Le api di Mandeville

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Le api di Mandeville

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Giuseppe Bailone

Nel 1705, a Londra, viene pubblicato, anonimo, un poemetto di 433 versi, L’alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti. È un apologo, sul modello delle favole di Esopo, di Fedro e di La Fontaine. Prospetta i vantaggi del vizio e gli svantaggi della virtù individuali in termini di benessere collettivo. Nel 1714, l’opera ha una seconda edizione, ancora anonima, col titolo La favola delle api, o vizi privati, pubblici benefici e con l’aggiunta di venti note, che ne sviluppano il significato filosofico. Seguono altre edizioni e aggiunte, fino all’edizione definitiva del 1732.

L’autore è Bernard de Mandeville (1670-1733). È un medico, nato in Olanda da una famiglia di politici e di medici di origine francese. Vive a Londra. Ha interessi letterari (traduce le favole di La Fontaine) e filosofici. Il suo libro sulle virtù sociali del vizio è uno dei più letti e più discussi nel Settecento: s’inserisce nel dibattito sul benessere sociale promosso dalle novità economiche, sociali e politiche, che fanno dell’Inghilterra il primo paese ad avviarsi sulla strada del capitalismo. Si stava, infatti, allora, aprendo il conflitto fra la nascente ideologia del liberalismo individualistico, cara alla borghesia in ascesa, e quella del collettivismo egualitario, dalle radici antiche nei movimenti dei catari, dei fraticelli, dei valdesi, degli anabattisti e dei lollardi, e destinato a sviluppi importanti nei movimenti rivoluzionari successivi.

L’opera di Mandeville, però, divide anche il campo di coloro che sono a favore delle novità economiche e sociali.

Nella riflessione inglese sul rapporto tra la morale e la politica, in questo periodo, ha ancora molto peso la teoria che Hobbes ha elaborato nel corso della prima rivoluzione. E la sua idea di una natura umana portata all’egoismo, al conflitto, molto più che alla collaborazione, provoca la reazione dei moralisti. Non è un caso che proprio in questa fase storica nasca il termine “egoismo”, per indicare negativamente l’atteggiamento dell’individuo che antepone i propri bisogni e interessi a quelli degli altri. È un indice importante della preoccupazione crescente, tra una considerevole parte di uomini di cultura, per il diffondersi dello spirito individualistico, prodotto dal dissolversi delle comunità tradizionali per l’avanzare del capitalismo. Altrettanto indicativa è la più tarda comparsa, solo in clima positivistico ottocentesco, del termine opposto, “altruismo”, segno del lungo tempo che è stato necessario per la maturazione della cultura morale di contenimento dell’individualismo egoistico.

Tra i moralisti, tra coloro, cioè, che assegnano alla morale una funzione fondamentale per l’ordine sociale, si segnala Anthony Ashley Cooper, conte di Shaftesbury (1671-1713), nipote del primo conte di Shaftesbury e allievo del suo amico Locke. Convinto dell’autonomia della morale, fondata non tanto sulla ragione quanto nel sentimento, che la rende indipendente anche dalla religione, al pessimismo antropologico di Hobbes, Shaftesbury contrappone una concezione ottimistica dell’uomo e dell’universo: come l’universo è un sistema ordinato in cui le leggi particolari rientrano armonicamente in quelle più generali, così nel mondo umano le inclinazioni individuali trovano la loro realizzazione accordandosi col bene comune.

Questa idea è ripresa e sviluppata da Francis Hutcheson (1694-1747), che vede nella natura umana la tendenza disinteressata alla felicità degli altri e sostiene che l’azione moralmente migliore è quella che procura la maggior felicità al maggior numero possibile di persone. Un’idea, quest’ultima, che si ritrova in Cesare Beccaria e che è destinata ad avere fortuna.

Mandeville non crede all’esistenza di una naturale armonia tra gli interessi privati e il bene pubblico e pensa che a fondamento della stabilità e della prosperità sociale non ci sia la morale. Rovescia la tesi di Shaftesbury e rielabora, in termini molto originali e in qualche modo ottimistici, l’idea hobbesiana della natura egoistica e conflittuale dell’uomo: è vero che gli uomini sono egoisti, tesi alla competizione e disonesti, ma tutto questo, in presenza di un potere politico saggio, alimenta prosperità economica e benessere collettivo. La virtù, invece, comprimendo le passioni umane, spegne il motore delle attività economiche e del progresso tecnico-scientifico.

L’alveare di Mandeville rappresenta l’Inghilterra del tempo.

Retto da un re con potere “limitato dalle leggi”, l’alveare manifesta una diffusa immoralità: le api ricercano senza posa il proprio vantaggio e il proprio piacere. Dominano l’avidità, l’avarizia, la corruzione, il parassitismo, lo sfruttamento altrui, l’inganno e la lussuria, l’enorme ricchezza di pochi e la miseria di molti. Il vizio, però, anziché sfasciare la società, la fa prosperare: infatti, alimenta consumi crescenti e, così, promuove la produzione di beni. L’alveare dei furfanti è, nel suo insieme, ricco e potente.

“Milioni si sforzavano per soddisfare ciascuno la concupiscenza e la vanità degli altri, mentre altri milioni si dedicavano a consumare i loro manufatti”.

Alcuni, rischiando il loro capitale, fanno grandi guadagni, molti “altri sono condannati alla falce e alla vanga, e a tutti i mestieri duri e faticosi in cui i miserabili sudano ogni giorno e logorano forze e membra per mangiare”.

Ci sono i furfanti veri e propri, ma “a parte il nome”, anche gli altri, quelli “seri e industriosi” sono disonesti: “tutti i commerci e le cariche hanno qualche trucco, nessuna professione è senza inganno”. La differenza tra i furfanti di nome e gli altri la fanno l’ipocrisia e la frode mascherata.

Gli avvocati fanno rinviare le udienze per una maggiore parcella e si accostano alle leggi “come fanno gli scassinatori con le case e i negozi, per trovare il punto migliore da cui entrare”.

I medici, più che della “salute malferma del paziente e delle proprie capacità”, si curano della fama e della ricchezza.

Tra i molti preti, pochi sono “dotti ed eloquenti, migliaia violenti e ignoranti”.

Anche tra i soldati e i ministri del re è diffusa la corruzione.

La giustizia funziona soprattutto “contro i poveri e i disperati”, “per rassicurare il ricco e il potente”.

“Ogni parte dell’alveare era pieno di vizio, ma il tutto era un paradiso. Adulate in pace, e temute in guerra, erano stimate dagli stranieri; e prodighe di ricchezza e di vite, facevano da contrappeso a tutte le altre api. Tali erano le benedizioni di quello stato: i loro delitti contribuivano a farle grandi; e la virtù, che dalla politica aveva appreso mille trucchi astuti, grazie alla sua felice influenza, aveva stretto amicizia con il vizio; e da allora anche il peggiore dell’intera moltitudine faceva qualcosa per il bene comune.

Questa era l’arte politica, che reggeva un insieme di cui ogni parte si lamentava. Essa, come l’armonia della musica, faceva accordare nel complesso le dissonanze”.

“Così il vizio nutriva l’ingegnosità, che insieme con il tempo e con l’industria aveva portato le comodità della vita, i suoi reali piaceri, agi e conforti, ad una tale altezza, che i più poveri vivevano meglio di come vivessero prima i ricchi; e nulla si sarebbe potuto aggiungere”.

Ma alle api questo non basta: invece di essere “soddisfatte dei ministri e del governo”, se ne lamentano “ad ogni insuccesso, come creature perdute e senza scampo” e gridano «Maledetti gli imbrogli».

Trionfa l’ipocrisia più spudorata. E, chi si arricchisce con i propri vizi, si lamenta dei vizi altrui, in particolare di quelli dei politici.

“Appena vi era qualcosa di malfatto, o di contrario agli interessi pubblici, tutte le canaglie gridavano sfrontatamente: «Dèi benedetti, se solo vi fosse un po’ di onestà!». Mercurio sorrideva dell’impudenza, e gli altri dèi chiamavano mancanza di buon senso prendersela sempre con ciò che amavano. Ma Giove, mosso da indignazione, alla fine giurò pieno d’ira di liberare lo schiamazzante alveare dalla frode; e lo fece”.

L’onestà, ipocritamente tanto invocata, arriva e s’insedia nei cuori delle api e spegne il motore delle attività economiche.

Subito diminuisce il prezzo della carne e, poi, delle altre merci. L’ipocrisia e la frode si dissolvono. I tribunali si fanno deserti e molte professioni si spengono. Il commercio deperisce rapidamente, si ferma il traffico internazionale e si abbandonano i mari. La popolazione crolla: se vanno quelli che spendevano grandi somme e le moltitudini che vivevano grazie a loro. Anche l’arte e le scienze deperiscono.

Morale della favola: “Soltanto gli sciocchi cercano di rendere onesto un grande alveare. Godere le comodità del mondo, essere famosi in guerra, e, anzi, vivere nell’agio senza grandi vizi, è un’inutile UTOPIA nella nostra testa.

[…] La semplice virtù non può far vivere le nazioni nello splendore; chi vuol fare tornare l’età dell’oro, deve tenersi pronto per le ghiande come per l’onestà”.


Torino 21 ottobre 2013

Fonte: ANNO ACCADEMICO 2013-14 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

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Aggiornamento: 26-04-2015