CARLO CATTANEO

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CARLO CATTANEO - LA VITA (1801-69)

Carlo Cattaneo nasce a Milano il 15 giugno 1801. Suo padre era titolare di una bottega di oreficeria, ma la famiglia era di origini contadine. Durante i soggiorni a Casorate, ospite di parenti paterni, approfittò della biblioteca di un suo parente sacerdote per leggere i classici e si lasciò così coinvolgere in questi studi da desiderare di approfondirli nei due seminari di Lecco e di Monza, che avrebbero potuto avviarlo alla carriera ecclesiastica. Tuttavia a 17 anni lascia il seminario e prosegue gli studi presso altri due licei municipali di Milano, avviandosi verso una formazione del tutto laica e positivistica.

A 18 anni, grazie ad alcuni insegnanti del liceo, si avvicinò al gruppo di intellettuali (S. Pellico, G. D. Romagnosi, P. Maroncelli) che dirigeva il periodico bisettimanale "Il Conciliatore", espressione del primo Romanticismo lombardo, più volte censurato dagli austriaci per le sue idee liberali, e anzi soppresso proprio in quel periodo.

Terminati gli studi liceali, nel 1820 ottenne l'incarico d'insegnare prima latino, presso la Congregazione Municipale di Milano, poi scienze umane, presso il ginnasio comunale di Santa Marta, dove restò per quindici anni, litigando spesso coi suoi colleghi e prendendosi un artrite che non lo abbandonerà più. Fondamentali, in questo periodo, per la sua formazione culturale, furono le frequentazioni della Biblioteca di Brera, della Biblioteca Ambrosiana e della biblioteca personale dello zio paterno Antonio Cattaneo, farmacista e studioso di chimica. Riesce a frequentare una cerchia di intellettuali di spicco della Milano progressista, tra i quali il maggiore per lui fu il giurista G. D. Romagnosi, di cui in particolare ammirava il rigore del metodo, lo studio dei fatti concreti e il rifiuto di ogni astratta filosofia. Frequentando, di quest'ultimo, la scuola privata di diritto, divenne ben presto suo discepolo prediletto e amico, come ebbe modo di dimostrare testimoniando in suo favore, dopo che era stato arrestato nel 1821. Nel 1824 si laureò a Pavia in giurisprudenza, ma non esercitò mai la carriera forense.

Mentre svolgeva la sua attività di insegnante, dalla quale a più riprese tentò inutilmente di passare ad altre meno gravose o meglio retribuite, Cattaneo andò iniziando l’attività pubblicistica che nel 1828 lo portò ad essere consulente letterario e legale del gruppo editoriale che faceva capo agli "Annali universali di statistica", precedentemente diretto dal Romagnosi. Dal 1829 iniziò a collaborare agli “Annali” e dopo il 1833 divenne sovrintendente della casa editrice che li pubblicava. Per sua iniziativa fu annesso a questa rivista il “Bollettino di notizie italiane e straniere delle più importanti invenzioni e scoperte o progresso dell’industria e delle utili cognizioni”, da lui quasi interamente redatto. Collaborò inoltre a numerosi periodici tra i quali “L’Eco della Borsa”. L’impegno editoriale andò crescendo dopo il 1835, anno in cui ottenne di lasciare la scuola, pensionato per motivi di salute.

Il 1835 fu dunque un anno molto importante per Cattaneo, non solo perché si trovò a raccogliere l'eredità culturale di Romagnosi, che proprio in quell'anno era morto (la difesa della memoria di Romagnosi in polemica con Antonio Rosmini vide quest’ultimo, nel 1836, appellarsi direttamente all’imperatore per ottenere un intervento riparatore contro Cattaneo, che, nello stesso periodo, scrisse la prefazione alle Opere Postume del suo maestro), ma anche perché sposò, nonostante l'opposizione della famiglia di lei, la nobile anglo-irlandese Anna Pyne Woodcock che aveva conosciuto dieci anni prima e con cui, nei primi anni di matrimonio, ebbe rapporti difficili a causa dei forti debiti contratti dal padre orefice.

Nel 1837 apparve sugli “Annali di Giurisprudenza pratica” il primo importante saggio cattaneano, la memoria sulle Interdizioni israelitiche, originata da una controversia sorta in Svizzera in seguito all'acquisto di proprietà fondiarie da parte di ebrei francesi.

Nello stesso anno pubblicò il saggio sul Nesso della nazione e della lingua Valacca coll’Italiana. Negli anni compresi fra il 1837 e il 1839 si andò interessando in modo sempre più diretto ai problemi attinenti alla costruzione della strada ferrata Milano-Venezia. Dell’impresa egli si interessò anche amministrativamente come segretario della sezione lombarda della società costruttrice, e poi come segretario generale, incarico da cui venne dimesso nel 1838 per contrasti sull’affidamento del progetto all’ingegner Giovanni Milani. Richiesto nel 1837 dal governo britannico, scrisse sulla politica inglese in India e sui sistemi di irrigazione applicabili all'Irlanda.

Dal 1839 al 1844 egli ha modo di mostrare la sua straordinaria vastità di interessi, pubblicando in 41 fascicoli articoli di letteratura, filosofia, urbanistica, economia industriale e agraria, statistica, finanza, chimica, politica doganale ecc. Rotto ogni rapporto con l’editore Lampato, col quale aveva collaborato fino al 1838 nella società degli “Annali”, aveva fondato "Il Politecnico", una delle più importanti riviste milanesi di allora. Vi chiamerà a collaborare intellettuali d'ogni tipo: medici, ingegneri, economisti..., suggerendo loro i temi, ma anche revisionando i testi allo scopo di portarne i contenuti ad uniformità di stile e di intenti.

Ciò gli aprì la strada alla più prestigiosa istituzione accademica del regno, l'Istituto lombardo-veneto, di cui divenne membro nel 1843. L'anno dopo, alla censura austriaca che s'abbatté inesorabile anche sul "Politecnico", s'aggiunse una nuova disavventura familiare, causata questa volta da sbagliate speculazioni finanziarie del fratello Giuseppe, che finirono con l'inghiottire anche la dote della Woodcock.

Interrotta la pubblicazione de “Il Politecnico”, Cattaneo iniziò a collaborare alla “Rivista Europea” di Carlo Tenca, sulla quale nel 1845 pubblicò il saggio Sull’Imperio indo-britannico. Nello stesso anno venne nominato relatore del "Consiglio dei fondi della Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri", promossa nel 1841 dall'industriale E. Mylius, e ai cui Atti affidò fino al 1847 le sue Allocuzioni.

Per il VI Congresso degli scienziati italiani di Milano del 1844, Cattaneo predispose un’ampia monografia a più voci, le Notizie naturali e civili su la Lombardia, di cui venne pubblicato il primo volume. Diede alle stampe anche un saggio Intorno ad alcune istituzioni agrarie dell’Alta Italia applicabili a sollievo dell’Irlanda, richiestogli su sollecitazione del governo inglese. Tra il 1846 e il 1847 pubblicò tre volumi nei quali, sotto il titolo Alcuni scritti del dottor Carlo Cattaneo, raccolse un buon numero dei saggi del periodo precedente. Per incarico dell’Istituto lombardo presentò nel 1848 il rapporto Sull’ulteriore sviluppo del pubblico insegnamento in Lombardia che conteneva un organico piano di riforma del sistema dell’istruzione pubblica.

Stranamente, ancora sul finire del 1847, egli non sembrava avvertire i segnali premonitori di quella che sarebbe diventata l'esplosione rivoluzionaria europea del 1848, forse perché era sempre stato decisamente contrario allo strumento dell'insurrezione per risolvere i problemi concreti della società, convinto com'era che ogni sommovimento politico si concludesse sempre col rafforzamento autoritario dello Stato. E' vero che le sue radici culturali affondavano nell'Illuminismo, ma è anche vero che aveva preso le distanze dalla rivoluzione francese, i cui esiti terroristici lo ripugnavano.

Sicché, quando scoppia la rivolta viennese è convinto ch'essa avrebbe indotto l'Austria, come la Svizzera o gli Stati Uniti, a trasformarsi in uno Stato federale, in cui il Lombardo-Veneto avrebbe potuto godere di maggiori libertà, senza aver dover ricorrere alle armi. Ecco perché, al fine di strappare qualche concessione all'impero (p.es. la libertà di stampa e la costituzione di un esercito interamente italiano), fonda un nuovo giornale "Il Cisalpino", che però fu reso inutile dalla stessa improvvisa insurrezione milanese.

Di fronte alla ferma intenzione dei milanesi di liberarsi degli austriaci, egli restava molto perplesso, soprattutto perché non credeva minimamente, come invece si sperava, che Carlo Alberto avrebbe dato agli insorti i 40.000 fucili richiesti. E i fatti gli diedero ragione. Tuttavia la città fu presto in grandissima agitazione, tanto da cogliere di sorpresa gli stessi austriaci. I giovani scesero in strada con pistole, sciabole, bastoni, disarmarono molte guardie, eressero ovunque delle barricate. Era il 18 marzo 1848. Cattaneo, superate le iniziali esitazioni, il 20 si pose alla testa dei patrioti dando vita a un Consiglio di guerra.

Il 21 marzo entrò a far parte del Comitato di guerra, con l’incarico di dirigere le operazioni militari, la propaganda e il servizio di informazioni. Fu in questa veste che determinò il rifiuto della proposta di armistizio avanzata da Radetzky e la vittoria degli insorti. Furono sue l’organizzazione delle 1700 barricate, l’elaborazione dei piani che portarono a dividere l’esercito austriaco riducendolo nel Castello, la stesura dei bollettini di guerra, l’iniziativa di fare appello alle genti del contado e delle città vicine, l’adozione dei primi provvedimenti disciplinari per i non combattenti. Alla quinta giornata di resistenza i milanesi ebbero soltanto 300 morti, mentre gli austriaci, che abbandonarono disordinatamente la città, ben 4.000.

Entrato in violento contrasto con il governo provvisorio che, temendo la rivincita austriaca, auspicava l’intervento piemontese e temporeggiava in attesa ch'esso avvenisse, il Comitato di guerra fu sciolto il 31 di marzo. Resta famosa la frase che in quel frangente disse: "Le famiglie regnanti sono tutte straniere. La città è dei combattenti che l'hanno conquistata". Con ciò non rifiutava affatto il sostegno e la collaborazione dei cittadini piemontesi, ma solo quello della casa regnante, temendo di vedere la Lombardia annessa al Piemonte, che in quel momento giudicava economicamente e culturalmente più arretrato del Lombardo-Veneto.

Cattaneo rifiutò allora ogni altro incarico offertogli, da quello di ambasciatore a Londra a quello di sovrintendente all’insegnamento pubblico. Si dimise anche dalla commissione incaricata di stendere un progetto di legge sulla convocazione di un’assemblea nazionale, non essendo stata accolta la sua proposta di dare pubblicità alle sedute. Avversario implacabile dei moderati al potere, fu da costoro fatto oggetto di calunnie e di meschine persecuzioni.

Si ritirò a vita privata dopo avere steso il testo di un proclama indirizzato alla Dieta ungarica (5 aprile). Nel luglio del 1848 accettò la nomina a commissario di guerra per Lecco, Bergamo e Brescia, dove si recò per organizzare la resistenza. L’ultimo suo atto fu un indirizzo ai comitati di difesa del bergamasco (5 agosto) sul modo di presidiare le vallate senza far perdere i contatti ai singoli distaccamenti di volontari.

Ritornati gli austriaci, riparò con la moglie a Lugano, da dove l’8 agosto partì per Parigi come incaricato della giunta di insurrezione nazionale e con la presentazione di Mazzini che lo definiva l’home le plus éminent de la Lombardie. A Parigi non sortì alcun risultato il suo tentativo di provocare l’intervento francese. Indignato per le falsità che vi correvano sulle vicende militari, e per chiarire in modo inoppugnabile quali erano stati gli intenti degli insorti e quale il ruolo dei piemontesi, scrisse in poco tempo l’Insurrection de Milan en 1848, rielaborata l’anno dopo in edizione italiana, a Castagnola, nei pressi di Lugano, con il titolo Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra.

Cattaneo non condivideva affatto l'idea di cercare nella monarchia sabauda il necessario aiuto per realizzare l'unificazione nazionale. Non solo detestava, per principio, qualunque governo monarchico, sentendosi egli profondamente repubblicano, ma non riusciva neppure ad accettare che in virtù di tale monarchia si volesse fare una nazione unitaria e quindi uno Stato centralista intenzionato a imporsi su ogni altra realtà. Per lui la soluzione più naturale per un paese tenuto diviso per così tanti secoli, sarebbe stata quella federata e decentrata, prendendo semplicemente atto delle diverse peculiarità regionali, che avrebbero dovuto porsi in maniera paritetica.

Dal novembre 1848 Cattaneo si stabilì definitivamente in Svizzera, a Castagnola, dove sarebbe rimasto per tutto il resto della vita. L'anno dopo venne invitato da Mazzini ad assumere l'incarico di ministro delle Finanze nella nuova repubblica romana, ma rifiutò dicendo di non conoscere le particolari condizioni di quello Stato.

La conclusione della vicenda milanese lo trovò pressoché privo di mezzi di sussistenza. Nel 1852, su incarico del governo ticinese, presentò un vasto programma per la riforma dell'insegnamento delle scuole superiori e partecipò alla fondazione del liceo di Lugano, che volle laico e liberale e ove assunse la docenza di filosofia, incarico che avrebbe mantenuto fino al 1865 e che gli avrebbe assicurato di che vivere.

La grande impresa di raccogliere in un’imponente opera storica i documenti della più varia natura relativi agli avvenimento del 1848-49 trovò parziale realizzazione nei tre volumi dell’Archivio triennale delle cose d’Italia dall’avvenimento di Pio IX all’abbandono di Venezia, pubblicati tra il 1850 e il 1855, corredati dalle celebri Considerazioni nelle quali egli rinnovò la sua condanna della politica piemontese e additò nella soluzione federalista l’esito auspicabile del moto risorgimentale.

In Svizzera si occupò di questioni economiche cantonali (la bonificazione del piano di Magadino, i problemi ferroviari) e, grazie a lui, la Tipografia elvetica di Capolago divenne un centro di diffusione di scritti federalisti. Accanto a questi impegni, Cattaneo riprese a coltivare la collaborazione a riviste, in primo luogo a “Il Crepuscolo” di Carlo Tenca, nel quale tra il 1854 e il 1859 apparvero alcuni dei suoi scritti più importanti del periodo: Della formazione e del progresso del terzo stato (1854), La politica di Tommaso Campanella (1856), L’agricoltura inglese paragonata alla nostra (1857), La città come principio ideale delle istorie italiane (1858), Del pensiero come principio di publica ricchezza (1859), ma anche alla “Rivista Contemporanea” di Luigi Chiala, al “Repubblicano” di Lugano, a “The Times” e al “Daily New”.

Nel 1858, in riconoscimento dell’attività svolta nel Canton Ticino, gli venne conferita la cittadinanza ticinese. L’aprirsi della nuova fase della storia italiana segnata dagli avvenimenti del 1859, vide reiterarsi gli appelli degli amici perché Cattaneo ritornasse a Milano per riprendere l’antico ruolo di guida politico-morale che aveva tenuto nell’insurrezione del 1848.

In effetti nel 1859 torna di nuovo a Milano, liberata da Napoleone III, alleato del re sabaudo, cui l'Austria aveva dovuto cedere la Lombardia grazie alle vittorie riportate dall'esercito francese. Ma si rifiuta di aderire alla guerra voluta dal Piemonte. Si limita invece a leggere, presso l’Istituto lombardo, la prima delle memorie che avrebbero costituito la Psicologia delle menti associate. Vincendo poi ogni resistenza accetta la candidatura alle elezioni politiche del 1860: eletto in tre collegi, opta per il quinto di Milano, ma non partecipa mai ai lavori del parlamento, non volendosi piegare a compromessi con le istituzioni sabaude.

Nel 1860 uscì la nuova serie de “Il Politecnico”, che iniziò con l’ottavo volume, ponendosi in un rapporto di continuità con la prima serie. Nello stesso anno pubblicò in un volume di Memorie di economia publica una raccolta di saggi di argomento economico. A settembre si recò a Napoli da Garibaldi, partecipando alle discussioni sull’impostazione di un sistema ferroviario nelle regioni meridionali e sulla preparazione del plebiscito (1), imposto da Cavour, cui voleva opporre delle libere elezioni allo scopo di creare parlamenti democratici e libere istituzioni locali per la Sicilia e il Napoletano, con cui poter trattare le condizioni di una repubblica federale, di cui l'intero Mezzogiorno potesse costituire un'entità sufficientemente omogenea. Ma gli bastò un mese per capire che Garibaldi preferiva fare il "generale del re" e non il "condottiero del popolo". "Napoli, spogliata di ogni lustro, paventa il re vecchio, bestemmia il re nuovo, non crede alla repubblica e dispera della monarchia", così dirà, amareggiato e deciso a tornare in Svizzera.

Il suo impegno maggiore restò comunque concentrato sulla rivista “Il Politecnico” che diresse fino alla fine del 1862. Nella seconda serie della rivista il programma cattaneano di fare politica mediante gli studi trovò ampia attuazione. Vennero affrontati e discussi i maggiori problemi della formazione del nuovo Stato italiano: dall’armamento e ordinamento militare alla questione delle autonomie regionali e locali, ai problemi dell’analfabetismo alle disastrose condizioni dei territori meridionali.

In seguito a dissapori col ticinese G. B. Pioda, a proposito dei piani per le ferrovie del Gottardo, nel 1865 dà le dimissioni anche dal liceo di Lugano. A Castagnola continuò a svolgere il ruolo di consigliere e ispiratore dell’opposizione democratica. Nel 1867 accettò la candidatura nel primo collegio di Milano, sostenuta da un vasto schieramento democratico organizzato da Raffaele Sonzogno e Giuseppe Rovani. Eletto, si recò a Firenze, ma non entrò mai in parlamento né volle giurare fedeltà al re.

Negli ultimissimi anni della sua vita restò in contatto con pochi amici: Giuseppe Ferrari, Agostino Bertani e qualche scapigliato milanese come Carlo Dossi. In una delle sue ultime lettere a Bertani si lamentava che gli italiani stavano costruendo una nazione alla francese, dove l'autoritarismo avrebbe finito col prevalere su tutto.

Morì il 6 febbraio 1869, seguito in ottobre dalla moglie. Le sue spoglie, tre mesi dopo, furono trasportate a Milano e qui nel 1884 poste nel Famedio del Cimitero Monumentale, accanto a illustri concittadini come Alessandro Manzoni e Carlo Forlanini. Nel 1901, per iniziativa di un comitato democratico, nel largo di via Santa Margherita, venne inaugurato a Milano il monumento che lo mostra nell’atto di rifiutare l’armistizio proposto da Radetzky.

Su di lui piomberà una congiura del silenzio che durerà quasi un secolo. Infatti gli scritti integrali del "Politecnico" furono pubblicati dall'editore Bollati-Boringhieri solo nel 1989, anno in cui si tenne anche il primo convegno internazionale a lui dedicato. Il Comitato nazionale per la celebrazione del bicentenario della nascita di Carlo Cattaneo è stato costituito il 21 marzo 2000 con l'intento di fare conoscere e divulgare, attraverso un adeguato programma di celebrazioni e manifestazioni culturali, la figura, l'opera e l'attualità del grande pensatore lombardo.

(1) Due giorni dopo che Garibaldi era entrato trionfalmente a Napoli, il 7 settembre 1860, l'esercito piemontese, comandato dal generale Cialdini, entrava nel territorio pontificio, invadendo la Romagna e le Marche. L'azione, decisa dal Cavour, aveva lo scopo di evitare la proclamazione della repubblica nel sud e un eventuale tentativo di Garibaldi di proseguire verso Roma per conquistarla. Un mese dopo Cavour fa approvare dal parlamento piemontese una legge che accetta le annessioni incondizionate dell'Italia centrale e dell'Italia meridionale. Tra brogli di ogni genere e in tutta fretta il plebiscito del 21 ottobre aveva dato i seguenti risultati: in Sicilia, 43.053 "sì" e 667 "no"; nel meridione continentale, 1.302.064 "sì" e 10.312 "no". Massimo d'Azeglio grida allo scandalo. Cinque giorni dopo Garibaldi consegna l'intero Mezzogiorno a Vittorio Emanuele II e il 9 novembre, non avendo ottenuto dal re un anno di governo nell'Italia meridionale, partiva per l'isola di Caprera. Già nell'autunno del 1860 contadini ribelli del sud cominciarono ad organizzarsi in bande armate contro i piemontesi. Intanto il duca di Maddaloni, deputato al parlamento, accusa il governo d'aver compiuto un'invasione: "Questo è voler sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortes ed il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico, come gli inglesi nei regni del Bengala".


di ALESSANDRO FRIGERIO - www.storiain.net

A duecento anni dalla nascita, Carlo Cattaneo ha riconquistato un posto d'onore tra i fondatori dell'Italia. Mostre, ristampe e dibattiti ne propongono la figura di studioso e pensatore, di liberale individualista e di intellettuale multidisciplinare, attento più allo sviluppo culturale e civile degli italiani che alla lotta politica in cui a suo tempo, di sfuggita, si trovò ad essere coinvolto.

Destino curioso quello della sua eredità recente. Lodato come intransigente federalista "lumbard" quando un decennio fa si iniziò a dibattere di decentramento e autonomia amministrativa, oggi Cattaneo viene presentato come un moderno professionista del progresso. Deideologizzata e razionale, la sua figura appare come la più indicata per riempire di contenuti, dopo le utopie e gli estremismi del Novecento, il secolo che si è appena iniziato a frequentare.

Coscienza critica del Risorgimento, Cattaneo come al solito, si presta volentieri a questa nuova lettura, perché in fondo è la complessità della sua stessa biografia a farne un personaggio singolare. Nato a Milano nel 1801 da famiglia della media borghesia, da ragazzo studiò al seminario perché il padre, che era orefice, ne voleva fare un prete. La vocazione non arrivò mai. Anzi, come riferirono gli amici, fu sempre "cercatissimo dal bel sesso". Si formò, quindi, seguendo i corsi di diritto tenuti da Gian Domenico Romagnosi e giovanissimo conquistò una cattedra di grammatica latina al ginnasio. Nel 1824 si laureò in diritto (o meglio, "Dottore in Ambe le Leggi") nell'allora "facoltà politico-legale" di Pavia. Nel 1832 cominciò a pubblicare sugli Annali Universali di Statistica. Nel 1835 lasciò l'insegnamento, si sposò con una ragazza anglo-irlandese, Anna Woodcock, e da quel momento iniziò a dedicarsi all'attività pubblicistica, occupandosi di ferrovie, bonifiche, dazi, commerci, agricoltura, finanze, opere pubbliche, beneficenza, legislazione e geografia, senza disdegnare puntate nell'ambito della letteratura, della storia, della filosofia, della linguistica e dell'arte. È del 1839 la fondazione, con un ristretto gruppo di amici, de Il Politecnico, cui dedicherà le sue migliori energie al fine di farne il riferimento per il progresso tecnico e civile della borghesia del Lombardo-Veneto.

Fino al 1848 di politica ne fece poca o punto, anche perché, sulla scia del Romagnosi, sosteneva che prima di farla, bisogna costruire la coscienza degli uomini che poi saranno destinati ad occuparsene. Dopo le Cinque Giornate di Milano, che lo videro schierarsi con gli insorti nel Consiglio di guerra, riparò in Svizzera, a Castagnole, presso Lugano, da dove avrebbe assistito ai successivi sviluppi del 1859. Fece ritorno brevemente in Italia dopo l'Unità, fu eletto deputato, ma, causticamente ostile allo stato centralizzato dei Savoia, e profondamente deluso per la mancata applicazione dei suoi ideali federalisti, rientrò in Svizzera dove morì, nel 1869, in austero e volontario esilio.

Il credo federalista ha caratterizzato tutta l'esistenza di Cattaneo. Il federalismo era una tendenza per lui così naturale sulla via dell'incivilimento che non necessitava di ulteriori evidenze. "L'Italia - scriveva nel 1850 ad un amico - è fisicamente e istoricamente federale".

Cattaneo riteneva che federalismo e repubblicanesimo dovessero marciare di pari passo. Di più, la questione federale "è la questione del secolo; è per la prima volta al mondo una questione di tutto il genere umano: o l'ideale asiatico, o l'ideale americano: aut aut". Dove per ideale asiatico si intendeva il vecchio centralismo amministrativo, dispotico e assi poco liberale, e per quello americano il nuovo orizzonte della federazione e della libertà.

Cattaneo giustificava la necessità di un'ampia autonomia amministrativa nel nome supremo della libertà. "I molteplici consigli legislativi, e i loro consensi e dissensi, e i poteri amministrativi di molte e varie origini, sono condizioni necessarie di libertà. [Al contrario] quando ingenti forze e ingenti ricchezze e onoranze stanno raccolte in pugno di un'autorità centrale, è troppo facile costruire o acquistare la maggioranza d'un unico parlamento: la libertà non è più che un nome; tutto si fa come tra padrone e servi". E poi, con saggezza quasi popolare, aggiungeva: "Meglio vivere amici in dieci case che discordi in una sola".

A differenza di Mazzini, Cattaneo riteneva che federalismo e repubblicanesimo dovessero marciare di pari passo, proprio come negli Stati Uniti. Tante piccole repubbliche avrebbero dovuto costituire l'ossatura di una più grande e forte repubblica federativa. "Quanto meno grandi e meno ambiziose saranno in tal modo le repubblichette - scriveva nel 1850 -, tanto più saldo e forte sarà il repubblicone, foss'egli pur vasto, non solo quanto l'Italia, ma quanto la immensa America". "Uomini frivoli - aggiungeva pochi anni dopo, polemizzando vigorosamente con moderati e neoguelfi - dimentichi della piccolezza degli interessi che li fanno parlare, credono valga per tutta confutazione del principio federale andar ripetendo che è il sistema delle vecchie repubblichette. Risponderemo ridendo, e additando loro al di là d'un Oceano l'immensa America, e al di là d'altro Oceano il vessillo stellato sventolante nei porti del Giappone".

A far fallire i suoi progetti contribuì forse anche il suo atteggiamento duro e irremovibile, contrario ad ogni compromesso. Carattere aspro e intransigente, Cattaneo, del resto, non le mandava a dire a nessuno. E litigava spesso, e con tutti. Per colpa di una naturale indisposizione al compromesso la sua vita è costellata da dimissioni da cariche pubbliche o istituzionali, dall'abbandono di cattedre di insegnamento, da contese e litigi con gli stampatori delle sue numerosissime opere (per dissapori con l'editore non esitò ad abbandonare anche la sua creatura più famosa, Il Politecnico). In breve, un personaggio a dir poco intrattabile, testardo nella vita di tutti i giorni così come quando si trovò a ragionare di politica.

Ma il carattere, in fondo, è solo la cornice di un uomo la cui singolarità apparve subito evidente nelle vicende preunitarie in cui venne coinvolto. A partire dalle Cinque Giornate milanesi del '48, che gli valsero, in modo del tutto involontario, l'assunzione nel Gotha dei Padri del Risorgimento. Cattaneo, infatti, nonostante avesse giudicato rischiosa l'insurrezione, e con i suoi abituali modi bruschi avesse mandato a dire che "quando la ragazzaglia scende in piazza, le persone serie stanno a casa", alla fine accettò di guidare la rivolta. Ma lo fece più che altro per amore verso la sua città, e soprattutto per impedire che a Milano arrivasse Carlo Alberto, e con lui il gretto centralismo rappresentato allora da casa Savoia. Per tale atteggiamento il podestà Casati, che lo aveva voluto nel Consiglio, lo definì "una canaglia"; dal canto suo Cattaneo qualificò Casati come "un ciambellano pronto a farsi in due per servire contemporaneamente la Corte di Vienna e quella di Torino".

Del resto, la monarchia, e di riflesso il papato, erano per Cattaneo le due istituzioni che maggiormente si opponevano al progresso della società e dei ceti medi cittadini. "Dove sta dunque - si chiedeva Cattaneo nel 1850 - la forza della nazione italiana? Sta dove è sempre stata. Il popolo delle sue città, senza alcuna scienza di guerra, è più forte che gli eserciti dei suoi monarchi. La monarchia in Italia è una pianta esotica e debole, è una cosa contro natura. Il papato che oggi civetta con la libertà e domani chiama tutti i curati d'Europa ad assistere i suoi sgherri, il papato è il secreto della debolezza d'Italia".

Quando però rivendicava la superiorità del "popolo delle città", Cattaneo non pensava alle masse diseredate del quarto stato. La sua era una concezione schiettamente premarxista. Il popolo era perciò un'entità concettuale che inglobava ceti e classi diverse mosse da un unico fine politico o storico. La lotta di classe non esisteva nell'orizzonte politico cattaneano. Il suo atteggiamento davanti al formarsi della classe operaia era quello paternalistico dell'epoca. Capitale e lavoro dovevano armonizzarsi, magari con l'aiuto di opere caritatevoli o con la costituzione di società operaie di mutuo soccorso. "Il vero progresso - scriveva nel 1854 - non mira a precipitare nel fango le sommità sociali, ma bensì a redimere dal fango, e sollevare ai godimenti della proprietà, dell'intelligenza, dell'onore, quelle condizioni che ne erano ancora diseredate".

L'ottimismo del suo pensiero liberale non prevedeva lo scontro di classe, anche perché il nerbo del popolo era per lui costituito dalla borghesia cittadina, cuore di un incivilimento che affondava le sue radici nell'Italia dei liberi Comuni. È borghese, scriveva, chi persegue "la libertà negli studi, nei commerci", colui che pratica i principi del liberismo economico e la dottrina liberale nella pratica della propria attività lavorativa e a livello politico, in una corsa verso il progresso e l'incivilimento.

Non a caso Cattaneo è stato definito, se non il leader politico, lo storico e l'ideologo della borghesia italiana, il teorico delle élite di governo. Scriveva nel 1854, in un saggio sulla storia d'Italia, a proposito dell'età comunale: "Dall'Italia partì l'impulso per quella eroica rivoluzione comunale da cui ebbe principio il mondo moderno. L'Italia può quindi chiamarsi la culla della borghesia, e pare a noi che solo considerata sotto questo aspetto la storia italiana possa acquistare un carattere razionale".

Ma sarebbe sbagliato vedere in lui anche un artefice dell'idea nazionale italiana. "Cattaneo - ha scritto Indro Montanelli - non sentiva la 'nazione' e odiava il Piemonte, per il suo regime accentrato e statalista, più dell'Austria che nazione non era. […] All'Italia Cattaneo non pensava affatto. Il suo sogno non era l'unità nazionale, ma un Commonwealth mitteleuropeo a guida austriaca, in cui il Lombardo-Veneto prendesse il suo posto come Land dotato di ampia autonomia. Tant'è vero che quando gl'insorti gli proposero come testata del loro giornale (che non fece in tempo ad uscire) L'Italiano, lui la cambiò ne Il Cisalpino. Cattaneo non accettò mai l'Italia qual era e quale non poteva non essere, visto il modo in cui si era fatta".

La borghesia in cui tanto credeva fu forse la prima a tradirlo. Quando nel '48 le masse fecero la comparsa sul palcoscenico della storia, il ceto medio, intimorito da possibili svolte rivoluzionarie, scelse la via dell'unità per il tramite dell'esercito e della diplomazia sabaude. La classe borghese non colse l'opportunità di guidare il popolo in un Risorgimento dal basso e alla fine l'Italia fu fatta all'ombra dei Savoia e grazie a Cavour, che del connubio tra borghesia cittadina e monarchia fu il vero tessitore.

Si comprende così anche il motivo di un'altra singolarità del personaggio Cattaneo, cioè il suo netto rifiuto a prendere parte agli avvenimenti che tra il 1859 e il 1861 portarono all'unità del paese, e a prendere invece posizione contro i suoi padri. Già in passato, a proposito di Carlo Alberto, indeciso e assai poco convinto artefice della prima guerra d'indipendenza, aveva scritto che si era apprestato a firmare lo Statuto, "in cui gli adulatori dell'Opinione e del Risorgimento raffigurarono poi le tracce di diciotto anni di sapienza e di meditazione […] come altri si sarebbe preparato alla morte". Ma gli strali maggiori si appuntarono, ingiustamente, su Mazzini e Cavour. Sul primo perché nel nome dell'unità nazionale, e per sete di protagonismo, accettò di annacquare il suo repubblicanesimo e di turarsi il naso di fronte alla monarchia ("Mazzini ha sempre saputo mettersi sull'altare. Ha il merito della probità, della perseveranza, e del sapersi sedere sulla prima scranna. Ma non sa variare. È una predica continua"). Su Cavour perché lo considerava solo un faccendiere di Vittorio Emanuele. Cattaneo etichetterà impietosamente con la definizione di "teatro" le sottili trame politiche e diplomatiche tessute dallo statista piemontese, e qualificherà come un "castello di carte" la sua opera complessiva.

Il fatto è che l'atteggiamento del Cattaneo nei confronti del fare politica fu sempre quello, un po' moraleggiante, del disgusto e del rifiuto. In tempi più recenti lo si sarebbe forse definito un "qualunquista". "La politica - scriveva - è puro odio e lotta perpetua", un misto riprovevole di corruzione, falsità, ambiguità e continui compromessi con le proprie idee. Cattaneo, ha notato acutamente lo storico Umberto Puccio, ha un'idea "ancora settecentesca di quello che dovrebbe essere la politica: egli la considera come una scienza e nel politico vede lo scienziato, l'esperto, il tecnico dell'amministrazione. I partiti politici sono per lui fazioni, congreghe radunate intorno a interessi particolari, egoistici, settoriali. Compito dell'uomo politico dovrebbe essere invece quello non di porsi all'interno di questo contrasto di interessi, facendosi portavoce degli uni contro gli altri, ma, ponendosi all'esterno di esso, di mediarli dall'alto, forte della sua scienza e della verità di essa, forte del diritto e della legge".

Si spiega così il suo successivo rifiuto per la politica italiana anche una volta raggiunta l'unità. Il suo atteggiamento pedagogico, il suo intellettualismo esasperato non gli consentirono di trovare una mediazione con l'arte, talvolta rozza e poco gratificante, del mestiere di governo. "Hanno voluto fare un'Italia politica - scrisse nel 1860. Dovevano [invece] lasciare ad ogni paese liberato la sua assemblea". Il sogno federale di stampo americano e svizzero si era infranto contro lo scoglio dell'ideale asiatico. L'Italia nasce senza, ed anzi contro di lui, come ha scritto lo storico Giorgio Rumi con un'efficace sintesi che ci piace riportare a mo' di conclusione. "Nasce unitaria e monarchica, con un grosso esercito erede della tradizione sabauda, opposto al sistema delle milizie che Cattaneo aveva ipotizzato. Nasce, necessariamente, centralizzata, perché il self government (a tacer del cantonalismo) è rinviato sine die, visto che le Calabrie non sono il Kent e Girgenti non è Appenzell. La congrega patrizia ha vinto, Cattaneo resta ancora e sempre un uomo contro, coerente al suo federalismo individuale per cui ciascuno in definitiva risponde delle sue azioni e delle sue scelte, critico dell'Italia reale, fedele agli studi che non tradiscono, privo di cristiana speranza. Attorno, ha i monti e le acque della sua Lombardia che tanto bene conosce e che vorrebbe diversa da quella che irreparabilmente intravede diventare".


CARLO CATTANEO - LE OPERE (1801-69)

Cattaneo va situato sullo sfondo della società e della cultura lombarda degli anni 1830-49. Esprimeva una corrente (storicistica-positivistica-federalistica) alquanto minoritaria (Ferrari, Pisacane...).

Cattaneo era un repubblicano federalista, ostile non solo al Mazzini ma anche al Gioberti, di cui non condivideva il nazionalismo.

Era particolarmente interessato a cercare una soluzione del problema nazionale diversa da quella indicata dai ceti dirigenti moderati. Cattaneo esprimeva di più le esigenza di una borghesia operosa, autoconsapevole, indipendente dalle pretese egemoniche e accentratrici del Piemonte.

Pensava che l'Italia dovesse assumere, al fine di recuperare il ritardo storico che la caratterizzava, quanto di meglio prodotto dalle altre nazioni europee.

Sul piano culturale parteggiava per le grandi correnti dell'empirismo inglese e dell'illuminismo francese. Della cultura italiana prediligeva Vico, Machiavelli, Galilei e gli Illuministi. Può essere considerato il primo vero positivista italiano, anche se non gli si può non riconoscere un contributo significativo allo sviluppo dello storicismo.

Cattaneo contrapponeva la Lombardia alla Francia: questa infatti - egli diceva - pur avendo fatto la rivoluzione è sfociata nel terrore; quella invece, con la riforma del censimento delle ricchezze e il riordino dei Comuni e delle finanze (Neri), con la riforma giudiziaria (Beccaria), con lo sviluppo della cultura (Verri), si apprestava a entrare nel suo quarto stadio del progresso, dopo le fasi dell'età romana, dei Comuni e degli Sforza.

Il censimento generale (1749-59) viene considerato da Cattaneo una delle cose più importanti. Si attribuì a ogni proprietà un valore espresso in scudi. A ogni scudo corrispondeva una certa tassazione. L'ulteriore aumento di valore che il proprietario poteva realizzare col suo lavoro non veniva tassato. Questo premio alla produttività stimolò le famiglie a continui migliorie nei campi (bonifiche, colture intensive). Il censimento eliminò le immunità o privilegi concessi al clero, che disponeva di 1/3 di tutte le terre, su cui non pagava imposte. Esso divenne anche il fondamento del regime comunale, in quanto il Comune cominciava a decretare le opere pubbliche, stabilendone le imposte. La manutenzione delle strade veniva affidata al costruttore stesso.

Si realizzò il catasto, si abolirono le corvées e le regalie del signore feudale (riserva di caccia, pesca...). Si sciolsero i fidecommessi (una disposizione testamentaria in nome della quale certi beni - fidecommessi - dovevano passare intatti, necessariamente, agli eredi primogeniti - maggiorascato -, escludendo così dalle ricchezze gli altri figli o cadetti, sicché questi erano destinati alla carriera militare o ecclesiastica). Si abolì la manomorta: beni inalienabili (in genere del clero) esenti da tasse di successione e non negoziabili. Questi beni vengono venduti all'asta al miglior offerente. Si tolsero le barriere doganali interne, che impedivano il libero commercio. Si abolirono molti vincoli delle corporazioni artigianali, gli asili per i criminali (sagrati delle chiese ecc.), la tortura, la pretura feudale...

Si costruirono case di correzione per i criminali, i cimiteri, i teatri, le biblioteche, le accademie, un osservatorio astronomico, le carte topografiche, i libri per le elementari.

Si predicò il pluralismo religioso.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015