TEORICI
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IL CALVINISMO Il fallimento della guerra contadina tedesca determinerà l'arretratezza economica e politica della Germania sino all'unificazione nazionale. Se in Germania ci fosse stato il calvinismo (non di Calvino, che era autoritario non meno di Lutero, ma dei suoi seguaci), forse la rivolta avrebbe avuto successo: si sarebbe formata la nazione, appoggiata dalla borghesia (che naturalmente avrebbe tradito il movimento contadino), e forse non sarebbe nato il nazismo, poiché la Germania, come altre nazioni calviniste (Francia, Olanda e Inghilterra) avrebbe partecipato subito alla spartizione coloniale del mondo (invece fu costretta a farlo, proprio come l'Italia dei genovesi e dei fiorentini, affidandosi a consorzi bancari e società finanziarie: i Függer, i Welsser ecc.). La borghesia europea preferì il calvinismo al luteranesimo anche perché esso faceva derivare l'autorità regia dalla sovranità popolare, ed accettava l'eventualità della resistenza armata nei confronti degli abusi del re. Il calvinismo arrivò sino a formulare le prime teorie contrattualistiche (naturalmente un calvinista al potere faceva ragionamenti opposti). La borghesia aveva bisogno di emanciparsi dalla feudalità aristocratica ed ecclesiastica. Il luteranesimo offriva, in questo senso, meno garanzie. Essendo una religione idealistica, esso era piuttosto favorevole a una sorta di compromesso tra borghesia e aristocrazia. Il luteranesimo, se avesse appoggiato con coraggio la causa dei contadini, sarebbe stato una religione molto democratica. Non avendolo fatto, esso ha finito col rappresentare sul piano teorico un ideale irrealizzabile (la stessa borghesia tedesca sarà tradita dalle forze feudali che avevano lottato al suo fianco contro Roma: quella borghesia che poi cercherà nel nazismo una forma di rivincita sociale). Il fallimento dell'ideale universale luterano ha fatto la fortuna del calvinismo che si è preoccupato di realizzare non un ideale valido per tutti, ma solo per la classe borghese. PREDESTINAZIONE E CALVINISMO Il concetto protestante di predestinazione è stato elaborato in conseguenza della manifesta incapacità del credente "cattolico" di risolvere i problemi sociali dal punto di vista "cristiano". La predestinazione al bene o al male viene accettata nel momento stesso in cui si rinuncia a porre nella libertà dell'uomo la responsabilità di un destino personale. Gli uomini fanno il "bene" o il "male" non perché lo vogliono -dice Lutero e soprattutto Calvino-, ma perché così li ha predestinati Dio, il quale si serve, nella sua imperscrutabile prescienza, del bene o del male per confondere i "reprobi" e rassicurare i "virtuosi". La predestinazione è stata poi laicamente riassorbita dalla filosofia hegeliana con il concetto di "necessità storica", che ha una valenza ottimistica, vicina alla provvidenza di matrice cattolica. Infatti, la differenza sostanziale tra provvidenza e predestinazione sta in questo, che mentre per la prima il male, in ultima istanza, viene reintegrato positivamente nel bene; per la seconda invece il male è irrecuperabile. Il calvinismo deve assolutamente tenere separati il bene dal male, se vuole dimostrare il proprio ottimismo. In fondo la predestinazione è un concetto religioso che vuole riflettere una situazione sociale basata sull'antagonismo di classe e sull'individualismo. "Fare il bene", nell'ottica calvinista, altro non può significare che "fare bene il proprio dovere", deciso a priori da dio, e in particolare il proprio "dovere professionale". Col concetto di predestinazione il pentimento è impossibile: chi sbaglia paga per sempre. Il pentimento serve per rendersi conto che non ci sono alternative, e non per poter cambiare vita. Anche se la sentenza di un tribunale condannasse un colpevole a un periodo determinato di carcere, la coscienza morale degli uomini lo condannerebbe in eterno. Chi tradisce la propria vocazione, non merita neppure di vivere. Moralmente infatti è già morto, benché fisicamente continui a vivere. Chi pecca contro dio non può essere perdonato. E per il calvinista "dio" coincide con l'ordine costituito. Dio è la coincidenza di essere e dover essere. Chi non si adegua è perduto, perché vuole porsi contro l'ordine naturale (e sovrannaturale) delle cose. Il calvinismo ha tolto all'uomo il libero arbitrio e ha trasformato la libertà nella necessità di obbedire a una realtà precostituita. Probabilmente questo modo di ragionare è stato usato anche dai cattolici romani controriformisti per difendere la loro confessione tardo-feudale, che non voleva neanche sentir parlare di egemonia politica della borghesia conseguente ai mutamenti sociali che già in Italia si erano da tempo verificati in direzione del capitalismo commerciale. Il calvinismo è andato a innestarsi in una pratica sociale (quella borghese) che spontaneamente e progressivamente si stava allontanando dall'esperienza del collettivismo cristiano (che nell'ambito del cattolicesimo-romano era fortemente contraddetta dell'autoritarismo politico del papato). Questa pratica spontanea aveva bisogno di darsi una legittimazione teorica che le permettesse di svilupparsi e diffondersi velocemente e in maniera consapevole. Senza il calvinismo il capitalismo non sarebbe mai nato come sistema produttivo-industriale, ma si sarebbe fermato allo stadio "commerciale" (mercantile), come avvenne nell'Italia cattolica. LUTERO E CALVINO Perché ha contribuito più Calvino che Lutero alla formazione dello "spirito capitalistico"? Qui non è questione della personalità dell'uno o dell'altro e neppure dei diversi ambienti in cui essi sono vissuti. Semplicemente è dipeso dal fatto che Calvino, in quanto discepolo "teorico-pratico" di Lutero, voleva portare a conseguenze più radicali le posizioni innovative di Lutero, che ebbe comunque il merito di aver dato per primo una risposta globale al cattolicesimo-romano. Questo atteggiamento è normalissimo nella storia del pensiero umano. Per tale ragione non si può affatto sostenere che Calvino abbia "tradito" Lutero. Ad un certo punto della storia europea, quelle aziende commerciali e industriali che avevano intrapreso la via del capitalismo considerarono inevitabile far propria, per meglio valorizzare i loro capitali, la decisione calvinista di radicalizzare le posizioni luterane. Anche la Germania, alla fine del sec. XIX, dovrà adeguarsi a questa necessità. Non si possono fare delle rivoluzioni culturali senza pensare alle loro conseguenze sociali e politiche. Da questo punto di vista ha un senso relativo sostenere che i fondatori del protestantesimo non potevano immaginare che la loro rivoluzione sarebbe stata "sposata" dal capitalismo. Forse non potevano immaginare fino a che punto il capitalismo avrebbe strumentalizzato la Riforma, ma non potevano ignorare che con le loro innovazioni si stava creando una religione molto diversa da quella cattolico-romana, una religione che avrebbe sicuramente avuto delle ripercussioni sul costume e sulla vita sociale dei credenti. Certo, all'inizio dell'impresa i riformatori avranno pensato di operare per il bene collettivo, ma già durante la loro esistenza essi si erano accorti che la Riforma conteneva in sé degli aspetti alquanto contraddittori (Lutero sterminava i contadini, Calvino bruciava gli "eretici"...). Forse erano ancora in tempo per tornare indietro. O forse, se l'avessero fatto, qualche altro riformatore avrebbe preso il loro posto. Se avessero potuto immaginare a quali nefaste conseguenze avrebbe portato il protestantesimo nell'ambito del capitalismo, essi probabilmente si sarebbero limitati a contestare le assurdità della chiesa cattolica, senza volerla sostituire con un'altra più estremista. Ma resta tutto da dimostrare che se essi avessero avuto veramente coscienza di tali conseguenze, si sarebbero limitati alla critica (ancorché profonda e radicale) del cattolicesimo-romano. Quando non si vedono alternative praticabili all'orizzonte, si preferisce rischiare il peggio pur di cambiare in qualche modo la società. Normalmente gli uomini preferiscono sopportare le conseguenze negative delle proprie idee innovative, piuttosto che vedere il lento deteriorarsi di un cronico immobilismo. Peraltro sul piatto della bilancia va anche messo l'atteggiamento ottuso della chiesa romana, che non sentiva ragioni di sorta, essendo da tempo abituata a lanciare scomuniche e anatemi. NOTE L'opera maggiore del calvinismo è L'Istituzione cristiana. Aspetti fondamentali:
CALVINO E L'USURA Nell'opera di Calvino è chiarissima l'interrelazione tra capitalismo e protestantesimo, molto più che nell'opera di Lutero, il quale si limitò a porre le basi per un primato del singolo sulla chiesa: il singolo che vuol stare in un rapporto "assoluto", "immediato" col proprio Dio. D'altra parte non sarebbe stato possibile un "Calvino" senza Lutero. Quando si afferma che Calvino, rispetto a Lutero, ebbe preoccupazioni più "sociali", cioè di organizzazione della comunità civile, spesso si dimentica di precisare che Calvino volle essere il legislatore di una società tendente al capitalismo, mentre Lutero si limitava a considerare l'attività commerciale della borghesia come un aspetto della società feudale (cui bisognava dare più spazio, ma sempre entro i limiti del feudalesimo). La superiorità di Calvino, nei confronti di Lutero, va vista esclusivamente dalla prospettiva degli interessi economici della società borghese. Al di là di questo, Calvino resta un discepolo incapace di raggiungere le altezze del maestro Lutero. La superiorità del Calvino borghese è ben visibile laddove egli parla del prestito ad interesse. Si tratta appunto di una superiorità in relazione alla natura del profitto capitalistico, anche se, proprio per questa ragione, si tratta di una "inferiorità" rispetto al progetto iniziale della Riforma luterana d'infrangere il muro della tarda Scolastica, tornando, per così dire, allo spirito del cristianesimo primitivo. Per quanto -è bene ribadirlo- Calvino resti, in ultima istanza, il prodotto inevitabile del luteranesimo nella società borghese. Infatti il luteranesimo non rappresentò un'alternativa vera e propria alle contraddizioni antagonistiche del mondo feudale in dissoluzione, ma solo l'illusione di poter conciliare quelle contraddizioni nell'interiorità della coscienza religiosa (più o meno angosciata), salvo poi reprimere con la forza le insurrezioni di quelle masse popolari che volevano realizzare una liberazione anche nell'esperienza esteriore (sociale, economica, politica e culturale). In Germania il luteranesimo porterà alla filosofia idealistica, cioè al primato del pensiero non solo sulla vita sociale, ma anche su un particolare tipo di esperienza: quella della fede religiosa. * * * L'idealismo di Lutero, insostenibile, come tale, sotto il capitalismo, lo si nota, a proposito del tema dell'usura, laddove egli ammette il prestito a interesse solo da parte di chi, essendo incapace di far fruttare il proprio denaro, rischierebbe di finire in povertà. Lutero, in sostanza, era disposto ad ammettere una pratica borghese solo in una situazione proletaria! Era questa l'unica eccezione che ammetteva nel campo dell'usura. Cioè da un lato egli chiedeva "amicizia e aiuto spontaneo", dall'altro, rendendosi conto dell'utopia di tale richiesta, permetteva al povero (o a chi rischiava di diventarlo) di comportarsi come lo stesso borghese avrebbe voluto fare. Risultato di tutto ciò? Siccome diventava difficile stabilire un confine sicuro tra vera e falsa povertà (o rischio alla povertà), Lutero aveva bisogno dell'appoggio di un governo politico molto forte per tenere sotto controllo una classe, quella borghese, che rischiava di mandare in rovina, coi suoi traffici, tutte le classi feudali. In tal modo però i contadini (specie quelli poveri) venivano sfruttati due volte: dai nobili, anzitutto, nelle campagne, e dalla borghesia, nella vita di città. Melantone e Bucero, prima di Calvino, avevano cercato di uscire da queste incongruenze dettate da una coscienza religiosa che in teoria non voleva essere "medievale" e che in pratica non riusciva ancora ad essere "borghese". Melantone rese lecito l'interesse sul credito a motivo dei danni cui il creditore andava incontro nel caso di grossi prestiti effettuati per periodi troppo lunghi. Bucero riteneva che un interesse del 5% non recasse alcun danno al debitore. Sia l'uno che l'altro naturalmente stavano dalla parte della borghesia e cercavano di arrampicarsi sugli specchi per dimostrare la legittimità dell'usura. Melantone voleva far credere che esistevano borghesi disposti a fare grossi prestiti a tempo indeterminato. Bucero addirittura che un debitore costretto a versare un'aliquota minima d'interesse fosse meglio indotto a impegnarsi per risarcire il prestito. * * * Ma chi ha veramente posto le basi ideologiche per superare definitivamente l'interdizione canonica del prestito a interesse, prescritto sin dal Concilio di Nicea del 775, è stato Calvino. Egli parte -come si è soliti fare quando si vuole compiere una riforma che giustifichi il "peggio" (anche se per l'autore della riforma questo "peggio" appariva come un fenomeno "naturale" o "inevitabile")- dalla constatazione di un aspetto negativo: il divieto ecclesiastico dell'usura non ha mai impedito le ingiustizie socio-economiche. Non solo, ma quel divieto, di fatto, non è mai stato rispettato -diceva Calvino (e in questo non si poteva certo dargli torto)- neppure dalle autorità civili e religiose. Calvino infatti ricorda che la protezione dei vescovi, al pari dell'appoggio interessato del Duca di Savoia, avevano permesso, da secoli, a Ginevra la pratica del prestito a interesse. (Nel sec. XVI Ginevra era diventata un centro commerciale europeo di primaria importanza, dove la nuova classe mercantile e imprenditoriale aveva scalzato, economicamente, la piccola nobiltà e la corte del vescovo-conte). La seconda osservazione che Calvino fa è la seguente: se la società borghese sta diventando dominante, il cristianesimo deve tener conto di questa nuova realtà, e se fra le attività della società borghese vi è quella del prestito a interesse, il cristianesimo, se non vuole autoemarginarsi, cioè se vuole impostare con l'emergente borghesia un nuovo dialogo, deve necessariamente porsi il problema di come giustificare una prassi che vuole diventare "legge" a tutti i livelli. D'altra parte -diceva Calvino- "è una bestemmia contro Dio disapprovare la ricchezza": "la variabile mescolanza di ricchi e poveri" è determinata dalla provvidenza. Il cielo è aperto "a tutti coloro che hanno usato della loro ricchezza correttamente o che hanno sopportato la povertà con pazienza". E ancora: "l'ordine politico esige che ciascuno conservi ciò che è suo"; il comunismo -mai praticato dalla chiesa apostolica- trasforma "il mondo intero in una foresta di briganti in cui, senza contare e senza pagare, ciascuno piglia per sé ciò che può afferrare". Calvino prende dunque in esame la Bibbia, perché allora l'ideologia
dominante era quella cristiana, e, per quanto riguarda il Vecchio
Testamento, dice: Nel Nuovo Testamento -dice Calvino- Cristo non si propone di regolare il prestito a interesse; egli non è contrario, in via di principio, a tale pratica (lo dimostra la "parabola dei talenti"), ma solo al fatto che in essa debba essere il povero a rimetterci. Cristo si limita a predicare l'amore universale e non impone delle leggi particolarmente severe ai suoi seguaci. Il comandamento evangelico "prestate senza sperare di ricevere"(Lc 6,35) non impedisce di esigere un interesse, poiché il suo scopo è soltanto quello di stimolare la spontaneità nel dare. Il consiglio che Cristo diede al giovane ricco: "Vendi tutto ciò che hai"(Mc 10,21), non andava certo interpretato alla lettera. Calvino, in pratica, fa questo ragionamento (peraltro abbastanza curioso, ma del tutto comprensibile in chiave "borghese"): nel mondo ebraico l'interesse era vietato solo fra ebrei, ma il cristianesimo, ammettendo dei princìpi universali, è superiore all'ebraismo, quindi l'interesse può essere ammesso! Egli naturalmente conosceva bene l'esegesi medievale del divieto deuteronomico, secondo cui Mosé aveva concesso agli ebrei il privilegio di praticare l'usura nel rapporto coi pagani, perché temeva che, non concedendolo, gli ebrei l'avrebbero praticata fra loro. Ma, mentre i teologi e canonisti medievali (a parte qualche autorevole eccezione) ne traevano la conclusione che, in virtù del cristianesimo, l'usura andava considerata illecita sempre e comunque (anche nei confronti dei non-cristiani); Calvino, proprio per la medesima ragione, mirava a giustificarla sempre e comunque, cioè anche all'interno della comunità cristiana. Egli cioè era convinto che la legge cristiana dell'amore avrebbe saputo impedire, in questo campo, ogni abuso; anche perché la vita comunitaria dei fedeli -secondo Calvino- andava in sostanza paragonata al commercio dei mercanti. Come infatti il denaro serve per mettere in comunicazione reciproca persone diverse, così vanno utilizzate le virtù del cristiano: "l'abilità con cui ciascuno esegue il dovere che gli è imposto e segue la sua vocazione, la capacità di fare ciò che è giusto, ecc.". * * * Il suo sofisma di partenza si basava su una distinzione che già nel Basso Medioevo alcuni teologi avevano fatto tra "usura" e "interesse". "Nella nostra lingua francese, il vocabolo "usura" è abbastanza in odio, ma gli interessi sono in voga senza difficoltà né scrupolo" (dice nel Commento sui cinque libri di Mosè). In pratica Calvino si era appropriato, svolgendole in maniera coerentemente borghese, di quelle considerazioni francescane che avevano portato alla nascita dei Monti di pietà. Istituzione, questa, che, nata in alternativa al fallimento della charitas nell'ambito della comunità cristiana, fu molto contestata da domenicani e agostiniani, perché con essa si chiedeva un "interesse" ai soggetti "bisognosi" di aiuto finanziario. I francescani replicavano che si trattava soltanto di una forma di risarcimento delle spese di gestione. Ma l'apporto specifico di Calvino è stato un altro. Egli fu il primo ad accettare l'idea (feticistica) che il denaro andava considerato come merce universale, dotata di vita propria, in grado di produrre altro denaro. Dopo aver costatato, amaramente, che il principio medievale della carità cristiana era venuto meno, Calvino pensò che era rimasto solo un modo per convincere il borghese a diventare "cristiano", pur restando "borghese": quello di assicurargli un interesse sui suoi crediti. E' stato così che il denaro è diventato più importante della proprietà della "terra". Col denaro infatti si potevano acquistare nei mercati urbani delle merci che con la terra non si potevano acquistare e che nella vita rurale non si sarebbero potute produrre. Il denaro è diventato tanto più "merce universale" quanto più sul mercato s'imponevano all'attenzione dei consumatori dei prodotti effimeri, non indispensabili alla sopravvivenza della classe lavorativa per eccellenza, quella contadina. Il vero sofisma di Calvino, quello assolutamente inedito, sta nell'aver distinto tra il profitto di soccorso o di consumo, destinato al povero o all'acquisto di beni di consumo, per il quale non è previsto alcun interesse, essendo esso improduttivo; e il prestito di produzione o d'investimento, non previsto dalla Bibbia, perché è un credito commerciale o d'impresa. Chi riceve del denaro in prestito e lo investe, deve pagare un giusto interesse. Il ragionamento, dal punto di vista borghese, è -come si può notare- perfettamente logico, ma appunto perché si era voluti assolutamente uscire da un'economia di autosussistenza, fondata sul valore d'uso, ovvero perché, nel democratizzare la vita rurale, abolendo il servaggio, si era preferito concedere ampia autonomia allo "spirito capitalistico" delle manifatture e dei commerci privati. * * * Naturalmente Calvino si rendeva conto che, potendo scegliere fra il concedere prestiti a un povero incapace di metterli a frutto, e il concedere gli stessi crediti a uno intenzionato a lavorare sodo, il borghese avrebbe sempre scelto la seconda alternativa. Egli dunque doveva escogitare un sistema per impedire che qualcuno potesse rivolgergli la seguente obiezione: chi potrebbe prestare senza interesse per soccorrere altri e non lo fa, col pretesto che col suo denaro può acquistare dei vantaggi con un buon investimento, è come se fosse un usuraio. I problemi di coscienza -come si può notare- avevano ancora un certo peso agli albori del capitalismo. Sapendo questo, Calvino si preoccupò di elencare una serie di
restrizioni sul prestito a interesse (si preoccupò naturalmente solo di
questo e non anche di come risolvere il problema della povertà): Tutte queste restrizioni sembrano volerci far capire che Calvino si assoggettò malvolentieri all'idea di dover concedere ampio spazio ai prestiti con interesse. In realtà egli lo fece con la convinzione ch'essi erano non solo legittimi ma anche indispensabili alla vita economica borghese. "E' chiarissimo -egli afferma- che agli antichi era proibita l'usura, ma dobbiamo riconoscere che ciò faceva parte della loro costituzione politica. Ne consegue che oggi l'usura non è illegale, purché non contravvenga all'equità a alla fraternità". In questo senso la sua opera segna una svolta epocale, un punto di non ritorno. L'usura non è più proibita come principio ma solo post-factum, cioè quando l'interesse richiesto diventa eccessivo. L'interesse prima proibito come principio ma tollerato in diversi casi particolari (uno era appunto quello dei Monti di pietà), ora diventa lecito come principio, nell'illusione che lo si possa proibire ogni volta che sembri contrario all'equità. Testi di Calvino
Testi su Calvino
Testi su Calvino e Capitalismo
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