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La condizione di Lyotard

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Dario Lodi

Il filosofo francese Jean-François Lyotard (1924-1998) è noto soprattutto per il suo libro di rottura “La condizione postmoderna”, intendendo la modernità finita dopo la Seconda guerra mondiale, in particolare negli anni ’60. Perno del concetto è l’avanzare della tecnologia robotica e la conseguente spersonalizzazione della classica personalità umana. Quest’ultima è ben rappresentata dall’Umanesimo e dalla scienza susseguente, culminate con le sistemazioni intellettuali effettuate dal razionalismo inglese e dall’Illuminismo francese di metà ‘700, in concomitanza con l’avvento della Rivoluzione industriale.

Lyotard si riferisce alla stessa per evidenziare avvedutamente e coraggiosamente, dati i tempi (si era nel 1979), nel libro in questione, il cambiamento speculativo avvenuto, in modo davvero notevole, a partire da fine ‘800. Il soggetto (l’uomo) degno di nuova speculazione, grazie alla famosa rivoluzione, è sostituito dall’oggetto su cui speculare per giungere ad avere un vantaggio individuale. Con le conseguenze pratiche della Rivoluzione industriale viene ad assottigliarsi, sin quasi all’insussistenza, sia il valore umanistico sia quello umanitario.

Solo il marxismo si erge a difensore dei due valori, limitandosi, però, a rivendicazioni di natura pragmatica più che idealistica: il capitalismo, in possesso di un’esperienza superiore, riuscirà ad avere ragione della seconda con facilità irrisoria. Tutto questo porta Lyotard ad affermare che la nuova condizione umana si va affermando in senso oggettivo e soggettivo allo stesso tempo. La formula nasce dalle esigenze della macchina industriale che esige competenze sempre maggiori per il suo funzionamento.

L’attenzione del sistema procede a testa bassa nella direzione del profitto materiale e personale, creando strumenti specifici per l’evoluzione conoscitiva ed effettiva incentrate sul progresso oggettivo. Quest’ultimo diventa appropriazione soggettiva, individualistica, avendo il soggetto, prodotto dal sistema, realizzato l’allontanamento di coloro che non sono stati introdotti nella “stanza dei bottoni”.

La Rivoluzione industriale ha rovinato il disegno umanistico esaltato dall’Illuminismo e rispettato persino dal Positivismo di Comte, la cui dichiarazione materialistica, infatti, contiene qualcosa di romantico. Lyotard non è scandalizzato da tutto questo, per lo meno non lo dà a vedere, limitandosi ad annotazioni a margine che tuttavia insospettiscono. A pagine sessantotto del libro, egli accenna al discorso fatto da Heidegger il 27 maggio 1933 in occasione della propria nomina a rettore dell’Università di Fribourg-en-Brigau, rivelando la sua delusione per le affermazioni del filosofo tedesco in merito alla “missione storica” del popolo tedesco: un discorso, forse involontariamente, razzista che va comunque a sorreggere l’opinione lyotardiana sulla fine dell’Umanesimo.

Se degli strumenti che uso ne faccio una specializzazione corporativistica, ebbene tradirò il principio che vuole un bene a disposizione dell’intera umanità. In un’altra parte del libro, Lyotard nomina la Scuola di Francoforte (assai vicina alle teorie gramsciane): il sapere deve essere messo a disposizione di tutti perché chiunque possa collaborare a migliorarlo. Se il sapere resta riservato, esso diventerà una forma di potere a danno dei concittadini. La società subirà una trasformazione materiale e morale gravissima, divenendo decisamente piramidale, con la base alla mercé del vertice.

Lo Stato, dunque non il Sistema, deve sterilizzare ogni forma di oligarchia: Lyotard non lo dice ma qua e là lo fa intendere. Egli preferisce esporre le cose con senso realistico, grazie al quale può prevedere il futuro dell’umanità, pur avvalendosi di una sorta di pessimismo (che francamente piace) derivato dalla caduta del mito umanistico. Il filosofo francese rivela (non è il primo a farlo, ma è il primo a farlo senza alcun tentennamento) che le grandi narrazioni filosofiche sono definitivamente morte e che, di conseguenza, la filosofia non sta tanto bene: si teme per le sue sorti. Successivamente, se la cava ipotizzando la possibilità, per la filosofia, di adeguarsi al relativismo che la stessa scienza ha decretato con le incertezze, assai accentuate, riguardo a finalismo e determinismo: la meccanica quantistica, le teorie di Heisenberg e addirittura le prove di Goedel sull’inaffidabilità della matematica (in realtà un fenomeno interno alla disciplina, alquanto enfatizzato) erano lì a mettere in crisi qualsivoglia credenza.

Lyotard raccomanda, obtorto collo, non di affidarsi al relativismo, ovviamente, ma ad imparare a convivere con esso e dunque a ripensare realtà e supposizioni, in quanto l’essere è tramontato e il divenire ha mostrato le sue carte. La convivenza con il relativismo, aggiunge modestamente l’autore dell’articolo), ha il pregio d stimolare la ricerca e, grazie agli strumenti nuovi (il computer, internet) di porre sotto discussione i progressi scientifici e culturali, di farlo, per lo meno, da un punto di vista della dignità intellettuale e morale che appartiene ad ognuno di noi, altro che Orwell 1984!

D’altro canto, l’alternativa al relativismo è l’assolutismo delle istituzioni storicizzate, soprattutto di quella ecclesiastica che è l’esempio lampante di un’accettazione del vero secondo parametri irrazionali che, di fatto, umiliano la capacità intellettuale dell’uomo e ne impoveriscono le risorse immaginative e speculative. È come se avessi una vanga e mi riducessi a scavare con le mani pregando il cielo di non far piovere perché non so come aprire l’ombrello. Eppure ho creato, o in potenza posso farlo, sia l’uno che l’altro oggetto.

Il filosofo francese fa capire che noi continuiamo a muoverci intorno a dei totem, una volta bianchi, una volta neri. Cambiamo solo il colore della vernice, il totem rimane. E guarda caso si riallaccia a quello originale, quello metafisico, da cui deriva ogni forma di potere moderno: si veda l’instaurarsi dell’oligarchia, si veda il verticalismo del sistema. Lyotard avverte, indirettamente: stiamo attenti, con questo passo deridiamo l’essere umano, vilipendiamo la sua personalità. Offendiamo la sua intelligenza, alimentiamo la sua credulità nel salvatore di turno. Prendiamo in giro cultura e civiltà. Regrediamo invece di progredire. Favoriamo l’involuzione.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015