TOMMASO D'AQUINO E LA DOTTRINA DEL GIUSTO PREZZO

TEORICI
Politici Economisti Filosofi Teologi Antropologi Pedagogisti Psicologi Sociologi...


TOMMASO D'AQUINO E LA DOTTRINA DEL GIUSTO PREZZO

I - II - III - iV - V - VI - VII

La dottrina del "giusto prezzo" dei canonisti medievali oggi ci appare incredibilmente deficitaria, con punte addirittura d'ipocrisia, in quanto si serviva di argomenti esclusivamente etico-religiosi per impedire che l'economia borghese, sviluppatasi a partire dal Mille, degenerasse. Dove stava l'ipocrisia? Non era forse giusto regolamentare eticamente le transazioni commerciali?

L'ipocrisia stava appunto in questo, che si dava per scontata l'esistenza di transazioni commerciali inique, cui si cercava di porre rimedio esclusivamente con strumenti etici. Gli intellettuali di chiesa appartenevano a una categoria sociale privilegiata: nessuno di loro (se non qualche "eretico") metterà mai in dubbio la necessità del servaggio e della rendita feudale. È quindi evidente che quando cominciò a formarsi, a lato di questo sfruttamento del lavoro contadino, un tipo di attività che prescindeva totalmente dal possesso o dall'uso della terra, in quanto si affidava esclusivamente ai commerci, i quali inizialmente dovevano per forza essere a lunga distanza, affinché il mercante potesse accaparrarsi di merci rare e preziose da rivendere con grande vantaggio, l'etica economica medievale non poteva sentirsi legittimata a mettere dei paletti oltre i quali non si potesse andare. L'unica cosa che poteva fare era quella di tollerare spazi di manovra sempre più larghi per il profitto individuale, cioè offrire giustificazioni sempre più ampie.

D'altra parte dopo il Mille erano gli stessi ambienti ecclesiastici che praticavano il commercio, la finanza, gli affari economici in generale. Si pensi agli Ordini teutonico e templare o al Priorato gerosolimitano, ch'erano ricchissimi, ma anche al papato avignonese, specializzato nel prestito a interesse. Furono proprio le crociate a sconvolgere completamente l'economia europea, indirizzandola in maniera decisa verso lo sviluppo del capitalismo mercantile e manifatturiero, aperto a un mercato potenzialmente mondiale.

La teologia tomistica, che emerge proprio nel pieno di questo rivolgimento economico, è tutta improntata sul "moralismo", proprio perché sa di non avere le forze sufficienti per rovesciare un processo che appare irreversibile. Il lucro viene considerato lecito quando è "ragionevole" e quando è voluto per scopi onesti, come p.es. il mantenimento della propria famiglia, il decoro della città, l'elemosina ai poveri ecc. È questa, in estrema sintesi, la filosofia tomistica in campo economico. Cioè san Tommaso sentiva di non poter fare altro che affidarsi alle "buone intenzioni" dell'affarista.

Nei confronti dei mercanti che, per buona parte della loro vita, non avevano mostrato particolare attitudine a fare il bene, si chiedeva di compiere un atto riparatorio, cedendo, p.es., una parte delle loro ricchezze a opere di carità (cosa che, in genere, si faceva nei testamenti di morte). Gli usurai però non potevano lasciare alla chiesa i loro patrimoni, frutto di rapina, a meno che - aggiunge l'Aquinate - non fosse possibile rintracciare le persone danneggiate, per restituire loro il maltolto. Insomma i mercanti potevano facilmente mettere in pace la loro coscienza, facendo lasciti, donazioni o semplici elemosine ai bisognosi o a chi si curava della loro misera sorte, quando addirittura non compravano le indulgenze vendute dal clero.

Si è fatto un gran dire, avvicinando addirittura S. Tommaso a Marx e Adam Smith, quando affermava che il valore dei beni è dato dal lavoro umano, ma si dimentica spesso di aggiungere che tale lavoro costituiva solo una porzione del valore di scambio delle merci, in quanto un'altra parte era costituita proprio dallo scambio in sé, che non poteva essere tenuto sotto controllo tanto facilmente. Meno che mai nell'area occidentale dell'Europa, dove le istituzioni politiche ed ecclesiastiche feudali non hanno mai potuto esercitare un effettivo controllo sulla produzione economica borghese, tendenzialmente individualistica o, al massimo, corporativa.

Quando Tommaso parlava di valore del lavoro, lo faceva soltanto per impedire l'usura, ch'era un guadagno su una cosa, il denaro, che, a quel tempo, i teologi ritenevano "morta", in quanto andava concepito come semplice mezzo di scambio e non come una fonte di accumulazione illimitata. Per Tommaso vi era usura persino là dove il compratore aumentava il prezzo della sua merce a chi era disposto ad acquistarla soltanto a rate.

Infatti, se si guarda più da vicino come Tommaso intendeva il lavoro, ci si accorgerebbe ch'egli lo valutava in rapporto alla classe sociale di appartenenza del lavoratore. Il che voleva dire che il lavoro compiuto nelle Arti maggiori aveva sicuramente maggiore valore di quello compiuto nelle Arti minori, a prescindere da qualunque altra valutazione.

Nella sua teologia era impensabile l'elevamento del singolo fino a raggiungere il livello della classe superiore (a meno che non fosse un chierico); non solo, ma gli appariva impensabile persino il contrario, e cioè l'abbassamento del soggetto al gradino inferiore, anche nel caso in cui ci si fosse privati della propria ricchezza per darla ai poveri. Per lui ogni individuo doveva avere ciò che gli bastava per vivere in maniera conforme al proprio rango, deciso dalla nascita, per volere divino.

Naturalmente anche Tommaso sapeva che il valore di un oggetto non stava soltanto nel lavoro che l'aveva prodotto, ma anche nel costo delle materie prime e dell'attrezzatura per fabbricarlo. Tutte cose che, nell'ambito delle corporazioni, potevano essere abbastanza controllate. Abbastanza perché egli stesso si rendeva conto che calcolare il "giusto prezzo" di una merce era, in ultima istanza, impossibile. Ecco perché sosteneva che la compravendita era lecita quando il prezzo non oscillava troppo al di sopra o al di sotto di quello teoricamente giusto.

Quello che però non sapeva, perché non voleva sapere, era che nella determinazione del prezzo della merce influiva pesantemente anche lo sfruttamento del lavoro altrui, cioè quella parte di valore che non viene pagata e che impedisce che sul mercato la domanda e l'offerta stabiliscano il giusto prezzo della merce.

Per lui il guadagno illecito era soltanto quello che si realizzava senza impiegare alcun lavoro, cioè in sostanza una transazione meramente finanziaria. Non era anche quello in cui si usava il lavoro altrui come mezzo di sfruttamento. Infatti in tal caso egli si limita a sostenere che non vi è alcuno sfruttamento là dove il salario è equo. L'equità stava tra quel minimo che garantisce la sopravvivenza e quel massimo che in coscienza decide di dare il proprietario dei mezzi produttivi, e che sarà tale da impedire ad altri di ritenerlo un avaro.

L'etica cattolica non si sognava neanche lontanamente di porre le condizioni perché non vi fosse alcun lavoro salariato, alcuna necessità di acquistare merci sul mercato, cioè non si preoccupava affatto di chiedere la realizzazione di una riforma agraria che spezzasse il latifondo e permettesse ai contadini, una volta divenuti proprietari di un lotto di terra, di poter vivere di autoconsumo, vendendo o scambiando soltanto le eccedenze.

Che l'Aquinate fosse dalla parte del venditore o del proprietario e non dell'acquirente o del lavoratore sfruttato, è testimoniato anche dal fatto che, secondo lui, il mercante, mentre vende la propria merce, non è tenuto a far sapere all'acquirente che il prezzo di quella stessa merce, per motivi contingenti, è destinato a scendere in tempi brevi. Ognuno deve fare il proprio lavoro, possibilmente secondo coscienza: non si può chiedere al mercante d'essere generoso. Al massimo gli si può chiedere d'essere giusto. E, per esserlo, deve limitarsi a non vendere pensando di sfruttare il bisogno altrui, meno che mai quando questo viene artatamente indotto, rendendo, p.es., una determinata merce poco accessibile sul mercato, in maniera da far salire la domanda e quindi il suo prezzo.

Alla fine egli deve ammettere che sarebbe meglio parlare non di "giusto prezzo", sempre molto difficile da stabilire oggettivamente, ma di "prezzo conveniente", lasciato alla discrezione del venditore (una discrezione che, in caso di merce difettosa, diventava un vero e proprio obbligo morale, onde evitare la frode). Era in sostanza come ammettere che il valore di scambio è sempre più importante del valore d'uso e che quindi il vero valore di una merce sta soltanto nel suo prezzo.

Infatti non serve a niente sostenere un giusto prezzo, stabilito dal lavoro, dalle spese, dalla qualifica del lavoratore, e poi sostenere che, in ultima istanza, sulla base di circostanze contingenti del mercato, quello che conta è il prezzo conveniente, cioè quello soggettivo deciso dal mercante. Oggi un modo di ragionare del genere sarebbe stato considerato dai lavoratori quanto meno una turlupinatura.

San Tommaso si sarebbe difeso da questa accusa dicendo che l'unica cosa che poteva fare il legislatore era quella d'impedire che si formassero dei monopoli, capaci - come noto - di decidere i prezzi che vogliono. In particolare egli era a favore dell'intervento dello Stato laddove si poteva rischiare un problema serio (come p.es. nei generi alimentari) dovuto a sfavorevoli condizioni climatiche o di altro genere. Il che si traduceva nel cercare di rendere i prezzi più bassi che fosse possibile, data l'eccezionalità del momento.

Tuttavia egli non chiedeva molto di più allo Stato, poiché voleva porre il singolo di fronte alla propria coscienza. Se il giusto prezzo non era compatibile col prezzo conveniente, doveva essere la coscienza a risolvere il problema. Al massimo il legislatore poteva intervenire sui mercati locali, cercando d'impedire i prezzi monopolistici e gli abusi più evidenti, ma nulla poteva sui mercati internazionali e tanto meno nel campo del commercio della moneta, luogo privilegiato per i guadagni più lauti.

In soldoni, tutta l'etica economica della Scolastica è un continuo sforzo moralistico di contenere gli effetti negativi del capitalismo nascente, senza mai mettere in discussione le contraddizioni del sistema feudale: un modo di arrabattarsi che, proprio per questa ragione, si troverà completamente spiazzato di fronte alle più moderne teorie calvinistiche.

Purtroppo però ancora oggi i medievisti cattolici attribuiscono il trionfo del capitalismo all'egoismo della borghesia di religione protestante, continuando, come i medievali canonisti, a non spendere una parola sull'egoismo dell'aristocrazia laica ed ecclesiastica di religione cattolica.


Testi

Download


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 26-04-2015