Abbiamo davvero capito Aristotele?

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ARISTOTELE (I - II - III - IV)

Abbiamo davvero capito Aristotele?

La metafisica di Aristotele si divide in due settori (ontologia e teologia) che potrebbero restare anche separati. Ciò che li lega, in definitiva, è abbastanza irrilevante. Fa anzi specie che un filosofo del suo livello abbia introdotto un discorso su dio ragionando in maniera semplicistica, come fanno gli adolescenti, quando si chiedono, posti di fronte a una causa, quale sia la causa della causa e così via. Qui aveva ragione Marx, quando, nei Manoscritti del 1844, diceva che i credenti vogliono dimostrare l'esistenza di qualcosa partendo dalla sua inesistenza.

In altre parole, quando si osserva un fenomeno e si vuol cercare di capirne le cause, ad un certo punto ci si dovrebbe fermare, non tanto perché non si hanno elementi sufficienti per vincere l'ignoranza, ma, al contrario, proprio perché si è ben consapevoli che, oltre un certo limite, non si può andare. E questa umiltà nei confronti dell'insondabilità delle cose, dovremmo averla non solo nei confronti dei fenomeni umani, ma anche nei confronti di quelli naturali. La pretesa di voler conoscere tutto è semplicemente infantile, che però possiamo giustificare in una filosofia nata 2300 anni fa. Questo perché ogni volta che si vuole approfondire qualcosa, si arriva sempre a un punto - che poi è quello della libertà - in cui fermarsi è d'obbligo, in quanto, se si facesse il passo ulteriore, si direbbero cose facilmente contestabili.

Il fatto che Aristotele accetti l'idea di un qualcosa di "soprasensibile", di per sé non andava preso come un invito a credere in una qualche "divinità", anche perché Aristotele era più propenso ad accettare l'eternità dell'universo, escludendo quindi che potesse esistere un "dio creatore". Dicendo "soprasensibile" egli aveva soltanto in mente qualcosa di diverso da ciò che si può constatare usando il nostro pianeta come osservatorio del cosmo. Sulla Terra infatti tutto sembra avere un inizio e una fine: il "soprasensibile" (quello che non è soggetto a mutamento) doveva per lui trovarsi al di fuori della Terra, cioè appunto nell'universo. E doveva essere qualcosa di diverso dai quattro elementi che compongono il nostro pianeta (terra, aria, acqua e fuoco). Di qui l'ipotesi di una "quinta essenza", eterna, immutabile, senza peso e trasparente, che lui chiamò etere, in cui continuerà a credere persino il matematico Luca Pacioli, neoplatonico del XVI sec.

Tutto il discorso che Aristotele fa alla fine della sua metafisica, relativamente al cosiddetto "primo motore immobile", non è decisivo per capire la struttura dell'universo, in quanto sarebbe bastato parlare dei cinque suddetti elementi. Potrebbe benissimo essere stato scritto da qualcuno che ha cercato di conciliare, forzosamente, Aristotele con Platone. Anche perché Aristotele era uno scienziato: più che le cause ultime di tutte le cose, preferiva parlare di cause finali, cioè di "scopo dell'agire", o di leggi della trasformazione della materia, che da cosa magmatica e informe diventa ben definita e intelligibile (e non solo in astronomia, ma anche in fisica, botanica, zoologia ecc.). Oppure trattava, magistralmente, di argomenti di logica formale, che con la teologia non avevano attinenza.

Aristotele non pensò mai di attribuire all'universo una nascita, né, ovviamente, una fine. E' vero che per lui l'universo non era, eterno e, insieme, infinito, poiché, come tutti i greci (che in questo caso son appunto come i bambini), preferiva un universo perfetto proprio in quanto finito. L'idea di infinito sconcertava: al massimo veniva ammessa sul piano matematico, come ipotesi astratta, non riguardante la fisica vera e propria.

Oggi invece siamo arrivati alla conclusione che è proprio l'infinità spaziale dell'universo (che corrisponde appunto alla sua eternità temporale) che assicura a noi, come essenza umana, una unicità nell'universo. Il genere umano è universale in quanto l'universo è l'unico luogo adeguato a contenerlo. L'universo dell'essere umano è il suo proprio universo.

Occorre però ribadire che non esiste per Aristotele alcun "dio creatore"; al massimo può esistere un "dio regolatore", cioè un qualcosa che spieghi il movimento della materia: l'unico vero argomento per lui meritevole d'interesse. D'altra parte nessun greco ha mai pensato a una "creazione dell'universo" da parte di un dio dotato di superpoteri (gli stessi dèi erano sottoposti al fato, cioè a leggi imperscrutabili). Se si può rimproverare qualcosa ai greci non è tanto l'idea di negare che dal nulla possa nascere qualcosa, quanto piuttosto di non aver capito che il non-essere ha un ruolo decisivo per la stessa natura dell'essere, essendo fonte di libertà e di diversità.

La materia, nella sua origine, apparteneva all'ambito del non-essere, che, nelle sue profondità, resta inaccessibile all'essere, come la coscienza possiede elementi inconsci, che restano, in ultima istanza, non chiaramente definibili. D'altra parte la stessa creazione raccontata nel Genesi ebraico sembra più che altro finalizzata a far capire a un essere umano del tutto smarrito quale sia la sua origine nell'universo e quindi il suo significato sulla Terra.

E' un racconto pedagogico, che serve per spiegare il momento di passaggio da una condizione naturale, quella del comunismo primordiale, a una molto innaturale, quella dello schiavismo. In quella naturale non vi era alcuna vera differenza tra uomo e dio, in quanto entrambi "passeggiavano" nel giardino, cioè l'uomo aveva consapevolezza d'essere padrone della propria vita, mentre in quella innaturale ha piena consapevolezza d'essere schiavo di qualcun altro.

Quando Aristotele delinea una cosmologia così chiusa e perfetta, lo fa dal punto di vista di un osservatore terrestre, usando ragionamenti di tipo deduttivo; ma questa descrizione lasciava, in un certo senso, impregiudicato il significato profondo dell'universo, che va necessariamente al di là di qualunque osservazione.

La sua teoria cosmologica ha avuto così grande successo semplicemente perché, senza strumenti tecnologici avanzati, era la migliore possibile, quella più convincente. Anzi, se nell'universo esiste un finalismo (e il caso spiega soltanto i fenomeni accidentali), noi dovremmo dire che il geocentrismo è una scienza "istintivamente" esatta, in quanto soddisfa le esigenze della coscienza umana. Non perché - come diceva la chiesa - esiste un dio, ma proprio perché non esiste.

Noi siamo al centro dell'universo, proprio perché l'universo è ateo. Gli unici esseri viventi dell'universo sono quelli del pianeta Terra, del nostro presente e anche del nostro passato, poiché tutto, ivi inclusi quindi gli esseri umani, è in perenne trasformazione. Noi non vediamo gli esseri umani che ci hanno preceduto, semplicemente perché li osserviamo dal punto di vista terrestre. Ma il punto di vista che meglio caratterizza gli umani è quello universale, che rispecchia in maniera più adeguata le caratteristiche della loro libertà di coscienza, che è eterna e infinita.

La scienza moderna, quella nata in epoca borghese, ci ha spiegato come funzionano le cose materialmente, ma, tenendo separata la materia dal suo fine, ci ha fatto perdere la visione d'insieme.

RIFLESSIONI

Leggendo Aristotele si ha l'impressione che i guasti causati dalla sofistica e soprattutto da Platone siano stati irreparabili. Probabilmente il vertice della filosofia greca è stato raggiunto da Socrate. Lo stesso materialismo naturalistico non ha più eguagliato gli sviluppi ionici e milesi.

Aristotele, infatti, supera sì il platonismo, ma resta inesorabilmente impigliato nella rete della metafisica. Egli non solo non riesce a dare una concretezza storico-dialettica al materialismo naturalistico, ma non riesce neppure a dare una dignità effettivamente laica alla metafisica (anche se, probabilmente, l'equiparazione di metafisica e teologia fa parte del giovane Aristotele, quello "platonizzante").

Resta comunque il fatto che Aristotele ha definito la metafisica come una scienza teoretica, astratta, fine a se stessa, senza scopi pratici. Questo atteggiamento - come noto - rientra nel modo più generale di porsi dell'idealismo. Aristotele ha sempre rifiutato di credere che la filosofia sia nata da cause oggettive, materiali, dalle contraddizioni della vita sociale. Per lui la metafisica era nata dall'esigenza di conoscere, a prescindere dalla realtà concreta. Il suo giudizio sugli ionici e sugli eleati è spesso fuorviante.

Paradossalmente, in questo Aristotele è più conservatore di Platone, il quale, pur avendo affermato un essere assai lontano dalla realtà (in quanto doveva essere la realtà a modellarsi sulle idee e non queste a riflettere la realtà), aveva però intenzione, sul piano etico-politico, di costituire un progetto significativo. Viceversa, Aristotele, che pur senza volerlo ha saputo mostrare un senso della realtà più spiccato (anche se non in senso storico, politico e sociale), sembra piuttosto assomigliare a un positivista come Comte, o a un filosofo della scienza estraneo alla politica (come il Kant della prima Critica). D'altra parte ai tempi di Aristotele la polis era morta ed egli si pone come filosofo di un impero ellenistico il cui sovrano, Alessandro, vuole essere considerato come un dio.

Nella metafisica di Aristotele la definizione dell'essere diventa una questione di "linguaggio". Il linguaggio (la logica anzitutto) permette di osservare l'essere da diversi punti di vista, i quali però sono tutti riconducibili a uno solo: quello di sostanza. Essere e sostanza coincidono, ma è la sostanza, in ultima analisi, che decifra l'essere. Ogni aspetto del reale partecipa dell'entità dell'essere solo nella misura in cui il filosofo è in grado di individuarne la sostanza. Platone era totalitario sul piano politico, Aristotele lo diventa su quello ontologico (il che, in un certo senso, è peggio).

Nel dare un maggiore risalto alla realtà fisica (rispetto a quanto aveva fatto Platone), Aristotele nega che una realtà la cui sostanza non sia individuabile dal filosofo, possa partecipare all'essere. Qui sta il suo arbitrio intellettuale. L'essere di Aristotele è un'entità puramente logica, e la realtà che lo esprime ha senso solo in quanto manifesta un'intrinseca coerenza logica (stabilita dal filosofo-enciclopedista per mezzo del sillogismo, che è il modo di ragionare affermatosi in Occidente). L'idea di sostanza è deducibile per mezzo del sillogismo. In tal modo la realtà diventa un fenomeno meramente formale.

Perché Platone non era arrivato a formalizzare l'essere in categorie? Perché, tutto sommato, aveva ancora una concezione mistica dell'essere. Un essere che si lascia troppo "definire" era, per Platone, un essere poco assoluto, poco eterno o poco infinito. Tanto è vero che per costruire il nesso idee/natura, Platone si era sentito in dovere di elaborare il concetto di demiurgo. Anche se, bisogna dirlo, l'ultimo Platone, quando fa la revisione della sua teoria delle idee, privilegiando la metessi alla mimesi, pone le premesse per gli sviluppi della logica aristotelica.

In astratto si potrebbe dire che nella filosofia di Aristotele vi è maggiore realismo rispetto a quella platonica, benché tale realismo resti rigorosamente circoscritto nell'ambito formale del linguaggio logico (epistemologico). L'essere diventa un'entità conoscibile solo in maniera logico-speculativa, del tutto separata da qualunque considerazione etico-politica.

Il preteso disinteresse della conoscenza filosofica è in Aristotele una finzione che maschera la precisa esigenza di padroneggiare la realtà con la logica formale. L'essere, in Aristotele, non è più grande dell'uomo che lo comprende. L'oggettività dell'essere corrisponde alle qualità logico-formali che il soggetto gli attribuisce.

La logica ferrea, matematica, di Aristotele permea anche i concetti di "essere in atto" ed "essere in potenza". Facendo derivare, in ultima istanza, la potenza dall'atto (non in modo cronologico, ovviamente, ma in modo ontologico), cioè considerando l'atto anteriore alla potenza (cosa ch'egli si preoccupa di dimostrare anche in modo fisico), Aristotele, in pratica, può giustificare qualunque realtà.

Egli infatti cerca fra atto e potenza una perfetta corrispondenza dal punto di vista dell'atto, per cui è costretto a escludere a-priori la possibilità che la potenza generi un atto diverso da quello effettivamente prodotto (qui Gentile è molto debitore nei confronti di Aristotele).

Per Aristotele ogni potenza può generare solo l'atto corrispondente (o comunque un atto previsto a-priori, anche perché determinato in modo fisicistico, meccanicistico: cosa che Gentile non farà, avendo egli la nozione di "spirito"). Aristotele è comunque solito servirsi di principi fisici per dimostrare quelli metafisici (Schelling lo seguirà in questo).

Il principio di non-contraddizione rientra nell'esigenza di stabilire a-priori l'essenza delle cose, sulla base della loro logicità. E' reale solo ciò che è razionale: qui Hegel deve molto ad Aristotele.

Il dio di Aristotele è un dio che "pensa" senza far nulla, è un dio impassibile, imperturbabile, senza emozioni né sentimenti, completamente freddo: solo il pensiero è "caldo", ed è esso che eccita la curiosità intellettuale del filosofo.

***

Se Aristotele non fosse partito da una valutazione negativa dell'individuo umano, non avrebbe detto che l'essere è perfetto proprio perché impersonale. Quando parla di "primo motore", intende qualcosa di molto statico, meccanicistico, una sorta di automa del tutto distaccato dalle vicende umane. Poste le cose in questi termini, la presenza stessa degli esseri umani sulla Terra risulta poco spiegabile. Non ha infatti alcun senso la presenza di un essere così intelligente e sensibile dovuta alla mera casualità. Deve per forza esistere nell'universo qualcosa di inerente alla natura umana, che spieghi l'origine di quest'ultima. L'autosufficienza dell'essere ha senso fino a un certo punto. Gli esseri umani partecipano a un'essenza umana universale, per cui tutto ciò che fanno non può non riguardare l'essere. Questo significa che se l'essere umano soffre, soffre anche l'essere. Ciò che gli uomini non possono fare è impedire all'essere d'essere se stesso. Noi facciamo parte di qualcosa che ha una natura irreversibile: non è possibile distruggere l'essenza umana, poiché essa è eterna e infinita. Qui si ha a che fare con qualcosa (l'essere umano) di unico nel suo genere. Tutto il resto è accidentale, gli è correlato, relativo alle forme che ci sono date da vivere sulla Terra. E' il compito che abbiamo è quello di rendere le forme terrestri compatibili con l'essenza della nostra natura umana. Cosa che da quando sono nate le civiltà antagonistiche non riusciamo più a fare, con grave pregiudizio per lo sviluppo della nostra identità.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 25-01-2016