. Tuttavia, tra le norme comportamentali, è vivamente raccomandata la
pratica di limitare il numero di visite da parte di altre donne: "Vicinas aliasque
mulieres quam minimum utatur neve domum neve ad sese recipiat" (De agri cultura,
143, 5). Luxuriosa e ambulatrix, ossia il fatto di essere amante del lusso e
degli spostamenti, costituiscono peraltro i parametri definitori della cattiva moglie.
Esiste comunque una categoria di donne le
cui mansioni hanno maggiori affinità con i privilegi sacrali maschili: si tratta delle
sei vergini Vestali, incaricate di sorvegliare il fuoco del focolare pubblico, conservato
nel santuario di Vesta, e di preparare la mola salsa, da spargere sugli animali
destinati al sacrificio.
La mola salsa è un composto di
farina di farro, ottenuta da spighe raccolte in maggio e dunque ancora impregnate di
energia primiziale, mescolata a muries.
La muries consiste invece nell'
impasto di sale e acqua di fonte perenne, posto a cuocere in una pentola d'argilla,
sigillata con il gesso: "[
] fit ex sali sordido, in pila pisato, et in ollam
fictilem coniecto, ibique operto gypsatoque et in furno percocto, cui virgines vestales
serra ferrea secto et in seriam coniecto, quae est intus in aede Vestae in penu exteriore,
aquam iugem, vel quamlibet, praeterquam quae per fistulas venit, addunt, atque ea demum in
sacrificiis utuntur" (Sesto Pompeo Festo, De significatu verborum).
Fuoco, acqua perenne e spighe sono in
stretta analogia con la condizione di purezza serbata dalle Vestali. Il loro stato
verginale vale infatti a purificare simbolicamente tutte le colpe della popolazione e
catalizza in questo modo la benevolenza divina e il successo per i maschi della città. Il
ruolo delle Vestali attesta dunque una funzione femminile essenziale e necessaria per la
potenza di Roma.
Peraltro anche due importanti cariche
religiose maschili paiono associate alla indispensabile presenza di una consorte
coadiutrice: si tratta del flamen dialis e del rex sacrificulus, assistiti
rispettivamente dalla flaminica e dalla regina sacrorum. In caso di
morte della sposa, il flamen decade infatti dal proprio incarico (cfr. Aulo Gellio,
Noctes Atticae, 10, 15, 23).
Nell'immaginario culturale romano anche
la donna, al pari dell'uomo, svolge un ruolo fondamentale e decisivo per descrivere e
trasfigurare in chiave mitica gli eventi del passato storico.
Come hanno diffusamente dimostrato gli
studi di antropologia culturale, il paradigma dell'eroe ha una funzione preminente nella
conservazione e nella tutela di valori fondamentali per la stabilità e l'equilibrio di
ogni aggregazione umana. Fides, auctoritas e pietas, ossia i principi
basilari del patto sociale romano, sono dunque variamente riconfermati attraverso le
fisionomie e i comportamenti di uomini eccellenti, protagonisti dei miti delle origini o
delle vicende storico-politiche documentate dagli autori classici.
In questo culto dell'immagine esemplare,
la figura femminile gioca spesso il ruolo di controparte, allorché l'identità maschile
assume valenze negative o contraddittorie rispetto al canone ideale. Il modello muliebre
diviene allora, a pieno titolo, vicariante dell'eroe e in tale sovvertimento dei
compiti si sfumano le qualità precipue, dettate dal sesso di appartenenza, per cedere il
posto ad una gamma di tratti e specifiche connotazioni virili, che si esplicano in
manifestazioni di coraggio e sprezzo del pericolo.
È quanto si rileva, ad esempio, leggendo
il discorso che Plutarco fa pronunciare alla madre di Coriolano, allorché una delegazione
di donne la supplica d'intercedere presso il figlio, affinché ponga fine alla guerra
contro Roma: "Ma il nostro strazio maggiore procede dal vedere la nostra patria così
debole e sgomenta da essersi ridotta a fondare su noi le proprie speranze. [
] Se non
potremo fare altro, sapremo almeno morire nell'atto d'implorare per la patria" (Da Marzio
Coriolano, XXXIII, in Le vite parallele, trad. A.Ribera, Sansoni, Firenze
1974).
Coltivare i connotati fisici di un
carattere virile era peraltro uno degli obiettivi perseguiti nell'educazione delle bambine
di buona famiglia, come ancora ci attesta Claudio Galeno ai tempi dell'imperatore Marco
Aurelio.
Alcuni autori, ad esempio Jean Gaudemet,
ipotizzano un ruolo importante per la mulier e addirittura una sorta di parità nei
confronti del marito, come comproverebbero certe iscrizioni funerarie, tra le quali la
più famosa è senza dubbio la cosiddetta Laudatio quae dicitur Turiae, riportata
in Fontes iuris romani anteiustiniani.
Il marito di Turia elogia il
comportamento della propria compagna, che si è rivelata certa, ossia fedele,
fidata e determinata durante i 41 anni di matrimonio, e che ha venduto tutti i propri
gioielli per salvare il consorte, in un momento di persecuzione politica. Egli ha
rifiutato di ripudiarla, benché ella stessa, essendo sterile, avesse incoraggiato
l'unione dell'amato con un'altra sposa.
Peraltro nei tempi antichi, l'usanza di
cambiare o addirittura scambiare le mogli doveva essere assai diffusa, se persino Catone
Uticense cedette all'amico Ortensio, l'adorata Marzia, per poi riprenderla alla morte di
costui (Strabone, Geografia,
XI, 9, 1).
Le leggi di Romolo prevedevano che la
donna non potesse abbandonare il marito, ma che il coniuge potesse invece ripudiarla, nel
caso in cui ella avesse avvelenato i figli, taciuto una gravidanza o commesso adulterio
(Cfr. Plutarco, Romolo, XXII).
Qualora poi le mogli avessero ucciso i
propri uomini, i congiunti provvedevano a strangolarle, senza nemmeno attendere il
processo: un'inutile perdita di tempo, data l'evidenza della colpa e l'efferatezza del
delitto.
In età repubblicana la dimestichezza con
la preparazione di pozioni tossiche non dovette essere un'attitudine saltuaria, in cui si
cimentavano annoiate signore della società bene alle prese con insopportabili compagni,
ma piuttosto un'anomala rivendicazione di potere alternativo, talvolta non esente da un'impronta
di rivolta contro la maggioranza politica.
Durante il consolato di Marco Claudio
Marcello e Tito Valerio, nel 331 a.C., molti importanti cittadini morirono, per cause che
furono attribuite non solo a una terribile pestilenza, ma specialmente all'avvelenamento
causato da un complotto di donne, poi denunciate da una ancella: "Tum patefactum
muliebri fraude civitatem premi matronasque ea venena coquere et, si sequi extemplo
velint, manifesto deprehendi posse. [7] Secuti indicem et coquentes quasdam medicamenta et
recondita alia invenerunt" (Livio, Ab urbe condita, VIII, 18).
Nelle case di venti patrizie furono
infatti trovate presunte pozioni salutari. Tuttavia, appena le nobildonne furono costrette
a berle, perirono immediatamente. Le denunce cominciarono a moltiplicarsi e ben
centosettanta matrone furono condannate a morte, quantunque fossero giudicate alla stregua
di folli e non di vere e proprie criminali: "Prodigii ea res loco habita captisque
magis mentibus quam consceleratis similis visa..." (Livio, ib.).
La labilità del carattere femminile è
del resto un topos ricorrente di molta poesia satirica, che indulge nell'indecente
rappresentazione dell'ebbrezza con ovvii rimandi allo stilema della menade.
Per le donne, la proibizione di bere vino
risale alla dimensione leggendaria del Lazio, in un'epoca addirittura antecedente alla
fondazione di Roma. Re Fauno ha sorpreso ubriaca la propria moglie Fauna e la punisce
fustigandola a morte con rami di mirto; tuttavia, placatosi il suo grande furore, non può
fare a meno di avvertire un grande desiderio di lei, perciò in suo onore istituisce sacri
riti, durante i quali è offerta un'anfora coperta da un velo: "
quae quia
contra morem decusque regium clam vini ollam ebiberat et ebria facta est, virgis myrteis a
viro ad mortem usque caesam; postea vero cum eum facti sui poeniteret ac desiderium eius
ferre non posset, divinum illi honorem detulisse; idcirco in sacris eius obvolutam vini
amphoram poni" (Lattanzio, Divinae Institutiones, I, 22, 11).
Pertanto nel tempo mitico si collocano i
parametri del divieto e della concessione nei confronti della bevanda sacra: Fauna assurge
al ruolo di Bona Dea e le sacerdotesse addette al suo culto conservano nel tempio un vino
che è chiamato latte, in uno speciale recipiente denominato vaso da miele:
"
quod vinum in templum eius non suo nomine soleat inferri, sed vas in quo vinum
inditum est mellarium nominetur et vinum lac noncupetur" (Macrobio, Saturnaliorum
convivia, I, 12, 25).
Annessa al santuario è una sorta di
farmacia, dove le sacerdotesse trasformano le erbe medicinali: gli uomini sono esclusi, in
base ad una proibizione che ricollega al mito greco di Medea i riti dedicati alla Bona
Dea, protettrice delle donne (gunaikeia). In questo
luogo, la stessa presenza di serpenti, associati ai riti terapeutici della fecondità,
esalta e qualifica il ruolo della indiscussa signoria femminile.
L'onomastica divina riassume le qualità
della Madre Terra: Bona e Fauna, in quanto produce gli alimenti per gli esseri umani e li
favorisce in tutte le loro necessità; Ope, perché per opera sua la vita sussiste, e
Fatua, appellativo deverbale riferibile a fari, che suggestivamente allude alla
capacità di vagire acquisita dai bimbi appena hanno "toccato terra":
"Fatuam a fando quod, ut supra diximus, infantes partu editi non prius vocem edunt
quam attigerint terram" (Macrobio, ib.).
Nel calendario romano compaiono altre
feste officiate dalle donne, p.es., in coincidenza con il primo di aprile, le cerimonie
dedicate a Venere Verticordia e a Fortuna Virile. In tale occasione madri e nuore del
Lazio tolgono le collane d'oro al simulacro della dea e lavano la sua statua di marmo.
Successivamente anch'esse s'immergono in
un bagno purificante; ma la loro nudità mette in luce ogni difetto della persona;
pertanto bruciano incenso e levano preghiere in onore di Fortuna Virile, affinché siano
aiutate a nascondere ai propri mariti le imperfezioni del corpo: "Accipit ille locus
posito velamine cunctas / et vitium nudi corporis omne videt / ut tegat hoc celetque
viros, Fortuna Virilis / praestat et hoc parvo ture rogata facit" (Ovidio, Fasti,
IV, vv.147-150).
Il rito possiede un'indubbia connotazione
riferibile a finalità seduttive, è quasi una sorta di preliminare amoroso che rinnova,
anno dopo anno, per le maritate, la tensione dell'evento nuziale già consumato in
precedenza. Peraltro l'assunzione di una bevanda sedativa, identica a quella bevuta da
Venere prima di congiungersi allo sposo, composta di latte, miele e semi di papavero,
traspone analogicamente il senso dell'unione coniugale in una prospettiva significante,
atta a risvegliare le qualità della dea in ogni donna.
Durante le feste femminili, si svolgono
sacrifici non cruenti: è il caso dell'offerta di latte di fico in concomitanza con le Nonae
Caprotinae, il 7 di luglio, in onore di Giunone. La cerimonia risale agli
antichi riti mediterranei della fecondità e pertanto coinvolge all'unisono le donne
libere e le schiave.
Ed è proprio a proposito di quest'ultime
che la leggenda fa risalire la suggestiva dedica di tale rito, ossia alla fine della
guerra contro i Galli, allorché le popolazioni confinanti, intenzionate a invadere Roma,
chiesero in ostaggio al senato le madri e le vergini.
Fu allora che una schiava, di nome Tutela
o Filotide, propose di recarsi dagli avversari, con altre sue compagne, fingendo di essere
una donna libera. Giunte all'accampamento nemico, le coraggiose ancelle eccitarono gli
uomini a bere, al punto da farli ubriacare; subito dopo, ad un segnale convenuto, che,
come vuole la tradizione, fu trasmesso presso un albero di fico, i soldati romani fecero
irruzione ed ebbero la meglio. Lo stesso Macrobio, nel riferire la vicenda, sottolinea la
portata eroica dell'ancillarum factum, non riscontrabile in ulla nobilitate
(Saturnaliorum convivia, I, 2, 35).
Tra presenza e marginalità, non sembra
comunque lecito descrivere il modello femminile romano in chiave completamente autonoma:
passione, coraggio e devozione muliebre acquistano la loro significanza nel rapporto
interpersonale con l'uomo, rispetto al quale la condizione della donna assume, a vari
gradi, il proprio carattere di indispensabilità.
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