Diderot: contro il dispotismo illuminato e il colonialismo

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Diderot: contro il dispotismo illuminato e il colonialismo

I - II - III

Giuseppe Bailone

Il libero arbitrio non esiste, ma la libertà politica è un bene inalienabile.

"Nessun uomo ha avuto dalla natura il diritto di comandare agli altri. La libertà è un dono del cielo, e ogni individuo della stessa specie ha il diritto di fruirne non appena è dotato di ragione. L'unica autorità posta dalla natura è la patria potestà; ma la patria potestà ha dei limiti e nello stato di natura cesserebbe non appena i figli fossero in grado di governarsi. Ogni altra autorità ha un'origine diversa dalla natura. A ben guardare, si potrà sempre farla risalire a una di queste due fonti: o alla forza e alla violenza di chi se n’è impadronito, o al consenso di coloro che vi si sono assoggettati con un contratto stipulato o presunto tra essi e colui al quale hanno deferito l'autorità. Il potere acquisito con la violenza è mera usurpazione, e dura solo finché la forza di chi comanda prevale su quella di coloro che ubbidiscono; sicché, se questi ultimi diventano a loro volta i più forti e si scrollano di dosso il giogo, lo fanno con altrettanto diritto e giustizia di chi l'aveva loro imposto. La stessa legge che ha fondato l'autorità allora la distrugge: è la legge del più forte.

Talvolta l'autorità impostasi con la violenza cambia natura: quando si regge per aperto consenso di coloro che si sono sottomessi; ma, in questo caso, rientra nel secondo caso che esaminerò; e chi se l'era arrogata, diventando allora principe, cessa di essere tiranno.

Il potere che deriva dal consenso dei popoli presuppone necessariamente condizioni che ne rendano l’uso legittimo, utile alla società, vantaggioso per lo Stato, e che lo fissino e gli pongano dei limiti; infatti l’uomo non deve e non può darsi interamente e senza riserve ad un altro uomo […]

Il vero e legittimo potere ha necessariamente dei limiti".

Così scrive Diderot nell'Enciclopedia alla voce "L'autorità politica".

Alla voce “Potere” ribadisce il concetto.

“Il consenso degli uomini riuniti in società è il fondamento del potere. Il potere stabilitosi con la forza può reggersi solo con la forza; questa non può conferire un titolo, e i popoli conservano sempre il diritto di reclamare contro di essa. Fondando le società, gli uomini hanno rinunciato a una parte dell’indipendenza nella quale la natura li ha fatti nascere solo per garantirsi i vantaggi derivanti dalla loro sottomissione a un’autorità legittima e ragionevole; non hanno mai preteso di affidarsi senza riserve a padroni arbitrari, né porger le mani alla tirannia e all’oppressione né conferire ad altri il diritto di renderli infelici”.

Il potere appartiene al popolo e lo Stato deve reggersi sul consenso popolare.

Come molti altri illuministi, anche Diderot aveva sperato che i sovrani assoluti potessero diventare riformatori illuminati. Col tempo, però, e tenendo sotto osservazione la politica di Federico II, il re di Prussia, egli matura l’idea che il sovrano assoluto, anche se illuminato, sia sempre un despota. Esso, infatti, esercitando un potere arbitrario, anche quando ordina cose buone, toglie al popolo il bene più prezioso, cioè il suo diritto di deliberare, di volere o di non volere. Diderot lo scrive nel 1774 in Confutazioni di Helvétius.

Niente di meglio, dice il re di Prussia in un discorso all’Accademia di Berlino, che il governo arbitrario sotto principi giusti, umani e virtuosi.

E siete voi, Helvétius, che citate con elogio questa massima di un tiranno! Il governo arbitrario di un principe giusto e illuminato è sempre cattivo. Le sue virtù sono la più pericolosa e la più sicura delle seduzioni: esse abituano insensibilmente un popolo ad amare, a rispettare, a servire il suo successore, quale ch’esso sia, cattivo o stupido. Egli toglie al popolo il diritto di deliberare, di volere o di non volere, di opporsi alla sua stessa volontà, anche quando ordina il bene; tuttavia tale diritto di opposizione, per insensata che questa possa essere, è sacro: senza di esso i sudditi somigliano a un gregge di cui si disprezzano i reclami, col pretesto che lo si conduce in grassi pascoli. [...] Una delle più grandi disgrazie che possano capitare a una nazione, sarebbero due o tre regni di una potenza giusta, dolce, illuminata, ma arbitraria: i popoli sarebbero portati dal benessere al completo oblio dei loro privilegi, alla schiavitù più assoluta. Non so se un tiranno e i suoi figli siano mai stati autori consapevoli di questa temibile politica; ma non dubito affatto che essa gli sarebbe riuscita bene. Guai ai sudditi nei quali si annienta ogni difesa della loro libertà, anche attraverso i mezzi in apparenza i più lodevoli. Questi mezzi saranno ancora più funesti per l’avvenire. È così che si cade in un sonno assai dolce, ma sonno di morte, nel corso del quale il senso patriottico si spegne, e si diviene estranei al governo dello Stato. Supponete che gli Inglesi avessero tre Elisabette di seguito: gli Inglesi diverrebbero gli ultimi schiavi fra i popoli d’Europa”.1

Tra il 1773 e il 1774 Diderot è ospite della zarina Caterina II, che lo intrattiene in lunghe conversazioni su diverse questioni. In particolare ha modo di leggere l’Istruzione che Caterina II aveva indirizzato nel 1767 a un’assemblea di deputati da lei stessa convocata per la stesura di una legislazione generale. Durante il ritorno, in Olanda, comincia a scrivere le Osservazioni sull’istruzione dell’imperatrice di Russia ai deputati per l’elaborazione delle leggi. Apre questo scritto scrivendo che “unica vera sovrana è la nazione; unico vero legislatore il popolo”. Condanna senza mezzi termini il dispotismo illuminato, sostiene che il sovrano deve giurare fedeltà alle leggi e che il suo operato deve essere controllato dai rappresentanti del popolo.

Rivolto al popolo scrive:

“Popoli, se avete la piena autorità sui sovrani, stabilite un codice; se il sovrano ha la piena autorità su di voi, lasciate perdere il codice; fabbrichereste delle catene solo per voi”.

Rivolto alla zarina scrive:

”L’Imperatrice di Russia è senz’altro despota. È sua intenzione mantenere il dispotismo e trasmetterlo ai successori o abdicarvi? Se mantiene per sé e per i suoi successori il dispotismo, faccia il codice come vuole; non sa che farsene del consenso della nazione. Se vi abdica, la sua abdicazione sia formale; se la sua abdicazione è sincera, si occupi insieme con la nazione dei mezzi più sicuri per impedire al dispotismo di rinascere, e si legga nel primo capitolo la rovina sicura di chi ambisse in futuro all’autorità arbitraria di cui essa si spoglia. Questi dovrebbero essere i primi passi di un’istruzione proposta ai popoli da una sovrana di buona fede, grande come Caterina II e nemica della tirannia come lei.

Se leggendo quanto ho scritto e ascoltando la sua coscienza, il suo cuore trasale di gioia, non vuol più schiavi; se freme, se le si ritrae il sangue, se impallidisce, vuol dire che si è creduta migliore di quanto fosse”.2

Nel rapporto con la zarina, Diderot non ha reticenze: “Ho osato dire all’Imperatrice che c’era una malattia alla quale i sovrani andavano più soggetti dei popoli, la follia; e lei è stata d’accordo senza offendersene. A lei si può dire la verità; è veramente Enrico IV in gonnella”.3

Dalla riflessione su quel soggiorno nella capitale russa nascono scritti politici poi pubblicati col titolo di Colloqui con Caterina II. Nel quarto di questi, che ha per titolo Della commissione e dell’utilità che essa sia permanente, scrive:

“Ogni governo arbitrario è cattivo; non faccio eccezione per il governo arbitrario di un padrone buono, risoluto, giusto e illuminato.

Questo padrone abitua a rispettare e ad amare un padrone, qualunque sia.

Toglie alla nazione il diritto di deliberare, di volere o di non volere, di opporsi, di opporsi magari al bene. Il diritto di opposizione mi sembra, in una società di uomini, un diritto naturale, inalienabile e sacro.

Un despota, fosse anche il migliore degli uomini, governando solo in base alla propria volontà, commette un delitto. È un buon pastore che riduce i sudditi alla condizione di animali; facendo dimenticar loro il sentimento della libertà, sentimento così difficilmente recuperabile una volta perduto, procura loro una felicità di dieci anni che pagheranno con venti secoli di calamità.

Una tra le più grandi disgrazie che possano capitare a una nazione libera, sarebbe quella di due o tre regni consecutivi di dispotismo giusto e illuminato. Tre sovrane di seguito come Elisabetta, e gli Inglesi sarebbero stati portati insensibilmente a una schiavitù di cui non si può determinare la durata.

Guai ai sudditi il cui monarca trasmettesse ai figli quest’infallibile e terribile politica! Guai al popolo in cui non rimane nessuna inquietudine, magari mal fondata, riguardo alla libertà!

Questa nazione cade in un sonno dolce, ma è un sonno di morte”.4

Diderot apprezza il proposito di Caterina II di convocare la Commissione, l’assemblea rappresentativa e legislativa della nazione: “Si raduna la propria nazione per creare delle leggi; è un atto molto generoso da parte di una sovrana abdicare all’autorità legislativa”. Ma, rivolto alla zarina, aggiunge: “Voglia ella considerare che le leggi formali, scritte, pubbliche, note, osservate, sono purtuttavia soltanto parole che non possono sussistere senza un essere fisico, costante, immutabile, permanente, eterno, se ce n’è uno al quale si riferiscano queste parole; che questo essere fisico deve agire e parlare, e di conseguenza non è il marmo, che resiste poco ed è muto.

Chi deve dunque essere quest’essere fisico, durevole, che parla ed agisce?

La commissione stessa. È questo corpo permanente che io opporrei alla rovina futura delle mie leggi e istituzioni”.5

Questa “commissione”, però, ha avuto vita breve: riunita il 10 agosto 1767, è stata sciolta nel dicembre 1768 e non più riconvocata.

“Caterina II non ha ancora abbastanza dimenticato nella sua Istruzione di essere sovrana. Vi si trovano delle righe in cui, senza accorgersene, riprende lo scettro che aveva deposto all’inizio”.6

Diderot conclude: “Vedo nell’Istruzione di Sua Maestà Imperiale un progetto di codice eccellente; ma non c’è una parola sul mezzo di garantire la stabilità di questo codice. Vedo abdicare al nome di despota; ma rimanere intatta la sostanza, il dispotismo chiamato monarchia. Non vi si progetta nessuna disposizione per l’emancipazione del corpo della nazione”.7

Molto netta è in Diderot anche la condanna del colonialismo.

Nel 1771, nel Supplemento al Viaggio di Bougainville, scrive un commento al Viaggio intorno al mondo del navigatore francese che aveva scoperto numerosi arcipelaghi della Polinesia. In questo testo, Diderot contrappone alla violenta e corrotta civiltà europea la comunità tahitiana, vicina alla natura.

Nell'isola di Tahiti non esiste la proprietà privata, non c’è l'idea di peccato; la donna è libera; il vincolo matrimoniale è "il consenso di abitare in una stessa capanna, di dormire nello stesso letto, finché si sta bene insieme".

Nel secondo capitolo del Supplemento c’è la figura del “vegliardo”, che “all’arrivo degli europei lasciò cadere su di loro sguardi sdegnosi, senza rivelare stupore, né spavento, né curiosità”, voltò loro la schiena e si ritirò nella sua capanna, rimpiangendo “dentro di sé i bei giorni del suo paese, ormai perduti”. Alla partenza degli europei, il vecchio saggio, al suo popolo che piange, dice “con aria severa”: "Piangete, infelici tahitiani! Piangete. Ma ciò sia per l’arrivo, non per la partenza di questi uomini malvagi e ambiziosi: un giorno li conoscerete meglio. Un giorno essi torneranno, col crocefisso, che vedete pendere dalla cintura di quello, in una mano, e con la spada, appesa al fianco di quell’altro, nell’altra, per incatenarvi, sgozzarvi o assoggettarvi alle loro stravaganze e ai loro vizi; un giorno sarete loro schiavi, corrotti, vili e infelici come loro. Ma io mi consolo; sono alla fine della mia strada; le calamità che vi annuncio non le vedrò mai”.

Il vegliardo si rivolge poi a Bougainville: “E tu, capo dei briganti che ti obbediscono, sciogli subito il tuo vascello dalla nostra riva: noi siamo innocenti e felici, e tu non puoi che nuocere alla nostra felicità. Noi seguiamo il puro istinto della natura; e tu hai tentato di cancellare questo carattere dai nostri animi. Tutto qui è di tutti; e tu ci hai inculcato non so che distinzione di tuo e di mio. [...]. Noi siamo liberi; e tu hai piantato nella nostra terra il titolo della nostra futura schiavitù.8 Non sei un dio né un demonio: chi sei dunque per fare degli schiavi? [...] Tu hai progettato nel fondo del tuo cuore la rapina di tutto un popolo! Tu non sei schiavo, sopporteresti la morte pur di non esserlo, e tu vuoi rendere noi schiavi! Credi dunque che il tahitiano non sappia difendere la sua libertà fino alla morte? Il tahitiano, del quale vuoi impadronirti come se fosse un animale, è tuo fratello. Voi siete due figli della natura: quale diritto hai su di lui che non abbia lui su di te? Sei arrivato, ci siamo forse gettati sulla tua persona? Abbiamo forse saccheggiato il tuo vascello? Ti abbiamo catturato ed esposto alle frecce dei nostri nemici? Ti abbiamo messo a lavorare i campi insieme agli animali? Noi abbiamo rispettato in te la nostra immagine. Lasciaci i nostri usi; essi sono più saggi e onesti dei tuoi. Non vogliamo barattare quella che chiami la nostra ignoranza con il tuo inutile progresso. Tutto ciò che è buono e necessario, noi lo possediamo. Siamo forse degni di disprezzo solo perché non abbiamo saputo costruirci dei bisogni superflui? [...] Insegui finché vuoi ciò che chiami comodità della vita, ma permetti a degli esseri sensati di fermarsi, poiché non resterebbe loro che raggiungere, per mezzo di una perpetua e penosa fatica, dei beni immaginari. Se tu ci persuadi a oltrepassare i puri limiti dei bisogni, quando cesseremo di lavorare? Quando prenderemo piacere? Noi abbiamo ridotto il più possibile le nostre fatiche annuali e giornaliere, poiché nulla ci è parso preferibile al riposo. Va pure ad agitarti nel tuo paese, a tormentarti quanto vorrai; lasciaci riposare: non stordirci coi tuoi bisogni fittizi né con le tue chimeriche virtù. [...] Noi non conosciamo che una malattia, alla quale sono condannati uomini, piante e animali: la vecchiaia; e tu ce ne hai portato un’altra [la sifilide]: hai infettato il nostro sangue. [...] L’idea del peccato e il pericolo della malattia sono entrati fra noi con te. I nostri piaceri, un dì così dolci, sono accompagnati da rimorsi e paura. Quell’uomo vestito di nero, che è vicino a te e che mi ascolta, ha parlato ai nostri ragazzi; non so quello che ha detto alle fanciulle; ma i maschi sono esitanti; le femmine arrossiscono. Immergiti, se vuoi, nella foresta oscura con la perversa compagna dei tuoi piaceri: ma concedi ai buoni e semplici tahitiani di riprodursi senza vergogna, al cospetto del cielo e alla luce del sole. Quale sentimento più grande e più onesto potresti mettere al posto di quello che noi gli abbiamo ispirato, e che li anima. Essi pensano che è venuto il momento di arricchire la nazione e la famiglia di un nuovo cittadino, e se ne gloriano. Mangiano per vivere e per crescere: crescono per moltiplicarsi e non trovano in ciò né vizio né vergogna. Ascolta la trafila dei tuoi delitti. Appena ti sei mostrato tra loro, essi sono diventati ladri. Appena sei sbarcato sulla nostra terra, questa si è impregnata di sangue”.9

Alla denuncia del colonialismo seguono riflessioni sul disagio della civiltà.

“Volete conoscere la storia succinta di tutta la nostra infelicità? Eccola. Esisteva un uomo naturale: hanno introdotto dentro di lui un uomo artificiale. Ed è sorto da questo sottosuolo un conflitto perpetuo che dura tutta la vita. Ora l’uomo naturale è più forte, ora è ridotto al silenzio dall’uomo morale e artificiale. In entrambi i casi questo triste mostro è strattonato, attanagliato, tormentato, steso al suolo, tra gemiti incessanti, in una infelicità senza fine”.10

Contro le “virtù convenzionali” che tormentano l’uomo civile, ci sono solo “due grandi esorcisti”, la miseria e la malattia: “L’uomo è senza rimorsi nella miseria; la donna, nella malattia, è senza pudori”.

Freud è ancora lontano, ma questo “conflitto perpetuo” che nasce nel “sottosuolo” umano anticipa un’idea fondamentale della sua psicanalisi.

Anche se “si è visto spesso il cittadino spogliarsi e rientrare nella foresta, mai l’uomo selvatico vestirsi e stabilirsi in città”,11 Diderot, come poi Freud, non propone il semplice ritorno dell’uomo alla natura, e neppure condivide la distruzione del rimorso promossa da La Mettrie. Tuttavia scrive:

“Se vi proponete di esserne il tiranno, rendetelo pure civile; avvelenatelo al meglio con una morale contraria alla natura; mettetegli freni di ogni specie; impeditegli i movimenti con mille ostacoli; costruite per lui dei fantasmi che lo atterriscano, rendete eterno il suo conflitto sotterraneo: e che l’uomo naturale sia per sempre messo sotto i piedi dell’uomo morale. Lo volete invece libero e felice? Non occupatevi dei suoi affari privati”.12

Anche quest’idea, che la repressione sessuale sia la condizione necessaria per piegare l’uomo al dispotismo, anticipa tesi psicanalitiche novecentesche di Wilhelm Reich e di Herbert Marcuse.

A partire dal 1774, Diderot giudica sempre più severamente la situazione in Francia. La considera in preda al dispotismo, malata di opulenza di pochi e di miseria diffusa. Pensa che la degenerazione sia tale che il sistema possa sfasciarsi e cadere in uno stato di anarchia, o “per l’imbecillità del capo”, col rischio che il paese diventi facile preda per altre nazioni, o “per impazienza dei sudditi” che esporrebbe il paese a un bagno di sangue. Con questi pensieri, nel 1778, si rivolge con ammirazione ed entusiasmo “agli insorti d’America”, che stanno costituendosi in repubblica fondata sulla volontà popolare.

“Dopo secoli di oppressione generale, possa la rivoluzione testé verificatasi al di là dei mari, offrendo a tutti gli abitanti d’Europa un asilo contro il fanatismo e la tirannia, istruire chi governa gli uomini sull’uso legittimo della loro autorità! Possano quei valorosi Americani, che hanno preferito veder oltraggiare le loro donne, sgozzare i propri figli, distruggere le proprie case, saccheggiare i loro campi, incendiare le loro città, che hanno preferito versare il proprio sangue e morire piuttosto di perdere la minima parte della loro libertà, prevenire lo smodato accrescimento e la disuguale ripartizione della ricchezza, il lusso, la mollezza, la corruzione dei costumi, e provvedere alla conservazione della propria libertà e alla durata del proprio governo! Possano ritardare, almeno per qualche secolo, il decreto pronunciato contro tutte le cose di questo mondo; decreto che le ha condannate ad avere una nascita, un periodo di vigore, la decrepitezza e la fine! Possa la terra inghiottire quella tra le loro province, che sarà un giorno abbastanza potente e abbastanza insensata da cercare i mezzi per soggiogare le altre! Possa in tutte quante o non nascere mai o morire immediatamente sotto la spada del boia o il pugnale di Bruto il cittadino abbastanza potente un giorno, e nemico della propria felicità, da formulare il progetto di rendersene padrone!

Pensino che il bene generale si fa sempre solo per necessità, e che il momento fatale per i governi è quello della prosperità, e non quello dell’avversità. [...] L’avversità impegna i grandi talenti, la prosperità li rende inutili, e porta alle più importanti cariche gli inetti, i ricchi corrotti, e i malvagi.

Pensino che la virtù cova spesso il germe della tirannia.

Se un grand’uomo è per molto tempo a capo degli affari, vi diventa despota. Se ci resta poco, l’amministrazione s’indebolisce e langue sotto una serie di amministratori comuni.

Pensino che non sull’oro, e nemmeno sulla quantità di braccia, si regge uno Stato, ma sui costumi.

Mille uomini, che non temono per la loro vita, sono più temibili di diecimila che temono per la loro ricchezza.

Ciascuno di essi tenga nella casa in fondo al campo, accanto al telaio, accanto all’aratro, il fucile, la spada e la baionetta.

Siano tutti soldati.

Pensino che, se, nelle situazioni che permettono di deliberare, il consiglio dei vecchi è quello buono, nei momenti di crisi la gioventù è abitualmente più accorta della vecchiaia”.13

Note

1 Denis Diderot, Scritti politici, UTET 1967, p. 476.

2 Denis Diderot, Scritti politici, UTET 1967, p. 370.

3 Ib. p. 380. Poco prima: “Dicevo all’Imperatrice che se l’Inghilterra avesse avuto di seguito tre sovrani come Elisabetta, l’Inghilterra era asservita per secoli e lei mi rispose: Lo credo”.

4 Ib. pp. 250-51.

5 Ib. pp. 251-2.

6 Ib. p. 404.

7 Ib. p. 463.

8 Bougainville aveva celebrato il possesso di Tahiti facendo interrare nel suo suolo, racchiuso in una bottiglia, una solenne dichiarazione dell’appartenenza dell’isola al re di Francia.

9 Denis Diderot, Supplemento al viaggio di Bougainville, Salerno ed. Roma 1978, pp. 31-35.

10 Ib. p. 70.

11 Ib. p. 72.

12 Ib. p. 71.

13 Denis Diderot, Scritti politici, UTET 1967, pp. 493-4.

Torino 14 aprile 2014

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015