Voltaire: la censura, il dispotismo illuminato, l’ottimismo

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Voltaire: la censura, il dispotismo illuminato, l’ottimismo

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Giuseppe Bailone

Nel 1734, Voltaire, condannato per le Lettere filosofiche, si sottrae all’arresto con la fuga, prima all’estero, e poi nel castello di Cirey in Lorena, presso l’amante e amica Madame du Châtelet, una delle donne più colte del suo tempo, di formazione in gran parte autodidatta, in possesso di buona conoscenza del latino e del greco, di filosofia e di scienza, valente studiosa di Leibniz e di Newton.

In questo periodo, Voltaire cura con molto successo i suoi affari economici, lotta abilmente contro la censura e scrive intensamente e con molta efficacia per orientare l’opinione pubblica, del cui peso si era reso conto durante l’esilio inglese: “L’opinione pubblica governa il mondo – scrive nel 1746 – ma sono i saggi che alla lunga governano questa opinione”.1

Il compito di orientamento delle coscienze, di formazione dell’opinione pubblica, di direzione culturale della società, impone l’uscita dalla clandestinità dei circoli libertini; ma, in paesi del vecchio regime come la Francia, espone al rigido controllo della censura.

Voltaire è molto spregiudicato nei suoi tentativi di aggirare la censura: “Se pubblica col suo nome, briga per ottenere i censori più favorevoli; pubblica opere anonime, o sotto pseudonimi, o con il nome di autori al sicuro all’estero se non addirittura morti; si serve degli editori più spregiudicati, falsificando nomi e date; inonda il mercato di copie difformi, per poter sostenere di non essere l’autore; pubblica all’estero, preferibilmente in Olanda: non esita, infine di fronte alle sconfessioni più sfrontate: «Ho letto finalmente Candide e vi dichiaro che bisogna aver perduto i sensi per attribuirmi una tale coglioneria», scrive a proposito del suo capolavoro letterario”.2

Una scrittura lineare e particolarmente chiara, l’uso geniale dell’umorismo, della satira, dell’ironia, dell’irrisione ora aperta ora velata, consentono a Voltaire un’azione particolarmente efficace contro il pregiudizio, l’intolleranza e l’ignoranza, su un pubblico molto ampio.

Nel 1734 scrive il Trattato di metafisica, in cui, a partire dall’antropologia, si misura con i fondamentali problemi filosofici.

Particolare importanza, nella straordinaria produzione di questi anni, ha la divulgazione del pensiero di Newton, affidata a opere scritte alla fine degli anni trenta, quali Gli elementi della filosofia di Newton e la Metafisica di Newton. “Solo se si considera il fatto che in quel momento Newton era pressoché sconosciuto fuori d’Inghilterra e che l’ambiente filosofico e scientifico francese era dominato da un cartesianesimo sovente irrigidito in scolastica, si possono comprendere l’importanza di questo libro e l’impressione da esso suscitata; i consensi entusiastici e gli attacchi furibondi che ne seguirono la pubblicazione”.3

In questi scritti Voltaire afferma l’origine empirica della conoscenza, l’esistenza di un ordine fisico finalisticamente orientato, l’esistenza di Dio, grande architetto dell’universo.

Voltaire sa bene che l’idea di Dio autore del mondo non è facile da sostenere, ma vede nell’opinione contraria difficoltà ancora maggiori. Respinge l’idea che la materia si sia mossa e organizzata da sé: pensa quindi Dio come architetto dell’universo, ma non gli attribuisce interventi nel mondo umano.

Il bene e il male non sono realtà metafisiche e divine. Sono ciò ch’è utile o dannoso alla vita sociale: gli uomini, messi da Dio sulla terra, dotati di ragione e di passioni, possono e devono organizzarsi da soli la loro esistenza.

Gli uomini hanno anche un’anima immateriale e immortale?

La disparità di opinioni al riguardo segnala l’oscurità della questione.

Come Locke, Voltaire non ritiene impossibile che la materia pensi. Ritiene invece assurdo che l’uomo pensi sempre: pertanto gli argomenti di Cartesio a sostegno dell’idea dell’anima come res cogitans non lo convincono. Pensa, piuttosto, che Dio abbia architettato i corpi per pensare come li ha organizzati per mangiare e per digerire. Tolta la res cogitans, l’immortalità dell’anima diventa solo una questione di fede e l’anima umana può essere pensata materiale come negli animali. E ciò non è contrario al bene della società, com’è provato, scrive nel Trattato di metafisica, dagli antichi Ebrei che pensavano l’anima materiale e mortale.

L’uomo è libero, ma non è Dio. La libertà umana ha dei limiti e, anche sulla volontà divina, Voltaire non la pensa come Cartesio.

Nel 1749, scrive a Federico II di Prussia: “Avevo un gran desiderio che fossimo liberi; ho fatto tutto ciò che ho potuto per crederci. L’esperienza e la ragione mi convincono che siamo delle macchine fatte per funzionare per un certo tempo, come piace a Dio”.

Nell’ultimo suo scritto filosofico, Il filosofo ignorante del 1766, scrive che la libertà umana non va intesa come assenza di determinazioni: “Sarebbe strano che tutta la natura, tutti gli astri obbedissero a leggi eterne, e che vi fosse un piccolo animale alto cinque piedi che, a dispetto di queste leggi, potesse agire sempre come gli piace solo secondo il suo capriccio. Egli agirebbe a caso, e si sa che il caso non è nulla; noi abbiamo inventato questa parola per esprimere l’effetto conosciuto di ogni causa sconosciuta”.

L’uomo non è il centro né il fine del creato.

Non solo, gli uomini sono tra di loro profondamente diversi: esistono diverse razze umane, dovute, non all’azione del clima, come sosteneva una teoria allora ancora molto diffusa, ma alla loro derivazione da ceppi originari diversi. Voltaire eredita questa teoria poligenetica dai libertini e se ne serve anche per combattere l’universalità della ragione cartesiana e leibniziana. In lui, però, questo poligenismo che, nel pensiero libertino non era associato a gerarchie razziste, pone l’uomo bianco al livello più alto nello sviluppo della razionalità e quello nero al più basso, non molto lontano dai bruti. Questo suo aperto razzismo non gli impedisce, però, di riconoscere agli uomini dei caratteri comuni che li rendono educabili e passibili di azione illuministica per un buon ordine sociale.

Nella sua battaglia per cambiare la società, Voltaire si misura col potere politico, che in Francia è assoluto e nei confronti del quale egli ha un atteggiamento spesso cortigiano. Si tratta di un aspetto non sempre onorevole nella sua biografia, ma comprensibile alla luce del suo impegno contro i privilegi della nobiltà e del clero, legato a Roma. Sono, infatti, gli anni in cui, dopo la morte del re Sole, è in atto la riscossa dell’aristocrazia, soprattutto da parte della nobiltà di toga, che ha nei parlamenti, in particolare in quello di Parigi, i suoi punti di forza (in Francia i parlamenti non sono luoghi di rappresentanza politica bensì organi giudiziari, cui spetta tra l’altro il compito di registrazione delle leggi).

Voltaire mira a una radicale riforma della società e dello Stato, per la quale ritiene necessario un forte potere politico, sensibile alla filosofia. Nel 1749 si schiera decisamente a favore della riforma fiscale che il controllore generale delle finanze, Jean-Baptiste de Machault d'Arnouville, cerca d’imporre e che prevede una tassa del 5% sui redditi, senza la tradizionale esenzione del clero e della nobiltà. In questa battaglia egli manifesta, così, il carattere antifeudale del suo appoggio alla monarchia assoluta. La furiosa reazione del clero e della nobiltà provoca però la clamorosa sconfitta del progetto di riforma.

Il progetto di orientare con la filosofia il principe non si limita, da parte di Voltaire, alla sola Francia: c’è anche un significativo, lungo e tormentato, rapporto con Federico II di Prussia, il “Salomone del Nord”, iniziato nel 1736.

Voltaire è lusingato dall’ammirazione che Federico II gli manifesta, dal fatto che gli affidi la pubblicazione del suo Antimachiavel (1740). In una fase in cui gli illuministi sono ancora incerti se puntare su un progetto di riforma liberale e costituzionale, sul modello inglese, o se ripiegare su quello che sembra più praticabile in Francia e in molte realtà europee, cioè sul modello del dispotismo illuminato, Voltaire vede nella cultura e nell’azione riformatrice di Federico II l’esempio più convincente di re-filosofo da sostenere e da orientare. Se Rousseau nel 1758 dichiara che il re prussiano “pensa da filosofo e si comporta da re”, Voltaire, invece, pur non facendosi illusioni sulla sua coerenza tra pensiero filosofico e prassi politica, pur criticandolo per il suo dispotismo interno e per la sua politica estera di potenza, pensa che Federico II, per il suo anticlericalismo, per la sua tolleranza religiosa, per la sua opera a favore della cultura e per il rigore nella gestione dell’amministrazione statale, sia da preferire alla fiacca e insieme intollerante politica della monarchia francese.

Nel 1750 Voltaire va Berlino.

A Berlino egli completa il Secolo di Luigi XIV, la sua opera storica più importante, progetta il Dizionario filosofico e scrive Micromegas; ma i rapporti col sovrano sono poco lineari. Federico II apprezza il prestigio che la presenza a corte di Voltaire gli procura, si fa correggere i versi e pensa a un rapporto a termine: “Avrò bisogno di lui ancora per un anno al massimo; si spreme l’arancia e si butta via la buccia” scrive in un appunto. Voltaire ricambia fino a scrivere un feroce libello contro Moreau de Maupertuis, che Federico II ha chiamato a dirigere l’Accademia delle Scienze di Berlino.

Nel 1753 lascia la corte prussiana.

Nel 1756 Voltaire pubblica il Poema sul disastro di Lisbona, che, partendo dal terribile terremoto che nel primo novembre dell’anno precedente ha distrutto Lisbona, pone la questione della condizione umana nell’universo, in polemica con l’ottimismo metafisico: “Filosofi illusi, che gridate Tutto è bene, accorrete, contemplate queste orrende rovine, queste macerie, questi detriti, queste orrende ceneri miserande, queste donne, questi bambini ammucchiati l’uno sull’altro, queste membra disperse sotto i marmi infranti; centomila sventurati divorati dalla terra, che terminano i loro giorni miserevoli sanguinanti, straziati e ancora palpitanti, sepolti sotto le loro case, senza soccorso, tra terribili tormenti”. Il Poema segna una svolta nel pensiero di Voltaire, che in Inghilterra aveva familiarizzato con la concezione ottimistica della natura del suo amico poeta Alexander Pope, influenzato dal pensiero di Shaftesbury: “Se Pope fosse stato a Lisbona – scrive in una lettera poco dopo aver saputo del terremoto – avrebbe osato dire tutto è bene?”.4

Adesso, Voltaire pensa che esista un ordine naturale, determinato dalle leggi della fisica, ma non è più disposto ad accettare l’assioma metafisico che questo sia bene, anche quando comporta grave sofferenza umana.

Voltaire è poi particolarmente polemico con chi interpreta i disastri naturali come punizioni divine: “Direte, vedendo questi mucchi di vittime «Dio si è vendicato, la loro morte è il prezzo dei loro delitti»? Quale errore, quale delitto hanno commesso questi fanciulli schiacciati, sanguinanti, sul seno materno? Lisbona, che più non esiste, ebbe forse vizi maggiori di Londra, di Parigi, immerse nei loro piaceri? Lisbona è distrutta e a Parigi si danza”.

La critica dell’ottimismo si fa radicale, ma non spinge Voltaire verso il pessimismo, che critica ugualmente, soprattutto nelle sue riflessioni sulla filosofia di Pascal. La posizione di Voltaire, in equilibrio fra queste due tendenze opposte, è sintetizzata nella conclusione del Poema: “Un giorno tutto sarà bene, ecco la nostra speranza. Tutto è bene oggi, ecco l’illusione. […] Un califfo una volta, nella sua ultima ora, al Dio che adorava disse questo come sola preghiera: «O unico re! O unico essere privo di limiti! Io ti reco tutto ciò che non possiedi nella tua immensità, i difetti, i rimpianti, i mali e l’ignoranza». Ma avrebbe potuto aggiungere la speranza”.

Il dibattito dura anni e coinvolge importanti uomini della cultura. Intervengono anche Rousseau e Kant. La difesa della fiducia nell’ordine provvidenziale, congiunta alla denuncia delle responsabilità umane, è di Rousseau nella Lettera di Voltaire sulla provvidenza, nella quale indica nella concentrazione di grandi masse di popolazione nelle città la causa di questi gravi lutti in questi casi di disastri naturali. Per Rousseau, il filosofo che in apertura dell’Emilio ha scritto che tutto è bene quando esce dalle mani dell’autore delle cose e tutto degenera nelle mani dell’uomo, è l’uomo stesso la causa dei suoi mali. Anche Kant scrive a proposito dell’ordine naturale e delle responsabilità umane: “Era necessario che di tanto in tanto si verificassero dei terremoti, ma non era necessario che noi costruissimo superbe case sulla terra”.

Voltaire liquidò le riflessioni di Rousseau come “divertimenti”. Non rispose a Kant, che forse non lesse mai.

Qualche anno dopo il terremoto, nel Dizionario filosofico, alla voce “Bene, Tutto è bene”, torna sul tema dell’ottimismo metafisico aprendo il fuoco sulla teoria del migliore dei mondi possibili di Leibniz.

Alle obiezioni che “gli gridarono in molti […] Leibniz capiva che non c’era niente da rispondere; e si limitò a scrivere dei grossi libri nei quali egli stesso non s’intendeva”.

Voltaire sostiene che solo per scherzo si può negare la realtà del male nel mondo. Respinge la critica di Lattanzio alla negazione epicurea della provvidenza divina. Ricorda e contesta il dualismo manicheo, la tesi di Basilide che attribuisce la creazione del mondo a degli angeli maldestri, il mito del vaso di Pandora e altri miti antichi intorno all’origine del male. Passa quindi all’esame delle tesi ottimistiche dei filosofi inglesi che hanno influenzato il suo amico Alexander Pope e scrive:

“Il loro Tutto è bene significa soltanto che tutto è retto da leggi immutabili. E chi non lo sa? Non ci insegnate niente, quando osservate quello che hanno capito anche i bambini: che le mosche sono nate per essere divorate dai ragni, i ragni dalle rondini, le rondini dal nibbio, il nibbio dalle aquile, le aquile per essere ammazzate dagli uomini, gli uomini per ammazzarsi fra loro e per venir divorati dai vermi, e poi dai diavoli, almeno mille su uno.

È certo un ordine chiaro e costante, fra gli animali di ogni specie. Tutto è ben ordinato. Quando nella mia vescica si forma una pietra, si tratta di una meccanica ammirevole […] e per lo stesso meccanismo io muoio fra atroci tormenti. E tutto ciò è bene: vale a dire che tutto ciò è l’evidente conseguenza di principi fisici inalterabili. Grazie tante; lo sapevo anche prima.

Se noi fossimo insensibili, non ci sarebbe niente da dire su questa fisica. Ma, non si tratta di questo: noi vi abbiamo chiesto se vi sono o no dei mali sensibili, e da che hanno origine. «Non esistono mali» dice Pope nella quarta epistola del suo Tutto è bene; «o, se vi sono dei mali particolari, essi concorrono a formare il bene universale».

È un bene universale assai curioso, formato dalla pietra, dalla gotta, e da tutti i delitti e tutte le sofferenze, dalla morte e dalla dannazione!

[…] Non trovate voi – continua Voltaire – un gran sollievo nella ricetta di Lord Shaftesbury, il quale vi dice che Dio non potrà certo alterare le sue eterne leggi per un così misero animale com’è l’uomo? Ma bisognerebbe ammettere almeno che questo misero animale ha diritto di strillare umilmente, e di cercar di comprendere, mentre grida, perché mai quelle eterne leggi non sono state fatte per il benessere di ogni individuo.

Quel sistema del Tutto è bene rappresenta in sostanza il Creatore come un re potente e malvagio, che non si preoccupa se debbano perire quattro o cinquecentomila uomini, e gli altri trascinar la loro vita nella carestia e nei dolori, purché egli possa venir a termine dei suoi progetti.

Lungi dal consolarci, questa tesi del migliore dei mondi possibile è disperante per i filosofi che la adottano. La questione del bene e del male resta un caos oscurissimo per quelli che la esaminano in buona fede; ed è un semplice gioco per quelli che la discutono: forzati che giocano con le loro catene. In quanto al volgo, che non sta a ragionare, esso è simile a quei pesci che l’uomo ha fatto passare da un fiume a un vivaio, e non sospettano che si trovano là soltanto per essere mangiati quando verrà la quaresima. Così noi, con la nostra ragione, non possiamo sapere nulla sulle cause del nostro destino.

Mettiamo, dunque, alla fine di quasi tutti i capitoli di metafisica le due lettere dei giudici romani, quando non riuscivano a chiarire una causa: N.L., non liquet, la cosa non è chiara”.

Note

1 Citato in Autori Vari, Il testo filosofico 2, Bruno Mondadori ed. 1992, p. 877.

2 Ib. p. 877.

3 Ib. p. 877.

4 In realtà l’espressione “Tutto è bene” è la traduzione volterrana, destinata a molta fortuna, di un’espressione di Pope un po’ diversa: “Qualsiasi cosa sia, essa è giusta” in quanto voluta da Dio. Espressione che indica l’idea centrale di un Saggio sull’uomo del 1734 del poeta Alexander Pope.

Il termine ottimismo è stato coniato in Francia nel 1737 proprio per indicare l’idea che nel mondo tutto sia bene in virtù dell’assoluta bontà di Dio.

Torino 10 marzo 2014

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

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Aggiornamento: 26-04-2015