PIETRO POMPONAZZI (1462-1525)

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PIETRO POMPONAZZI (1462-1525)

Fu un docente universitario filo-aristotelico del Rinascimento. Pur essendosi laureato in medicina e filosofia a Padova, insegnò solo filosofia come accademico a Padova, Ferrara e Bologna. Suo maestro fu un certo Nicoletto Vernia (1420-1499), massimo esponente dell'averroismo padovano, di spirito laico e miscredente.

Nel 1516 ha prodotto la sua grande opera De immortalitate animae, che ha dato luogo a una tempesta di polemiche tra i tomisti ortodossi della chiesa cattolica, gli averroisti guidati da Agostino Nifo, e la cosiddetta scuola alessandrista, guidata proprio da lui, che si sentiva debitore nei confronti di Alessandro di Afrodisia, uno dei maggiori commentatori aristotelici dell'antichità.

Pomponazzi praticamente sosteneva che sulla questione dell'anima i maggiori interpreti di Aristotele, Averroè e Tommaso d'Aquino, non avevano capito nulla. Lo stagirita, infatti, non aveva mai detto esplicitamente né che l'anima è una sostanza intellettiva, unica per l'intera umanità (come voleva Averroè), né che è la forma sostanziale del corpo individuale, in grado di sopravvivere dopo la morte di quest'ultimo (come aveva preteso Tommaso). E Pomponazzi era sicuro di ciò che diceva perché, conoscendo il greco - come tutti gli umanisti -, si era andato a leggere gli originali.

Egli in sostanza negava l'immortalità dell'anima o comunque che di essa si potesse dire qualcosa di certo, tanto meno basandosi sul De Anima di Aristotele. E affermava che l'intelletto umano, essendo strettamente legato alla sensibilità, non ha la possibilità di conoscere l'universale puro, per se stesso, o l'assoluto. L'universale può essere conosciuto solo attraverso immagini particolari, che sono necessariamente limitate. Se esiste un'anima immortale, non è cosa che possa essere dimostrata, e in ogni caso, se anche esistesse, essa non arriverebbe mai, su questa Terra, a incidere sulla conoscenza dell'assoluto. Pertanto, che esista o non esista, è del tutto irrilevante ai fini della conoscenza. A essa si può credere solo mediante la fede.

Pubblicato tre anni dopo che al Concilio Laterano V (1513) era stato detto che la dottrina dell'immortalità dell'anima andava considerata come un vero e proprio dogma, il trattato venne bruciato a Venezia, dopo che Pomponazzi fu denunciato come eretico dal frate agostiniano Ambrogio Fiandino. Solo grazie al sostegno del cardinale Pietro Bembo (quello che voleva imporre agli intellettuali italiani il fiorentino come lingua alternativa al latino), poté evitare il carcere o la pena di morte. Papa Leone X gli aveva ordinato di ritrattare, ma lui non lo fece, anzi e replicò con altri due scritti, l'Apologia e il Defensorium.

In un primo momento il papato lasciò correre, in quanto vedeva nel nascente protestantesimo un nemico molto più grande da combattere. Tuttavia già nel 1520 Pomponazzi decise di non pubblicare altri due trattati, il De incantationibus e il De Fato, per timore di ritorsioni. Queste sono due opere fondamentali del pensiero rinascimentale, pubblicate postume nel 1556-57 a Basilea, in ambienti protestantici, che permetteranno al Pomponazzi di diventare uno degli autori preferiti dai laicisti e anticlericali fino a tutto l'Illuminismo.

In esse infatti si afferma il carattere universale e necessario delle leggi che governano l'universo, in forza delle quali vengono esclusi fatti eccezionali come i miracoli. Lo stesso comportamento umano non può dirsi completamente libero da queste leggi: il destino non è che una razionalità universale che governa il mondo con leggi necessarie, che lo stesso dio è tenuto a rispettare. Persino le religioni sono frutto di cause naturali, destinate ad avere un'evoluzione che, prima o poi, le porterà a scomparire, essendo nate come forma di favole e di superstizioni in un mondo corrotto.

Il suo dibattito fu ripreso da Cesare Cremonini (1550–1631), che, per aver sostenuto la mortalità dell'anima, legata indissolubilmente al corpo umano, fu nel 1598 denunciato all'Inquisizione di Padova e una seconda volta nel 1604 dal collega Camillo Belloni.

Di Pomponazzi, per noi contemporanei, è sicuramente più interessante la teoria dell'etica (che si ritrova anche in Kant), secondo cui per essere virtuosi qualunque considerazione religiosa relativa alle pene dell'inferno o ai premi del paradiso costituisce un danno, in quanto condiziona dall'esterno una scelta morale che deve essere libera (o comunque motivata razionalmente) per essere autentica, proprio in quanto la ragione va considerata del tutto autonoma rispetto alla fede religiosa: ciò che per la fede, p. es., va interpretato come "miracolo", per la ragione è solo un fenomeno eccezionale. La virtù si ricompensa da sé, esattamente come il vizio si punisce da sé.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015