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HUME E LA FILOSOFIA DELLA SCEPSI APPLICATA ALLA RELIGIONE

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HUME

Si è soliti dire che gli inglesi siano poco avvezzi alla speculazione filosofica, essendo materialisti o, se si preferisce, empiristi di natura. Ebbene se si leggesse David Hume (1711-76), che per di più era scozzese, si scoprirebbe che l’intera sua filosofia sembra essere fatta apposta non solo per confermare questa universale opinione che si ha degli inglesi, ma anche per dimostrare, in maniera molto articolata, che tale atteggiamento nei confronti della vita è l’unico a essere veramente fondato. Hume ambiva a porsi come una sorta di “Newton della psicologia”.

Se poi si pensa che il suo modo di scrivere, così arguto, ironico, brillante rendeva letteralmente impossibile averlo in antipatia, anche quando, per la mentalità del suo tempo, non era certo facile dichiararsi agnostici o addirittura atei, senza subire gravi conseguenze, forse si può addirittura sostenere che Hume sia stato uno degli intellettuali più straordinari che gli inglesi abbiano mai avuto.

L’opposizione clericale

Di questo invero se n’era subito accorta la stessa chiesa presbiteriana scozzese, che pur essendo di origine calvinista avrebbe avuto un motivo in più per discutere con lui le tesi razionaliste in materia di fede religiosa. Invece, avendo già intuito che un qualunque discorso di filosofia naturale o deistica, pur con tutti i distinguo di questo mondo, rischiava prima o poi di portare all’ateismo e quindi alla fine di quella casta di intellettuali chiamati “teologi”, essa fece di tutto, sin dalla pubblicazione del Trattato sulla natura umana (1739-40), per impedire a questo promettente filosofo d’intraprendere una qualsivoglia carriera universitaria, che avrebbe ampiamente meritato, per quanto il testo non ebbe molto successo tra il pubblico.

Allorché decise di dare alle stampe, in forma anonima, quella sua prima opera, scritta peraltro durante il suo soggiorno in Francia, a Reims e La Flèche, presso i gesuiti (1734-37), Hume sapeva benissimo a quali rischi sarebbe andato incontro, tant’è che s’era premurato di togliere proprio le parti relative alla religione (idea di provvidenza, di miracolo, di profezia ecc.). Ciò ovviamente non bastò a risparmiargli l’accusa di ateismo e a nulla valsero i suoi tentativi, un po’ goffi, di sostenere, nella Lettera ad un amico (1745), che le tesi scettiche del Trattato avevano lo scopo recondito di dimostrare che un qualunque discorso razionalista intorno alla fede non faceva che sminuirne il valore esistenziale.

Nessuno gli credette e lui dovette arrangiarsi a fare fortuna in ambienti non accademici, diventando prima precettore dello squilibrato marchese di Annendale, poi segretario del generale St. Clair. A quel punto (e siamo già nel 1748) il succo del Trattato si poteva anche ripubblicare integralmente in forma saggistica e senza anonimato, col titolo di Ricerca sull’intelletto umano. Cosa che mandò su tutte le furie la Church Assembly, che prese a minacciarlo di scomunica se avesse continuato a offendere le verità evangeliche e i fondamenti della pubblica morale.

Hume era piacevole a leggersi perché dava l’aria d’essere un perfetto gentleman, misuratissimo anche quando gli intellettuali contrari alle sue idee (p.es. T. Reid) lo criticavano in modo molto pesante. Nelle Lettere scrive che stava subendo un complotto da parte di alcuni bigotti e che se proprio lo si voleva considerare “ateo”, che si sapesse che il suo modello era H. Saint-John Bolingbroke, politico e filosofo inglese, amico di Voltaire, scettico in materia di religione.

Questo per dire ch’egli non voleva apparire come un fulmine a ciel sereno, ma come un anello fondamentale di quella progressiva demolizione delle radici cristiane che nel suo paese era iniziata, in maniera soft, con la formazione del deismo, che non a caso trovava le proprie origini in Inghilterra.

Il background filosofico inglese

I primi a porre una netta distinzione tra religione naturale (basata sulla ragione) e religione rivelata (basata sulla fede) erano stati H. de Cherbury (1583-1648) e T. Hobbes (1588-1679). I successivi deisti (il conte di Shaftesbury, G. Berkeley, J. Locke, J. Toland), quando difendevano la religione naturale ritenendola utile sul piano etico-politico, finivano per portare il credente su posizioni sempre più scettiche nei confronti dei dogmi cristiani, cattolici o riformati che fossero, anche contro le loro migliori intenzioni. Cosa che rilevò lo stesso Hume quando disse, col suo tipico humour, che il vescovo Berkeley, con la sua negazione delle idee generali, aveva favorito la causa di quei liberi pensatori che voleva confutare. E proprio in virtù di quella onestà di fondo che l’aveva sempre caratterizzato, Hume si sentì in dovere di palesare la necessità della sua conclusione scettica.

Bastano pochissime frasi per rendersi conto di quanto la sua filosofia s’innesti perfettamente in quella corrente deistico-illuministica anglo-francese ch’egli s’accingeva a svolgere in maniera consequenziale. La conoscenza ha origine dai sensi e si fonda sulle percezioni, di cui le maggiori sono le impressioni e le minori le idee. Quest’ultime si collegano tra loro per somiglianza, contiguità spazio-temporale e causa/effetto. L’unica conoscenza certa, cioè logica e necessaria, è quella astratta della matematica, mentre quella riferita alla realtà concreta può basarsi unicamente sul nesso di causa ed effetto, che viene ritenuto fondato per esperienza, cioè per abitudine psicologica, traducibile anche in un feeling della coscienza o addirittura in una fede (belief), a condizione che resti qualcosa di “sentito” o “percepito”, non di “concepito”.

In questa nostra vita terrena (si potrebbe chiosare così l’intero corpus humiano), le cui contraddizioni spesso ce la rendono incomprensibile, non può in alcun modo esserci spazio “razionale” per la trascendenza, ovvero per un mondo che nel migliore dei casi appartiene soltanto ai morti: qualunque “dimostrazione” dell’esistenza divina va considerata un nonsense. Persino in geometria sarebbe assurdo concepire un triangolo in generale, prescindendo dalle caratteristiche dei suoi lati e angoli.

Se qualcuno gli avesse chiesto in che maniera è giusto o comunque possibile cambiare habit o custom, ovvero come si può sapere con sicurezza quando un’abitudine debba essere considerata migliore di un’altra, lui avrebbe risposto, serafico, che se il mondo diventa invivibile perché troppo assurdo, l’uomo, per istinto di sopravvivenza, l’avrebbe riportato alla normalità. E in questo egli rifletteva l’ottimismo della società industriale del suo tempo, avviata ad affermare sul piano economico la dottrina del laissez faire. I testi storico-politici di Hume non sono meno favorevoli al liberalismo di quelli dei maggiori economisti del suo tempo.

Si badi però che per Hume la critica della religione non è mai arrivata a sostenere che la fede non potesse servire sul piano pratico, come forma di moralità personale. Una religione che si mantiene nei limiti della ragionevolezza umana e rinuncia a imporre astratte speculazioni e soprattutto biechi fanatismi, può tranquillamente continuare a sussistere sotto il principio della tolleranza lockiana.

Da notare che questa differenza tra lo scetticismo fine a se stesso di alcuni filosofi classici (p.es. i pirronisti) e quello humiano che affida al sentimento la fondazione della verità, era stata acutamente colta da Hegel e troverà persino dei seguaci significativi in Hamann, Jacobi, Lessing e, in parte, nel Kant della seconda e terza Critica.

Nella sua Introduzione all’ateismo moderno è piaciuto a Cornelio Fabro sottolineare questa possibile lettura dell’opera humiana, favorevole a una fede vissuta in maniera più esistenziale. A noi invece preme far notare come Hume avesse saputo raccogliere i risultati di quasi un secolo di polemiche illuministiche contro il cristianesimo, portando il deismo inglese allo scetticismo e preparando la strada alla Critica kantiana della Ragion pura: un’operazione intellettuale contro cui nulla potranno le accuse di ateismo mossegli dalla scuola tedesca di Leibniz-Wolff, che vedeva nello scetticismo teoretico la porta spalancata sull’abisso dell’”inquietudine dello spirito”, come disse E. Platner nel 1783.

L’ultimo Hume

È noto che, nonostante i successi editoriali posteriori al Trattato, Hume si sentiva costantemente minacciato dal conservatorismo clericale del suo paese, tanto che non ebbe mai il coraggio di pubblicare la sua opera antireligiosa più significativa, Dialoghi sulla religione naturale, neppure quando, dopo essersi trasferito a Edimburgo nel 1751, era sicuro di poter vivere abbastanza agiatamente con la piccola rendita paterna e coi proventi delle edizioni dei suoi scritti, cui peraltro s’era aggiunta la monumentale Storia d’Inghilterra (1754-62), che lo vide impegnato un decennio, trascorso presso la biblioteca della Facoltà degli Avvocati di Edimburgo, di cui fu anche direttore per alcuni anni.

Sarà questa, oltre ai Discorsi politici (1752), alla Storia naturale della religione (1757) e ad altre pubblicazioni di etica ad assicurargli ampia notorietà e non solo nazionale, al punto che verrà accolto con tutti gli onori negli ambienti illuministici francesi, ivi inclusi quelli del circolo di D’Holbach, che sicuramente influirono sull’ultima revisione dei suddetti Dialoghi, quando si presenterà a Parigi nel 1763 in veste di segretario d’ambasciata al seguito di Lord Hertford, restandovi per un triennio.

Nondimeno egli deciderà di far pubblicare i Dialoghi, la cui prima stesura risaliva addirittura al 1749-51, soltanto dopo la sua morte, per esecuzione testamentaria, affidandone l’incarico al nipote, visto che il suo amico più caro, il noto economista Adam Smith opporrà fino all’ultimo un netto rifiuto per ragioni non di principio ma di opportunità. Identica disposizione riservò al testo sul Suicidio e a quello sull’Immortalità dell’anima.

Critica della filosofia humiana

La filosofia humiana non aveva alcunché di “militante”, come invece quella degli illuministi francesi: era soltanto improntata a un “laico buon senso”, mediante cui si poteva rinunciare alla fede senza per questo pregiudicare alcunché della propria facoltà di giudizio.

Hume aveva chiaramente anticipato Kant, come già dissero i nostri Dal Pra e Della Volpe, nella critica dell’ontologia e della metafisica religiosa: cosa che d’altra parte lo stesso Kant ammise quando nei Prolegomeni scrisse: “è stato l’avvertimento di Hume che molti anni fa primamente ruppe in me il sonno dogmatico e diede alle mie ricerche nel campo della filosofia speculativa un tutt’altro indirizzo”.

Tuttavia il limite fondamentale della sua filosofia, nella critica antireligiosa, stava proprio nel fatto che ci si appellava ai sensi, di cui il migliore era il buon senso, quando la stessa cosa avrebbero potuto farla i clericali, in pieno Medioevo, per sostenere che non aveva alcun senso non credere nella religione. Questo per dire che una qualunque critica della religione non porta a risultati demolitori se ci si limita a un’operazione meramente filosofica, in cui a un’idea teistica se ne contrappone un’altra di tipo ateistico o anche solo agnostico, senza cioè una contestuale strategia che investa anche il livello del conflitto sociale e della gestione del potere.

Ci vorrà il socialismo inglese di un secolo dopo prima di collegare in maniera organica lo sviluppo sociale di un paese con quello culturale, arrivando alla conclusione che il capitalismo, a causa delle proprie insolute contraddizioni, non ha alcuna possibilità, se non negando se stesso, di sostenere posizioni radicalmente antimetafisiche.

Hume, non senza coraggio, aveva portato il deismo a conseguenze più radicali, opponendo la scepsi, cioè il nuovo “buon senso” dell’intellettuale razionalista, a un altro “senso”, che fino a ieri era “comune” e che la potente rivoluzione industriale inglese rendeva sempre più velocemente obsoleto. E chi, negli ambiti clericali, lo criticava, non si rendeva conto che proprio la natura “protestante” della nuova religione cristiana aveva enormemente favorito il decollo di quello stesso sviluppo industriale e quindi, indirettamente, lo sviluppo del laicismo che gli era correlato. Lo dimostra il fatto che pur essendo stato minacciato di scomunica, nessuno ebbe il coraggio di comminargliela. L’Inghilterra aveva sofferto già abbastanza per le guerre di religione e Hume sapeva bene che se un libero pensatore avesse avuto il buon gusto di tenere le proprie considerazioni laiciste nei limiti del pacato confronto teoretico, nessuno avrebbe avuto da ridire più di tanto, specie in una nazione così aperta alla modernità come quella inglese. Tutto sommato ebbe ragione. Ma quanto in questo suo atteggiamento accorto abbiano influito i gesuiti frequentati in gioventù, è facile immaginarlo.

Fonti

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015