SPINOZA

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non piangere e non ridere, ma capire

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“I filosofi concepiscono gli affetti che si dibattono in noi, come vizi nei quali gli uomini cadono per colpa loro, sicché sono soliti deriderli, compiangerli, biasimarli o (quelli che vogliono sembrare più santi) detestarli del tutto. Così facendo, dunque, credono di rendere un servizio a Dio e attingere il culmine della sapienza, quando sanno lodare in mille modi una natura umana che non esiste da nessuna parte, e maledire quella che esiste realmente. Costoro, infatti, concepiscono gli uomini non per ciò che sono, ma per come vorrebbero che fossero, sicché quasi sempre hanno scritto una satira invece che un’etica e non hanno mai concepito una politica che fosse di qualche utilità, ma che è piuttosto una chimera o che potrebbe funzionare in Utopia o in quel tempo aureo dei poeti dove non era affatto necessaria. E quindi si crede che, di tutte le scienze utili a qualcosa, tanto grande è in politica il divario tra teoria e prassi che nessuno sembra meno idoneo a governare uno Stato che i teorici, ossia i filosofi”.

Questo è il primo paragrafo del primo capitolo del Trattato politico, l’ultima opera di Spinoza, rimasta incompiuta.

“Quando dunque – scrive un po’ più avanti – mi sono dedicato alla politica, ho inteso dimostrare in modo certo e indubitabile, deducendo dalla condizione stessa della natura umana, non già qualcosa di nuovo e d’inaudito, ma soltanto ciò che meglio si sposa con la prassi. E per indagare ciò che riguarda questa scienza, con quella stessa libertà d’animo che siamo soliti adoperare in matematica, mi sono impegnato a fondo a non deridere, né a compiangere, né tanto meno a detestare le azioni degli uomini, ma a comprenderle, considerando quindi gli affetti umani, come l’amore, l’odio, l’ira, l’invidia, la gloria, la misericordia e gli altri moti dell’animo, non come vizi dell’umana natura ma come proprietà che gli competono, al modo in cui il caldo, il freddo, la tempesta, il tuono e via dicendo competono alla natura dell’aria. Tutti questi aspetti, per quanto negativi, sono tuttavia necessari e hanno una certa causa attraverso cui ci sforziamo di comprendere la loro natura, e la mente gode tanto della loro vera contemplazione quanto della cognizione di quelle cose che sono gradite ai sensi”.[1]

Come Hobbes, Spinoza vuole realizzare una scienza del mondo umano sul modello della matematica. Egli esprime questo impegno programmatico anche nel titolo del suo capolavoro, l’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (titolo che ai sostenitori del libero arbitrio sembra un ossimoro).

Il distacco emotivo del suo geometrismo, però, è più radicale che in Hobbes.

La considerazione delle passioni umane come se esse fossero degli enti geometrici, infatti, è così coerente da tenere lontano Spinoza dal pessimismo antropologico presente in Hobbes. Egli guarda alle passioni umane, anche a quelle più detestabili, con serenità, libero da paure e speranze.

Come il buon geometra guarda al triangolo e alle sue proprietà senza timori e senza speranze, ma solo con l’attenzione al rapporto necessario, rigoroso, non discutibile, che queste hanno con esso, così Spinoza studia la natura umana e le sue passioni, con la sola attenzione a capire il rapporto necessario che queste hanno con quella.

E’ la coscienza della necessità dell’oggetto a promuovere la libertà della mente dalla paura e dalla speranza, da tutte le passioni che non siano quella per la verità.

La paura, che Hobbes chiama suo fratello gemello e che considera il sentimento umano più importante, più forte, e fondamentale per la scienza politica, in lui è da considerare al pari della speranza e di altre passioni.

E’ vero che la paura governa spesso i rapporti umani, ma la natura dell’uomo, se conosciuta in profondità, non suscita paura.

L’uomo non è per Spinoza quella creatura dannata che, dopo il peccato originale, è incapace di volgersi al bene. E’ un ente analogo a quelli matematici e fisici e le sue passioni sono come il caldo e il freddo per l’aria.

L’uomo non è un essere diabolico, né è in balìa del demonio.

Per Spinoza il demonio non c’è!

Ecco che cosa pensa Spinoza di questa figura fondamentale della teologia biblica, in particolare nel filone agostiniano che col suo pessimismo antropologico ha segnato molta parte del pensiero cristiano antico e medievale, influenzando profondamente anche Hobbes e Pascal.

“[1] Ora diremo se vi siano o meno diavoli.

Se il diavolo è cosa interamente contraria a Dio e che nulla ha di Dio, si confonde del tutto con il nulla, del quale già sopra abbiamo parlato.

[2] Se supponiamo, come taluni vogliono, che il diavolo sia una cosa pensante, incapace di volere e di fare alcun bene, e che si oppone a Dio in tutto ciò che egli fa, è degno allora di ogni pietà; e, se le preghiere avessero qualche valore, bisognerebbe pregare per lui e per la sua conversione.

[3] Ma chiediamoci se un essere così miserevole potrebbe esistere anche un solo momento e vedremo che questo è impossibile. Infatti, la durata di una cosa dipende dalla sua perfezione, e più essa possiede di realtà e di divinità, più essa è sussistente. Ora, il diavolo, non avendo in sé alcun grado di perfezione, come potrebbe esistere? Aggiungiamo che la stabilità o durata del modo nella cosa pensante dipende dal suo amore per Dio e dalla sua unione con lui; e, siccome nei diavoli si suppone proprio il contrario di quest’unione, non si può ammettere che essi esistano.

[4] Ma non essendoci alcuna necessità di supporre i diavoli, perché ammetterli? Infatti, a differenza di altri, non abbiamo avuto affatto bisogno di ammettere i diavoli per trovare le cause dell’odio, dell’invidia, della collera e di simili passioni; e le abbiamo ben trovate anche senza simili finzioni”.[2]

Se Hobbes costruisce la sua geometria politica al servizio della paura degli aspetti negativi dell’uomo, Spinoza costruisce una geometria etica e politica libera dalla paura, dalla speranza e dalle altre passioni.

Per Spinoza la paura è il sentimento che il filosofo deve tenere più a bada. E’ il sentimento che porta fuori strada, che promuove la superstizione, così come la speranza promuove la presunzione.

“Se gli uomini potessero dirigere tutte le loro cose con sagge e ferme decisioni, oppure se la fortuna fosse loro sempre favorevole, non sarebbero soggetti ad alcuna superstizione. Ma, poiché spesso si trovano in difficoltà tali che non sanno prendere alcuna decisione, e poiché di solito, a causa degli incerti beni della fortuna che essi desiderano smoderatamente, fluttuano miseramente tra la speranza e il timore, il loro animo è quanto mai incline a credere qualsiasi cosa: quando è preso dal dubbio, esso è facilmente sospinto ora qua ora là, e tanto più quando esita agitato dalla speranza e dalla paura, mentre nei momenti di fiducia è pieno di vanità e presunzione”.[3]

Per capire le passioni bisogna venirne fuori, guardarle dal di fuori, esaminarle come si esaminano le figure geometriche.

Ci vuole serenità per capire le passioni e, a sua volta, la comprensione delle passioni rende sereni. La serenità che rende liberi è la condizione e l’effetto della comprensione delle passioni.

Per raggiungerla bisogna lavorare molto sulle passioni.

Spinoza ha dedicato all’analisi delle passioni molto tempo e molte pagine, molto limate.

Viene da pensare al punto d’arrivo della catarsi aristotelica, ma anche del percorso psicanalitico.


[1] In Baruch Spinoza Tutte le opere, p. 1631 e p.1633.

[2] Cap. 25 della seconda parte del Breve Trattato, scritto in olandese, in Tutte le opere, ed. Bompiani 2010, p. 331. Nel carteggio con Hugo Boxel (lettere 51-56) Spinoza contesta la fede dell’amico nell’esistenza degli spettri e degli spiriti. E, al suo ricorso all’autorità, risponde: “L’autorità di Platone, Aristotele e Socrate non ha per me gran valore. Mi sarei meravigliato se mi avessi citato Epicuro, Democrito, Lucrezio o qualche altro atomista o difensore dell’atomismo. Non bisogna sorprendersi infatti che coloro che hanno ragionato su qualità occulte, specie intenzionali, forme sostanziali e mille altre sciocchezze, abbiano escogitato gli spettri e gli spiriti notturni e creduto alle streghe, al fine di sminuire l’autorità di Democrito, la cui buona fama hanno tanto invidiato da bruciare tutti i suoi libri, che aveva pubblicato con tanta lode. Se hai intenzione di prestar fede a costoro, quali ragioni hai di negare i miracoli della Santa Vergine e di tutti i Santi, che sono stati scritti da tanti celeberrimi filosofi, teologi e storici, che si possono citare cento contro uno degli altri?”. Nel secondo capitolo del Trattato teologico-politico e nella lettera 19 l’esistenza del diavolo è posta come mera finzione usata da Gesù e dai profeti per farsi capire dal popolo. Nella lettera 76 Spinoza mostra la puerilità e l’assurdità delle affermazioni dell’interlocutore Albert Burgh che, convertitosi al cattolicesimo, lo rimprovera di essersi lasciato traviare dal demonio a scrivere il Trattato teologico-politico.

[3] Sono le prime righe della prefazione del Trattato teologico-politico, in Tutte le opere, ed. Bompiani 2010, p. 635.

Torino 5 novembre 2012

Giuseppe Bailone

Fonti

www.fogliospinoziano.it

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015